Calamandrei e l’impegno per una Costituzione chiara
di Rossella Aprea –
La nostra storia recente, come Paese libero e moderno, poggia le basi su un documento oggi al centro di discussioni e di possibili, anche profonde, revisioni. Un documento che, quando fu concepito, nel lontano 1947, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, rappresentò un complesso sforzo di sintesi tra forze politiche profondamente diverse, ma animate da un obiettivo comune: dare all’Italia una Costituzione.
Emblematica fu la dichiarazione di Togliatti al momento della votazione finale “il Partito Comunista è fuori dal governo, ma non fuori dalla Costituzione”. Queste diverse forze politiche che avevano operato per restituire all’Italia la libertà, mantennero lo spirito di collaborazione necessario per portare a compimento il mandato ricevuto dagli Italiani: redigere la Carta fondamentale del nuovo Stato, rispettando gli ideali e i valori di tutti, in modo tale che tutti gli Italiani vi si potessero riconoscere.
Un compito arduo, ma di alto spessore politico. Quali insidie, però, quali limiti e quali pericoli per il futuro contenesse quell’articolato, che stava prendendo corpo a seguito di interminabili discussioni di confronto e mediazione, furono indicati con profetica lungimiranza da uno dei massimi giuristi della nostra storia repubblicana, Piero Calamandrei. Anche lui, coinvolto nel progetto, membro della prima sottocommissione per la definizione dei diritti e dei doveri del cittadino, tenne un discorso lucido e appassionato all’assemblea Costituente il 4 marzo del 1947.
( Piero Calamandrei, Chiarezza nella costituzione, Editore Storia e Letteratura, 2012)
Le parole di monito, le critiche costruttive enunciate con chiarezza toccano tutti i più importanti e gravi problemi in cui il nostro Paese si sta dibattendo da decenni. I rischi e le derive pericolose che si sarebbero potute verificare in Italia erano stati già tutti previsti ed evidenziati da Calamandrei solo attraverso l’attenta osservazione del modo in cui si stava redigendo la carta costituzionale. L’attualità delle questioni poste sul tappeto è davvero impressionante. “L’esame di maturità della democrazia”, come lo definì Calamandrei, doveva essere almeno superato “coi pieni voti legali”.
La Costituzione, a suo avviso, stava nascendo senza uno stile omogeneo, anzi quasi priva di qualsiasi stile, e questa mancanza non rappresentava un problema unicamente formale, ma sostanziale. Il rispetto della “religiosa esattezza della lingua italiana”, se fosse stato garantito, non avrebbe lasciato, e non avrebbe dovuto lasciare, alcun pretesto all’interpretazione delle parole. La disomogeneità, che Calamandrei riscontrava con preoccupazione, rispecchiava la particolare genesi della Costituzione, i cui articoli venivano concepiti separatamente nelle diverse sottocommissioni per essere assemblati solo successivamente dal Comitato di coordinamento. Certamente, questo poteva spiegare la confusione di stili e di tempi, ma vi erano, in realtà, due ragioni più profonde, dettate da precise cause storiche:
1- la Costituzione era il preludio di “una rivoluzione… ancora da fare”;
2- sugli scopi, sugli obiettivi di questa rivoluzione non vi era accordo e non vi era chiarezza da parte dei componenti della Costituente.
Troppe volontà, “raggruppate in decine di tendenze”, stavano dando vita alla Carta costituzionale. L’unica tappa compiuta dalla rivoluzione era la Repubblica, “ma il resto” – diceva Calamandrei – “è tutto da fare, è tutto nell’avvenire”, per cui sarebbe stato necessario lavorare duramente.
Questo spiega perché quella che stava prendendo corpo venisse da lui definita una “Costituzione di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani; e quindi poco lungimirante”. Questa incapacità progettuale di lungo respiro, la nostra classe politica l’ha, dunque, manifestata sin dall’inizio della nostra storia repubblicana. La Repubblica rappresentava per Calamandrei la parte positiva della Costituzione così come il riconoscimento della sovranità popolare, della scelta del sistema bicamerale, dell’autonomia regionale e dell’istituzione della Corte costituzionale, ma era evidente ai suoi occhi il peso che la parte negativa avrebbe potuto avere nel tempo. L’incapacità dei partiti di affrontare le difficoltà e i disaccordi era palese quanto il loro impegno profuso ad aggirarli, mascherando spesso il vuoto “con frasi messe per figura”, più per cercare di impedire che prevalessero le tesi degli avversari, che per sostenere e far prevalere le proprie.
La chiarezza reclamata da Calamandrei doveva essere l’espressione di una limpidezza di pensiero e di coerenza di azione e di obiettivi che avrebbe dovuto realizzarsi attraverso la capacità di far capire a tutti esattamente che cosa si intendeva dire. Sarebbe stato necessario, quasi più prudente, raggruppare tutti quegli articoli, che non avevano di fatto alcun valore giuridico in senso stretto, in un preambolo, riconoscendo ad essi sostanzialmente il significato di semplici propositi, programmi che la Repubblica poneva a se stessa, “per trovare in essi la guida della legislazione futura” piuttosto che mescolarli con quegli articoli che già esprimevano “veri e propri diritti azionabili, coercibili”, cioè strettamente giuridici, con funzioni sanzionatorie.
L’affermazione contenuta nell’art. 1 “La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro”, appariva a Calamandrei solo una bellissima frase, di cui gli era impossibile cogliere il senso e il fondamento giuridico. Un’enunciazione formale bella e positiva, ma che da un punto di vista giuridico risultava oscura e incomprensibile. Alludeva forse a qualcosa di nuovo, che non era esplicitato con chiarezza? Un diritto del lavoro? Ma non c’è forse anche un dovere del lavoro? E coloro che non lavorano non hanno forse diritti? Vaghezza e contraddizioni, a suo avviso, si annidavano nei vari articoli della Costituzione. Questo gli sembrava ancora più evidente quando la Costituzione affrontava le questioni economiche, come l’art. 37: “ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo”. Parole sagge, ma vuote, superflue. Ecco a cosa portava quel lavoro di compromesso, da lui denunciato sin dall’inizio del suo discorso, “a costruire queste formule ad intarsio in modo da dar ragione a tutte le tendenze…E così vi è tutta una quantità di articoli che figurano di andar d’accordo, ma che in realtà si elidono; sicché sarebbe stato meglio non scriverli”.
Ma vi era di peggio, secondo lui, cioè articoli che impegnavano lo Stato ad assicurare il benessere e la felicità alle famiglie italiane, ed anche la salute e l’istruzione gratuite per tutti. “E questo non è vero” sosteneva Calamandrei “e noi sappiamo che non potrà essere vero per molte decine di anni…”. Allora la Costituzione che doveva essere una cosa “seria” e che doveva essere “presa sul serio dagli Italiani” non poteva contenere affermazioni false, perché sarebbe stato come sabotarla e farle perdere credibilità. “Gli Italiani hanno sempre avuto assai scarso… il senso della legalità, quel senso che ogni cittadino dovrebbe avere del suo dovere morale, indipendente dalle sanzioni giuridiche, di rispettare la legge, di prenderla sul serio; e questa perdita del senso della legalità è stata determinata dalla slealtà del legislatore fascista, che faceva leggi fittizie, truccate, meramente figurative, colle quali si industriava di far apparire come vero attraverso l’autorità del legislatore ciò che in realtà tutti sapevano che non era vero e non poteva esserlo”.
Raccogliere queste disposizioni in un preambolo avrebbe, invece, permesso di presentare in forma di propositi programmatici una serie di direttive sociali e politiche, alle quali avrebbe dovuto ispirarsi la futura legislazione della Repubblica italiana.
Ma molti altri erano i problemi che le ambiguità e le omissioni avrebbero potuto determinare.
Nella regolazione delle relazioni tra Stato e Chiesa, sulle quali, pur non intendendo entrare nel merito, riteneva indispensabile entrare nel metodo, riscontrava non poche incongruenze. Nell’art. 7, infatti, si affermava che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. Un’affermazione “incongrua” per una Costituzione, più appropriata, semmai, in un trattato internazionale. Che lo Stato italiano riconoscesse, se lo voleva, la sovranità della Chiesa nel suo ordine, sarebbe stato ammissibile, ma certo risultava privo di alcun senso il contrario, cioè inserire nella Costituzione che un altro soggetto politico, per quanto di altissimo prestigio, venisse ammesso a riconoscere la sovranità dello Stato italiano. E ancora nel secondo comma dello stesso articolo si osservava: “I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale”. Questo significava accogliere, dunque, che nella Costituzione venisse enunciata l’impossibilità di modificare alcune norme senza il consenso dell’altro contraente, in questo caso la Chiesa…”, anche se questo si traduceva in “una vera e propria rinunzia ad una parte della sovranità”. Si aggiunga, inoltre, che i Patti Lateranensi sarebbero entrati così, a far parte a tutti gli effetti dell’ordinamento della Repubblica, e che questo avrebbe richiesto che venissero, pertanto, allegati al testo della Costituzione, in nome di quella chiarezza e completezza, che non poteva e non doveva essere disattesa. Se ciò fosse avvenuto, però, sarebbe stato necessario considerare che questi Patti contenevano anche norme apertamente in contrasto con quelle scritte nella nostra Costituzione.
Calamandrei, però, non risparmiava critiche e richiami neanche agli esponenti politici, per i quali il compromesso è senz’altro un’arte, ma che non avrebbe mai dovuto esserla, a suo avviso, a discapito della “chiarezza”, perchè una buona politica ha bisogno di trasparenza e non di ambiguità. “Credete, voi, che vi intendete di politica, che sia proprio una buona politica quella consistente, quando si discute una Costituzione, nel presupporre che in avvenire il proprio partito avrà la maggioranza, e nel disinteressarsi, in tale presupposto, della precisione e della chiarezza tecnica dei congegni costituzionali? Voi mi dite che l’essenziale è che vi siano nella Costituzione i congegni per far prevalere sempre la volontà del popolo: ma siete proprio sicuri che il popolo, ossia gli elettori, daranno la maggioranza a voi, e che quindi, poiché voi avrete la maggioranza, la Costituzione sarà sempre interpretata a modo vostro?”
Qui Calamandrei denunciava un’altra trappola, un altro congegno pericoloso a cui si sarebbe dato vita, cioè il “calcolo” o meglio lo “spirito della maggioranza”.
La sua posizione era nettamente contraria ad una semplicistica affermazione dello spirito della maggioranza, perché, se l’orizzonte verso cui tendere era quello democratico, sarebbe stato “più opportuno e più prudente muovere dal punto di vista della minoranza.., di quella che potrà essere domani la minoranza… Il carattere essenziale della democrazia consiste non solo nel permettere che prevalga e si trasformi in legge la volontà della maggioranza, ma anche nel difendere i diritti delle minoranze, cioè dell’opposizione che si prepara a diventare legalmente la maggioranza di domani.” Lo “spirito di umiltà minoritaria”, cui faceva appello Calamandrei, era uno dei presupposti su cui doveva nascere e avrebbe dovuto reggersi il nostro ordinamento democratico.
Rivendicare la tutela, in concreto, dei diritti delle minoranze appare oggi più che mai un problema vivo, penso agli immigrati, ai disoccupati, ai precari, agli anziani, ai poveri, ai malati, a quella parte di società, che non ha potere, e che sta assistendo al progressivo smantellamento dello stato sociale. In un Paese democratico certe tutele non dovrebbero mancare, né essere colpevolmente ignorate.
Calamandrei appunta, poi, il suo sguardo critico anche su un altro potere forte, la cui indipendenza gli stava particolarmente a cuore: la magistratura. Il Consiglio Superiore della Magistratura avrebbe dovuto essere composto nel progetto originario, da lui stesso condiviso e sostenuto, solo da magistrati eletti dalla stessa Magistratura, non, invece, composto anche da elementi politici eletti dagli organi legislativi, compromettendo così quell’autonomia e indipendenza di un organo, indispensabile alla vita del Paese.
Insomma la nostra Costituzione ha patito inevitabilmente le preoccupazioni elettorali dell’epoca e di quell’immediato avvenire, con lo sguardo rivolto troppo spesso agli eventi allora vicini, spesso chiudendo gli occhi su molti problemi vivi e reali. Calamandrei enumerava quelli a suo avviso più importanti: la necessità di prevedere una legislazione d’urgenza, di migliorare il funzionamento dei Ministeri, snellendone la struttura e semplificandone il modo di operare, di risolvere il problema del tripartitismo e dei governi di coalizione.
Su questo punto, cioè sulla stabilità del governo, questione che affligge da sempre il nostro Paese, Calamandrei aveva mostrato tutta la sua viva preoccupazione sin da allora“…credete voi che si possa continuare a governare l’Italia con una struttura di governo parlamentare, come sarà quella proposta dal progetto della Costituzione? Il governo parlamentare come è stato accolto nel progetto, è un vecchio sistema che ha avuto sempre, come presupposto, l’esistenza di una maggioranza omogenea o la possibilità di formarla, la quale possa costituire il fondamento di un gabinetto, che possa governare stabilmente. Ma se invece si suppone che, per molti anni, forse per decenni non vi potrà essere un partito che riesca a conquistare la maggioranza da sé solo e che per un pezzo si dovrà andare avanti con governi di coalizione, allora bisognerà cercare strumenti costituzionali i quali corrispondano a questo diverso presupposto che è, in luogo della maggioranza, la coalizione. Per questo noi avevamo sostenuto…, qualche cosa che assomigliasse ad una repubblica presidenziale o perlomeno a un governo presidenziale, in cui si riuscisse, con appositi espedienti costituzionali, a rendere più stabili e più durature le coalizioni, fondandole sull’approvazione di un programma particolareggiato sul quale possano lealmente accordarsi in anticipo i vari partiti coalizzati. Ma di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto non c’è quasi nulla.”
Non appare un caso se una delle riflessioni contenute nella parte finale del suo discorso sia rivolta al ruolo dei partiti, alla loro organizzazione e alle esigenze di una loro regolamentazione. I partiti costituivano per Calamandrei “la novità più profonda della situazione costituzionale italiana… fucine in cui si forma l’opinione politica e in cui si elaborano le leggi: i programmi dei partiti sono già progetti di legge”. Data la loro esistenza sarebbe stato necessario, però, secondo Calamandrei, introdurre nella Costituzione delle disposizioni per “disciplinarli”, per “regolare la loro vita interna”, per “dare ad essi precise funzioni costituzionali”. Le ragioni di una regolamentazione dei partiti erano evidenti .“Voi capite che una democrazia non può esser tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi, e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici. L’organizzazione democratica dei partiti è un presupposto indispensabile perché si abbia anche fuori di essi vera democrazia”. Chi ne avrebbe dovuto controllare l’organizzazione democratica? La sua proposta di affidare alla Suprema Corte Costituzionale questo compito non fu accolta, né fu proposto un altro soggetto per svolgere questo ruolo. Vaghezza, ambiguità, volute omissioni che si sono ripetute negli anni e giungono fino a noi.
Oggi, infatti, siamo ancora qui ad aspettare che la rivoluzione iniziata con la nascita della Repubblica si compia, si completi, e siamo qui a scontare gli effetti di quelle ambiguità, vaghezze ed omissioni, su cui si è costruita e consolidata la vita politica e partitica del nostro Paese. Questioni da affrontare e da risolvere, di cui era ben chiara l’assoluta importanza sin da quei dibattiti, e che si trascinarono per oltre un anno nelle aule parlamentari e nell’assemblea costituente, ma sulle quali si decise di sorvolare allora, come lo si è fatto anche in seguito, preferendo non vedere, o più propriamente come diceva Calamandrei, “giuocando a mosca cieca”.
Invece, la Costituzione avrebbe dovuto essere “presbite” e …vedere bene, soprattutto “lontano”.
In lui era chiaro l’alto valore politico e morale di quell’incarico. “Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato, e bisogna sforzarci di portarlo a compimento meglio che si può, lealmente e seriamente… questa dev’essere una Costituzione destinata a durare…In questa democrazia nascente dobbiamo crederci e salvarla così con la nostra fede e non disperderla in schermaglie di politica spicciola e avvelenata. Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula…è perchè per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte…seduti su questi scanni non siamo stati noi, uomini effimeri…ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno…Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e difficile; quella di morire…A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli.”
Il fascino, la chiarezza espositiva, la lungimiranza, la lucidità intellettuale e giuridica, il senso politico ed etico di queste parole sono un privilegio che ci viene concesso di riscoprire e di cogliere ancora oggi. Un punto di vista, di cui non dovremmo privarci, ma da cui dovremmo trarre insegnamento per il nostro presente e per il nostro futuro, usandolo come una bussola per puntare a raggiungere quel nord di civiltà, di libertà, di garanzie, in una parola di democrazia, che abbiamo sempre di più perso di vista. Perciò mi auguro che questo appassionato invito alla lettura possa essere accolto da quanti intendono credere ed impegnarsi ancora per la democrazia di questo Paese.