Si fa presto a dire crescita
di Silvia Zamboni –
La combinazione tra crisi economica e crisi ecologica rende evidente che la società della crescita è finita, ma che ancora non sappiamo come costruire una società del benessere per tutti
Di fronte alla crisi economica e occupazionale e alla crisi del debito pubblico che attanagliano il nostro paese, la parola ripetuta come un mantra salvifico è “crescita”. Quasi taciuto, invece, è il fatto che a questa fase di stallo economico, attraversata anche da altri paesi tra quelli di più vecchia industrializzazione, si accompagna, nel mondo, la crisi ecologica dovuta alla perdita di biodiversità e al superamento della carrying capacity del pianeta. Sarebbe interessante dunque che si discutesse a quale crescita si punta, per evitare la perpetuazione di questo modello economico-produttivo che ci ha portati alla non meno drammatica crisi dei cambiamenti climatici, e che ha nel Pil l’unità di misura per eccellenza dello stato di salute dell’economia. Essendo la crisi economica intrecciata da un lato a quella energetica (leggi: fine dell’epoca del greggio a basso costo e, nel caso dell’Italia, bolletta energetica che nel 2011 ha toccato i 62 miliardi di euro) e, dall’altro, a quella dei cambiamenti climatici, perché non coglierla come opportunità di cambiamento in direzione della sostenibilità ambientale e sociale?
Anche il parlamento tedesco ha recepito i segnali di inquietudine verso la riproposizione di un’idea di crescita tradizionale, e ha istituito la Commissione d’inchiesta “Crescita, benessere, qualità di vita”. Obiettivo della Commissione è “lo sviluppo di un nuovo indicatore di progresso che, pur facendo ancora riferimento anche al Pil”, modifichi questa unità di misura del benessere sociale “basata su criteri puramente economici e quantitativi” includendo “criteri ecologici, sociali e culturali”. “Riparare i buchi nelle strade fa aumentare il Pil, ma non rende le persone più felici, né contribuisce al progresso della società”, ha dichiarato la socialdemocratica Daniela Kolbe, Presidente della Commissione. “Per questo sono rilevanti gli aspetti ambientali; ma anche l’accesso all’istruzione, la qualità del sistema sanitario e la redistribuzione del reddito”. Parole che riecheggiano ciò che Bob Kennedy sosteneva già nel 1968, ovvero che il Pil non bastava più per indicare il grado di benessere e di progresso di una società. Una conclusione a cui è giunto anche il presidente francese Nicholas Sarkozy, che nel 2008 ha insediato la “Commissione Sarkozy sulla misura della performance dell’economia e del progresso sociale”. Di questo pool di esperti, che aveva a capo i premi Nobel Joseph E. Stiglitz e Amartya Sen, e Jean-Paul Fitoussi dell’Istituto di Studi Politici di Parigi (IEP), hanno fatto parte anche Nicholas Stern (che ha legato il suo nome al famoso Rapporto Stern del 2006 sulle conseguenze economiche dei cambiamenti climatici), ed Enrico Giovannini, presidente dell’ISTAT. Nel “Rapporto Stiglitz”, pubblicato nel novembre 2010 a fine lavori, in riferimento all’inadeguatezza dei dati statistici che orientano analisi e valutazioni dello stato di salute dell’economia, si legge che “le statistiche di uso comune potrebbero non registrare alcuni fenomeni che hanno un crescente impatto sul benessere dei cittadini. Ad esempio, gli ingorghi di traffico possono aumentare il Pil a causa del maggiore utilizzo della benzina, ma ovviamente non la qualità della vita. Inoltre, se i cittadini sono preoccupati per la qualità dell’aria e l’inquinamento atmosferico è in aumento, le misure statistiche che ignorano l’inquinamento atmosferico forniranno una stima imprecisa di ciò che sta accadendo al benessere dei cittadini”. E più avanti: “Siamo anche di fronte a una incombente crisi ambientale, in particolare associata al riscaldamento globale. I prezzi di mercato sono falsati dal fatto che non vi è alcun onere imposto alle emissioni di carbonio; e non si è fatto nessun calcolo del costo di tali emissioni nella contabilità standard del reddito nazionale. Chiaramente, le misure di performance economica che riflettono questi costi ambientali potrebbero essere molto diverse dalle misure standard”.
Raccogliendo l’invito rivolto dalla Commissione che ogni paese si doti di una “tavola rotonda sul progresso” cui dovrebbero partecipare i rappresentanti di tutte le componenti della società, l’ISTAT e il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) hanno fatto di quest’ultimo la sede della “tavola italiana” con il compito di discutere sul modello di sviluppo da realizzare e sugli indicatori chiave da selezionare per monitorare i risultati ottenuti.
Per spinte in parte autogene interne al mercato e in parte con il sostegno degli incentivi nel settore delle energie pulite, e sotto la pressione di vincoli di legge europei, in particolare per ridurre le emissioni di gas climalteranti, è intanto la green economy che prova a dare una risposta concreta contemporaneamente alla crisi economica-occupazionale, a quella energetica e a quella climatica: per limitarci al nostro paese, stando al rapporto Green Italy 2011 della Fondazione Symbola e di Unioncamere, il 38% delle nuove assunzioni programmate l’anno scorso in Italia ha riguardato i settori dell’economia verde; mentre le imprese che tra il 2008 e il 2011 hanno investito o deciso di investire in tecnologie e prodotti green ammonterebbero al 23,9%. Per parte sua, la Fondazione Sviluppo Sostenibile, presieduta dall’ex ministro all’Ambiente Edo Ronchi, ha copromosso il manifesto per un futuro sostenibile dell’Italia, sottoscritto anche da decine di imprenditori: sette punti per affrontare la crisi economica e sociale insieme a quella ecologica, riqualificando il nostro sviluppo nella direzione della green economy.
L’associazione tra crisi economica e crisi ecologica ha aumentato, peraltro, le schiere di chi sostiene che è suonata l’ora della decrescita felice. Una sorta di self-fulfilling prophecy alle nostre latitudini. Con quanta felicità resta però da dimostrare, se consideriamo i grandi numeri di chi subisce la crisi, al di là delle esperienze di piccole comunità-pilota che hanno scelto di uscire dal circuito classico dell’economia. Anche se è fuori dubbio che ci sono consumi che devono e possono essere felicemente ridimensionati senza ridurre i servizi: basti pensare alla potente leva dell’uso efficiente delle risorse naturali e dell’energia (vedi il “fattore 5” tematizzato da Ernst Ulrich von Weiszaecker).
Sull’impegnativo tema “Benessere senza crescita” si è cimentata l’edizione 2011 dei Colloqui di Dobbiaco (1-2 ottobre). Il punto è che il modello di società post-crescita non esiste ancora, ha ammesso all’apertura dei lavori il coordinatore dei Colloqui, Karl Ludwig Schibel. “La società della crescita è senza futuro” ha ribadito, “ma chi pretende di conoscere la Gestalt (la forma) della Nuova Società post-crescita è piuttosto vittima di un’illusione che fonte di una visione”. Oggi, ha osservato, colpisce più che mai la solitudine dell’ambientalista, circondato dal coro generale di politici, sindacati, imprese e media che cantano “un solo motivo: crescita, crescita, crescita”. Una crescita invocata ad “ogni costo e senza uno sguardo su che cosa cresce, chi ci guadagna, la qualità dei posti di lavoro che (forse) nascono, i costi per l’ambiente”. Agli occhi solitari dell’ecologista “quasi ogni notizia andrebbe riscritta. La Fiat ha venduto nel primo semestre il 15% di automobili in meno? Che bel risultato! Il caro benzina? Un piccolo passo nella direzione giusta per far pagare agli automobilisti il prezzo vero della mobilità motorizzata individuale. I saldi non sono andati bene? Bene. Evidentemente gli armadi sono pieni”. Ma poi, ha proseguito Schibel, sopraggiunge una profonda perplessità. “Il calo delle vendite della Fiat ha un effetto benefico sull’ambiente ma minaccia anche posti di lavoro di migliaia di operai che difficilmente ne troveranno un altro, il calo degli acquisti nei saldi farà chiudere qualche negozio impoverendo ulteriormente il centro storico”. Il modello di economia e di consumi che ha dominato negli ultimi duecento anni nei paesi di più antica industrializzazione, ha osservato Schibel (e che è divenuto un riferimento per quelli emergenti), resta prevalente nell’immaginario e nei desideri, nonostante la crisi economica ed ecologica consiglino di seguire una strada diversa. “Manca una visione emotiva e identitaria di uscita dalla società della crescita. Ci sono singole esperienze di qualche quartiere senz’auto, di qualche città di transizione, di comunità ecologiche, d’imprese che hanno realizzato un ciclo produttivo ‘dalla culla alla culla’, ma sono sconnesse e non hanno il respiro di una visione comprensiva di trasformazione economica e culturale della società della crescita”.
A spegnere gli entusiasmi per l’economia verde ci ha pensato Tilman Santarius, responsabile clima e energia presso la Fondazione Heinrich-Boell, legata ai verdi tedeschi. Nel suo intervento ai Colloqui, Santarius si è concentrato sul cosiddetto “effetto rebound” (letteralmente effetto rimbalzo), ossia il paradosso per cui l’aumento dell’efficienza energetica produce un incremento della domanda di energia vanificando, a causa dell’aumento dei consumi, il risparmio energetico ottenuto. Le innovazioni tecnologiche, è facile profeta Santarius, miglioreranno in futuro l’attuale rendimento energetico delle fonti rinnovabili, tuttavia non si apriranno dei margini di crescita infiniti. Conclusione: per arginare gli effetti rebound e fare fronte al calo di rendimento energetico delle fonti pulite rispetto al petrolio occorre cambiare anche la mentalità ispirata finora alla crescita e non fare dipendere il benessere dall’aumento del Pil, ma dal piacere di vivere meglio consumando meno risorse e meno energia.
Anche secondo Ralf Fücks, Presidente della Fondazione Heinrich-Boell, è fuori discussione “che l’odierno modello di crescita non è capace di futuro” perché impatta eccessivamente sugli ecosistemi e non garantisce un benessere stabile. La crisi del debito pubblico e la crisi ecologica sono due facce della medesima medaglia, frutto di una politica che ha sempre puntato sui prestiti sul futuro: di risorse finanziarie e di natura, producendo due debiti che pesano sulle generazioni future”, ha detto intervenendo al convegno dell’Associazione ecologisti democratici “La via italiana alla green economy” (Roma, 13 gennaio 2011). Parlare però di fine della crescita economica “è finzione allo stato puro, perché, al contrario, stiamo attraversando un gigantesco ciclo di crescita, destinato a proseguire nei prossimi decenni, alimentato da due potenti fattori: da un lato l’aumento della popolazione mondiale dai circa 7 miliardi odierni di esseri umani ai nove miliardi previsti nel 2050, e dall’altro la possibilità per la stragrande maggioranza degli abitanti della Terra di soddisfare finalmente i propri bisogni”. Mentre noi discutiamo di limiti della crescita, ha scritto Fücks, “le popolazioni di Asia, America Latina e Africa stanno per realizzare il sogno di una vita migliore, una vita simile a quella che conduciamo noi, con case moderne, alimenti differenziati, televisione, computer e telefoni, abiti alla moda e viaggi in paesi stranieri. Niente e nessuno potrà distoglierli da questi obiettivi”. Se anche per lui è innegabile l’esistenza di limiti alla crescita di natura ecologica, a 40 anni dalla pubblicazione del Rapporto del Club di Roma sui “Limiti dello sviluppo” (il titolo originale in inglese in realtà era “Limiti della crescita”) Fücks propone un’inversione di prospettiva e il passaggio al concetto di crescita dei limiti, grazie, ad esempio, all’apporto delle nanotecnologie, all’inesauribile energia solare alla base di ogni processo produttivo in natura, al riciclo, alla bionica. Il rischio di perdere la corsa contro la crisi climatica c’è, riconosce; ma c’è anche la possibilità di vincerla, se si riuscirà ad aumentare l’efficienza e ad effettuare la transizione alla società delle energie e delle materie rinnovabili. Crescere con la natura: è in questo che consiste la rivoluzione industriale verde. “Crescita zero in Europa non è la risposta alla crescita tumultuosa in corso nel resto del mondo”, sostiene Fücks. “Piuttosto, l’Europa dovrebbe investire il suo orgoglio nel porsi alla testa della modernizzazione ecologica”, mettendo in moto un Green New Deal Europeo. A cominciare dalla realizzazione di una smart grid europea che metta in rete la produzione di elettricità pulita da varie fonti rinnovabili: quella eolica del nord Europa, con quella solare del sud, con quella da biomasse di ampie regione dell’est. Puntando alla completa autonomia e al 100% di elettricità da rinnovabili al 2050.
l’articolo è uscito sul numero di febbraio 2012 di micron, bimestrale edito da ARPA Umbria