di Gianluca Carmosino –
Lo spappolamento del mercato del lavoro provocato da un’insensata ricerca di flessibilità che è servita solo a rendere precaria la condizione lavorativa ed esistenziale di milioni di giovani e meno giovani ha fatto riemergere la necessità di recuperare forme di mutualismo che hanno segnato l’avvio del movimento operaio e posto le basi dello stato sociale. Ma la spinta a costruire forme di mutualismo e cooperazione dal basso investe molti altri settori, a partire dal consumo, e crea il terreno per un nuovo modello economico e sociale
Negli ultimi dieci anni, settimanali come Carta e mensili come Altreconomia e Valori, oltre a diversi siti internet e qualche libro, hanno raccontato come lo spirito mutualista sia ricomparso sotto nuove sembianze, spesso in risposta al ritiro dell’intervento pubblico dalla gestione di servizi, a volte in modo più diverso e spontaneo. Prima dell’inizio della crisi, nel 2007, Lorenzo Guadagnucci con «Il nuovo mutualismo» (Feltrinelli 2007) è partito da quel ragionamento per segnalare l’emersione di nuove esperienze. Anche il più recente «L’economia del noi» di Roberta Carlini (Leterza 2011), sembra muoversi sulle stesse tracce. Dai Gruppi di acquisto solidale a diverse esperienze di monete locali, dalle fabbriche recuperate in Argentina alle reti di vignaioli di Critical wine, dalla finanza critica delle Mag (Mutue di autogestione) alle botteghe del commercio equo e solidale, passando per le banche del tempo, solo per citare alcuni esempi del libro di Guadagnucci, sono molte le azioni sociali collettive che, a maggior ragione oggi dopo l’esplosione della crisi, hanno tra i loro obiettivi (a volte in modo inconsapevole) recuperare e rinnovare i principi del mutualismo diffuso a inizio Novecento.
In quel periodo tra i ceti popolari si affermarono cooperative di produzione e consumo, società di mutuo soccorso, casse rurali, università popolari, case del popolo. Secondo Pino Ferraris, sociologo e studioso del movimento operaio recentemente scomparso (qui potete leggere un suo intervento a un convegno del 2010 dal titolo «Mutuo soccorso e welfare»), il mutualismo storico è riuscito a ricomporre i legami sociali tra i «lavoratori deboli», ossia i braccianti e i lavoratori a domicilio ma anche gli artigiani in declino, con i cittadini consumatori. Intorno a questa ricomposizione solidale sono nate mutue e cooperative, con le quali molti per la prima volta pensavano a costruire un’altra società, più che un altro stato. Sul piano del pensiero politico i riferimenti erano Robert Owen e Pierre-Joseph Proudhon. Quelle esperienze, ricorda Ferraris, sono scomparse pur di non accettare statuti imposti dallo stato: la legge, ieri come oggi, rifletteva le esigenze del capitalismo.
In «Le utopie del ben fare» (L’Ancora del Mediterraneo, 2004), Giulio Marcon ricorda come il mutualismo e la cooperazione del primo Novecento offriva attività e servizi concreti, come le latterie e caseifici sociali, nei quali a turno si utilizzavano le strutture, portando ciascuno la propria quota di latte, il sale e la legna per cuocere, oppure i forni e i magazzini rurali che servivano a raccogliere, seccare e trasformare il frumento ed erano gestiti in modo collettivo. C’erano poi le cooperative di consumo per Gruppi collettivi d’acquisto, attraverso i quali si riducevano i costi delle derrate, e le cooperative di lavoro dei braccianti e dei muratori, con cui condividere raccolti e appalti. Ma c’erano soprattutto le prime organizzazioni di mutuo soccorso, nate per raccogliere fondi da destinare al sostegno di persone senza lavoro, malate (o solo per sostenere gli aderenti nelle spese del funerale di un proprio congiunto) ma anche per fare scuole serali, disribuzione di libri per bambini, biblioteche circolanti, luoghi di socializzazione. O ancora, le piccole casse rurali di villaggio che concedevano ai contadini anticipi per pagare le sementi e comprare nuovi attrezzi. «Le 248 società cooperative del 1886 – scrive Marcon – si erano decuplicate in quindici anni, divenendo 2.823 nel 1902; prima dell’avvento del fascismo sarebbero arrivate a più di 7.400. Nel 1891 le casse rurali erano poco più di cinquanta; sei anni dopo erano più di 900. Le società di mutuo soccorso passarono dalle 381 del 1848 alle 6.500 del 1904». Anche le prime Camere del lavoro, sono nate in quel contesto.
Insomma, artigiani, contadini, operai, donne furono protagonisti di un grande movimento di autorganizzazione, ispirato ai principi molto concreti di eguaglianza, solidarietà, rifiuto delle gerarchie, partecipazione. Un movimento che rappresenta una rottura con l’intervento sociale borghese basato sulla beneficienza. Per molti anni quel sistema di auto-organizzazione dal basso con le sue diverse sfumature si diffuse ovunque; i primi interventi che cominciarono poco a poco a minare la sua «rottura politica» seguirono la «modernizzazione» giolittiana del paese (statalista, nazionalista, industriale, cioè capitalistica) che di fatto cercò di assorbire parte di quel movimento nelle istituzioni.
Nelle conclusioni del suo libro, Marcon oltre a elencare i nodi critici di queste importanti esperienze storiche (i rapporti tra azione sociale collettiva e istituzioni, economia, politica, l’idea di organizzazione come limite) scrive: «La storia dell’azione sociale collettiva interessa centinaia di migliaia di piccole e grandi esperienze spesso nascoste e dimenticate, e coinvolge decine di migliaia di persone; storie di minoranze attive che, pur senza raggiungere una dimensione di massa, sono riuscite a condizionare la realtà locale di un paese o di un territorio, i percorsi quotidiani di uomini e di donne, seminando i germi di una nuova cultura sociale e politica, portando testimonianza di nuovi modi di agire che sono poi divenuti, con il passare del tempo, pratica diffusa».
Altre importanti storie di azione sociale collettiva solidale arrivano dai sud del mondo, in particolare dall’universo dell’economia informale (o vernacolare, per dirla con Illich), indagato recentemente da uno splendido saggio, «La potenza dei poveri» (Jaca book, 2010), da Majid Rahnema e Jean Robert.
Di certo, le tracce di questi movimenti sono oggi presenti in diverse esperienze nelle nostre città: spesso sono gli stessi principi che hanno assunto forme diverse (basta pensare al movimento del commercio equo, ai Gas o alla finanza etica), in altri casi, più rari e meno noti, anche le forme sono molto simili a quelle del passato. Guadagnucci, ad esempio, segnala alcune nuove realtà mutualistiche avviate in risposta a bisogni emergenti: si va dagli asili nido nati all’interno di un consorzio di cooperative a Imola e aperti a tutta la cittadinanza ad alcune associazioni impegnate nelle ricerca di case (da prendere in affitto o acquistare) per migranti. Più recentemente, il Sindacato dei traduttori editoriali Strade (nato per tutelare i diritti dei traduttori editoriali, figure professionali molto precarie) ha sottoscritto una convenzione di assistenza sanitaria con una società di mutuo soccorso: i lavoratori del diritto d’autore hanno deciso cioè di unirsi solidalmente per venire incontro a una mancanza dello Stato e coprire, almeno in parte, l’assenza di tutele sociali che rende ancora più precaria la loro condizione. Hanno scelto insomma una forma mutualistica di sostegno che si richiama alle prime esperienze di autotutela operaie della fine dell’Ottocento. La mutua «Elisabetta Sandri» è ora aperta all’adesione di altri soggetti strutturati del mondo indipendente e precarizzato.
La convenzione stipulata da Strade è il risultato di un anno di lavoro ed è il frutto di un percorso condiviso. I traduttori e le traduttrici editoriali infatti hanno deciso insieme, dopo confronti e discussioni, cosa dovesse essere prioritario nella loro assistenza. Agli iscritti e iscritte di Strade, la convenzione garantisce un sussidio di malattia e di ricovero, un assegno di gravidanza, il rimborso per analisi mediche (tac, risonanze, scintigrafie…) e ticket, oltre che un sostegno in caso di perdita dell’autosufficienza e un numero verde di assistenza medica (per l’invio di un medico sul posto in cui ci si trova, il trasferimento al proprio domicilio o in ospedale, la ricerca di personale infermieristico). La quota annuale è di 246 euro. I congiunti che il socio decide d’iscrivere non usufruiscono di sussidi ma, se si ammalano ed è il socio a prendersene cura, a lui spetta un sussidio. A differenza della Gestione separata dell’Inps, l’accordo garantisce ai traduttori il controllo sul fondo. In rete – nel sito del Quinto Stato – si parla perfino della «certezza che il fondo sia investito in maniera etica».
A partire dalla vicenda mutualistica dei traduttori precari e intorno ai temi del nuovo mutualismo, nasce un percorso importante all’interno del Quinto Stato, i lavoratori indipendenti e precari di ricerca e spettacolo, ma anche grafici e giornalisti, lavoratori e lavoratrici della cultura (tra i promotori, tra le altre cose, di un’altra importante iniziativa sul «recupero degli spazi pubblici»). «È giunto il momento per la comunità delle lavoratrici e dei lavoratori autonomi e indipendenti, esclusi dalle tutele destinate al mondo del lavoro subordinato, per i soggetti economicamente deboli e per chi, uscito dal sistema produttivo, non appartiene a gruppi protetti, di confrontarsi con le forme del mutualismo – si legge in una nota con la quale viene presentanto l’incontro del 28 maggio (ore 18) alla Città dell’altra economia – Gli eterogenei soggetti del Quinto Stato sono invitati a discutere e a definire percorsi che portino a un welfare sostenibile, sussidiario e solidaristico, territoriale, relazionale che, insieme a un radicale ripensamento del modello sociale del nostro paese, offra forme di auto-aiuto e di mutuo-aiuto immediate». La scelta del mutualismo, secondo quelli del Quinto Stato si rifà a «un modello di economia sociale e non del capitale, spinge alla responsabilità verso se stessi e verso la comunità di riferimento. Mette al centro la persona con i suoi bisogni e non il profitto».
Forme cooperative mutualistiche possono diventare davvero opportunità per creare buon lavoro (su questo tema suggeriamo la lettura di un saggio di Paolo Cacciari, «Il fiorire della vita, il lavoro e la decrescita») e fare fronte alla crisi economica e ambientale (anzi, di civiltà), sulla scia di diversi movimenti e reti sociali di tutto il mondo che si muovono intorno ai temi dei beni comuni, della decrescita e dell’altra economia (quelli di cui parla in «Un’insurrezione è in corso»)?
Tratto da Comune info: http://comune-info.net/2012/05/un-nuovo-mutualismo/