di Lapo Berti –
Se c’è qualcosa di specifico che caratterizza la crisi in corso e la distingue da tutte quelle del passato è il fatto che si coniuga con una crisi profonda dei regimi democratici e della loro capacità di controllare e indirizzare i processi economici.
La politica, sotto la pressione di un potere occulto e schiacciante come quello delle grandi organizzazioni economiche, ha rinunciato da tempo a indirizzare l’economia.
Se indignazione significa una presa di coscienza che è anche una presa di distanza e, nel contempo, un’assunzione di responsabilità, un passaggio all’azione, i movimenti che la esprimono possono davvero contribuire ad aprire un processo di sostanziale revisione del modello economico e sociale in cui viviamo.
La crisi della democrazia
Nel momento in cui tutti, economisti, politici e (ahimé!) giornalisti, si affannano a dettare ricette per uscire dalla crisi economica e finanziaria, tratte spesso da almanacchi che hanno fatto il loro tempo, può essere opportuno spostare lo sguardo un po’ più in là, sui meccanismi della politica e sui riflessi che essi hanno sull’andamento delle cose economiche. Un’inveterata abitudine a considerare separatamente i diversi ambiti della vita sociale impedisce di vedere gli intrecci, spesso perversi, tra economia e politica che sono sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere e che sono all’origine di molti dei mali economici che ci affliggono. Se c’è qualcosa di specifico che caratterizza la crisi in corso e la distingue da tutte quelle del passato è proprio il fatto che si coniuga con una crisi profonda dei regimi democratici e della loro capacità di controllare e indirizzare i processi economici. La politica, sotto la pressione di un potere occulto e schiacciante come quello delle grandi organizzazioni economiche, ha rinunciato da tempo a indirizzare l’economia verso il perseguimento di obiettivi largamente condivisi lasciando il campo, spesso con consistenti tornaconti, al dilagare di interessi particolari, perseguiti al di fuori di ogni regola.
Il perché di tutto ciò è facile da dire anche se è estremamente difficile porvi rimedio. Da lungo tempo la democrazia ha perso la capacità di dare voce ai cittadini, alle loro aspirazioni, alle loro valutazioni. Forse mai è stata in grado di consentire ai cittadini un efficace controllo dei loro rappresentanti eletti. Con il passare del tempo, i ceti politici, le forze di governo si sono trasformati in centri di potere separati e autoreferenziali. I partiti sono diventati i padroni della politica e hanno cominciato a intrecciare rapporti con i detentori del potere economico. L’interesse collettivo, il bene comune, sono totalmente scomparsi, come mai era successo, dalla loro agenda e sono stati sostituiti dagli interessi di ristretti gruppi, quando non addirittura dagli interessi individuali. E’ così che, in tutti i paesi del mondo, la politica, anche quando si ammanta di vesti democratiche, ha scavato un abisso ormai incolmabile fra i cittadini e i professionisti della politica ostruendo tutti i canali della partecipazione democratica e prosciugando il senso della rappresentanza.
La crisi economica è figlia anche, se non soprattutto, di questa deriva della democrazia. Il sistema finanziario globale ha potuto degenerare, trasfomandosi in una macchina da soldi per pochi e di perdite per tanti, con la complicità interessata di politici e ideologi di varia estrazione.
Ma la politica va chiamata alle sue responsabilità non solo per quello che, di dannoso e, talvolta, di criminale ha fatto, ma anche per quello che non ha fatto. E’ responsabilità della politica europea se, a vent’anni dalla creazione dell’Unione monetaria, sono stati fatti solo timidi passi verso un’integrazione politica capace di generare una governance efficace dell’economia europea. E’ responsabilità delle classi dirigenti di tutto il mondo non essere ancora riuscite a elaborare un modo di affrontare i processi di globalizzazione tutelando la democrazia e governando la crescita economica mondiale. E’ loro responsabilità, ancora, se gli organismi di tutela e di controllo delle attività finanziarie hanno fatto fallimento. Certo, erano deboli e insufficienti, ma la politica li ha resi ancora più deboli e inefficienti.
Indignati e partecipi
L’indignazione che si sta sollevando in tutto il mondo, al di là anche dei movimenti di piazza che sta generando, è un moto di ribellione politica che, pur suscitato dai disastri e dagli scandali finanziari, va al cuore di quello che è oggi il problema centrale del mondo globalizzato: il “disagio della democrazia” (Carlo Galli). Certo, l’indignazione può rimanere fine a se stessa, può esaurirsi in un moto di protesta, in una reazione moralistica di fronte agli scandali dell’economia e della politica. Abbiamo bisogno, invece, che l’indignazione si estenda, si consolidi, si faccia politica, scelga obiettivi e si impegni per raggiungerli.
Se indignazione significa una presa di coscienza che è anche una presa di distanza e, nel contempo, un’assunzione di responsabilità, un passaggio all’azione, i movimenti che la esprimono possono davvero contribuire ad aprire un processo di sostanziale revisione del modello economico e sociale in cui viviamo. Senza una rivitalizzazione dei processi democratici, senza che le persone prendano in mano i loro destini e riescano a imporre ai governi la loro agenda, nessun programma economico potrà farci uscire dalla crisi in cui ci troviamo. Non è la democrazia che rende gli uomini liberi e padroni del loro destino, ma sono gli uomini stessi che quando affermano la propria libertà e scelgono il loro futuro rendono concreta la democrazia.
La democrazia oggi non può essere riformata, attuata, rivendicata. Non possiamo pensare che, dopo che per tanto tempo all’interno dei sistemi democratici si sono installati poteri non democratici, illegittimi, da quello economico e quello mediatico a quello criminale, si possa procedere con una semplice manutenzione dell’edifico democratico. La democrazia dev’essere “rifondata”, occorre un passaggio che abbia la stessa solennità dei momenti in cui la democrazia è stata conquistata, instaurata, occorre passare per un momento, comunque configurato, in cui il popolo sovrano riprenda in mano la sua sovranità e provi a esercitarla, magari inventando nuove formule, nuove istituzioni. Bisogna riportare nel campo della vita democratica tutto ciò che di antidemocratico essa ha inconsapevolmente accolto e che la mina dal suo interno. Solo da questo passaggio possono scaturire anche le soluzioni per le crisi economiche e finanziarie che verranno. L’economia, non solo per effetto della finanza, è in larga misura uscita da quadro delle garanzie democratiche. Occorre riportarcela, con un cambiamento politico e istituzionale profondo, occorre dar vita a un nuovo compromesso sociale fra democrazia e capitalismo, come fu il keynesismo. Questo è l’unico sbocco sensato e, nel contempo, l’unico obiettivo possibile dell’indignazione. Il cammino è lungo e difficile, il successo incerto. Lunga vita all’indignazione!