Il dramma dell’IDI e del San Filippo Neri
di Rossella Aprea –
Nella sanità romana stiamo assistendo a una vera e propria emorragia di “eccellenze” a causa dei tagli economici indiscriminati che stanno mettendo in ginocchio la sanità pubblica e quella convenzionata. Dipendenti senza stipendio, disservizi nell’assistenza ai pazienti, rischio di chiusura per diverse, importanti e prestigiose strutture ospedaliere. Uno sguardo dall’interno della realtà sanitaria romana, calandosi nel dramma che vivono i dipendenti di due strutture tra le più quotate per la dermatologia e la cardiochirurgia romana, l’IDI e il San Filippo Neri.
La maggior parte di voi, persone sane, probabilmente non conosce l’ospedale San Filippo Neri o l’IDI – Istituto Dermopatico dell’Immacolata, o se li conosce, è probabilmente perché ne ha avuto notizia di recente dai giornali. Il San Filippo Neri è un ospedale specializzato in neurologia, cardiochirurgia, chirurgia oncologica e vascolare, ostetricia e ginecologia, ortopedia. E’ l’unico Ospedale Pubblico presente nel territorio a Nord di Roma con 1.200.000 accessi per attività ambulatoriali. Nel 1994 ha ottenuto il riconoscimento come nosocomio di alta specializzazione, di Eccellenza e di Rilievo Nazionale. Eppure il Commissario Bondi, per risanare la spesa sanitaria del Lazio, all’inizio dello scorso mese di dicembre ne ha ipotizzato la chiusura o una drastica riduzione di posti letto, che si tradurrebbe comunque in un primo passo verso la chiusura.
L’IDI, l’Istituto Dermopatico dell’Immacolata, è il più prestigioso centro dermatologico del centro-sud d’Italia, un’eccellenza nazionale, dove da oltre dieci anni non lavoro più, ma dove ancora mi conforta il piacere di conoscere tanti medici, ricercatori, infermieri, impiegati. Non avrei mai creduto che l’IDI, un’istituzione con un bacino impressionante di pazienti dermatologici, centro di ricerca, fiore all’occhiello della sanità privata convenzionata potesse trovarsi in bilico sull’orlo di un baratro, in odore di fallimento, essendo così florida da aver addirittura rilevato quasi 15 anni fa l’Ospedale San Carlo di Nancy. E tanto meno avrei creduto che il San Filippo, sana ed efficiente realtà assistenziale di prestigio e qualità, potesse essere inserito nell’elenco dei tagli sanitari in maniera così assurda e incomprensibile. In entrambe le strutture è iniziata una dura battaglia dei dipendenti. I 1800 dipendenti dell’IDI dopo oltre un anno e mezzo in un’altalena di notizie e colpi di scena non mollano, tutti aggrappati al proprio posto di lavoro in attesa di capire e di sapere. I 2300 dipendenti del San Filippo da due mesi cercano sostegno nella società civile, per evidenziare lo scempio e la totale assurdità di questa decisione.
Per l’Idi, le responsabilità, sembra debbano attribuirsi alla gestione della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione che ne è proprietaria. Un buco, scoperto improvvisamente, di circa 800 milioni di euro sta segnando il destino di questa Istituzione. Tra IDI e San Carlo i 1800 lavoratori coinvolti con le loro famiglie nel disastro sono sottoposti a un atroce stillicidio di notizie da oltre un anno e mezzo, alla minaccia del fallimento e del licenziamento, privati della retribuzione del loro lavoro che regolarmente ancora tutti svolgono, seppur in condizioni sempre più difficili, con mezzi e strumentazioni che scarseggiano e senza percepire stipendio dallo scorso mese di agosto. Solo a Natale sono stati distribuiti a ciascun dipendente 1500 euro a forfait. Nulla di più, ma soprattutto nessuna chiarezza, nessuna prospettiva, nessun membro della Congregazione che abbia un comportamento di comprensione umana e fornisca qualche indicazione, spenda parole di incoraggiamento, di speranza nei confronti dei propri collaboratori. Conosco bene l’IDI, molto meno il San Filippo Neri, ma non mi è difficile comprendere l’angoscia silenziosa e dignitosa di entrambi, condividerne le lotte che hanno portato i primi fino alla protesta estrema di un piccolo gruppo di dipendenti accampato sul tetto dell’ospedale per settimane e i secondi a inviare un accorato appello al Presidente della Repubblica nei primi giorni dello scorso mese di Dicembre, dopo aver avviato una petizione per salvare l’Ospedale, raccogliendo in soli due giorni ben 30.000 firme.
Manifestazioni di gente assolutamente pacifica, ma disposta a lottare per il proprio posto di lavoro, anche per salvare realtà professionali qualificate, che si sono affermate negli anni nel panorama nazionale ed internazionale, un patrimonio di competenze e di cure che non può, non deve essere dissipato, distrutto, polverizzato. Attraverso le parole di coloro che lavorano all’IDI e che conosco, più spesso attraverso i loro silenzi o i loro commenti lapidari, ho avvertito il dramma dell’incertezza e quasi della ineluttabilità di un destino, che sta lentamente demolendo i processi produttivi della struttura, l’utilizzazione delle competenze, la capacità di garantire assistenza e cura in maniera efficiente, e non ultimo che travolge le vite di tante persone che hanno lavorato con impegno e dedizione. Mi ha colpito sentire che per alcune di queste persone, per il tipo di attività che svolgono, la situazione risulti ancora più dolorosa perché non hanno la possibilità di contare neanche sulle gratificazioni personali che almeno medici ed infermieri ricevono dal loro lavoro. E tutti, pur continuando a credere fermamente nel proprio lavoro e nella propria passione, cominciano a domandarsi “Quanto tempo ancora potrò andare avanti in queste condizioni?”. “I soldi non sono tutto, sai” mi viene detto, “lo si capisce dagli sguardi degli infermieri e dei medici, gratificati dai pazienti che li ringraziano per essere lì ad assisterli, ad aiutarli, pur sapendo che stanno svolgendo il loro lavoro senza percepire alcuno stipendio. Qualche infermiere nasconde le lacrime, perché non sa come farà a pagare il mutuo a fine mese, ma continua a dedicarsi ai malati. Per altri è ben più dura, si è proprio soli, soli con se stessi e con il proprio lavoro, un lavoro che non riserva queste immediate gratificazioni umane, di cui tutti noi avremmo, però, un disperato bisogno”.
Io li guardo rattristata, non vogliono la mia compassione e un insieme di frasi si accavallano, ma tutte contraddistinte dallo stesso malinconico sgomento: “Mi do qualche altro mese… se non succederà nulla, dovrò mollare”. “Devo vivere, la mia famiglia ne ha bisogno..”. “E’ stata la mia vita……, non è facile chiudere questo capitolo quando hai investito gran parte della tua vita in questo posto”. Li vedo tenacemente dignitosi, forti, ma provati da un’agonia mortificante. E non posso fare a meno di chiedermi cosa sta succedendo? Cosa sta facendo questo Paese alle sue forze migliori, alle sue risorse più preziose? Quelle che curano la salute, la società…. Condannare l’IDI al fallimento e, per una politica di tagli alla Sanità, chiudere l’ospedale San Filippo Neri significa privarsi in un attimo di due eccellenze nel settore sanitario. Un danno non solo ai lavoratori, ma ai cittadini più deboli, a quelli che non possono difendersi, che devono già condurre una dura battaglia, i cittadini malati che non potranno più usufruire delle prestazioni che questi due ospedali garantivano. Se in un caso la mala gestione ha prodotto un tracollo economico, a cui non si riesce a dare soluzione, nell’altro l’azione è fatta con “scienza e coscienza”. E’ gravissimo, imperdonabile. Salvare l’IDI, salvare il San Filippo Neri significa in fondo salvare anche noi stessi e una parte del futuro del nostro Paese, perché vuol dire salvare dalla distruzione strutture che funzionano, che potrebbero continuare a funzionare e a operare bene, salvare un patrimonio di esperienze, di competenze che non si ricreano in un attimo. Il futuro può essere solo nella qualità e nelle eccellenze da coltivare e da tutelare, ma sembra che non ci sia la volontà di ricordarselo. E allora quale futuro potrà mai attenderci se consapevolmente si decide di smantellare in questo modo la sanità pubblica, sottraendo fondi indispensabili per garantire i servizi? Razionalizzare, tagliare gli sprechi, non significa smantellare indiscriminatamente. Anche perché, se è necessario razionalizzare e risparmiare, come si può giustificare il fatto che si neghino soldi agli ospedali, mentre se ne sborsano per acquistare cacciabombardieri e sommergibili? E allora cosa si potrà rispondere, come chiedono i dipendenti del San Filippo Neri al Presidente della Repubblica nella loro lettera, “a tutti gli anziani preoccupati che hanno partecipato alla nostra manifestazione”, “…ai pazienti oncologici che attendono un intervento chirurgico e che giornalmente si rivolgono a noi per terapie farmacologiche e radianti carichi di speranza…”? E io aggiungo: come si potranno giustificare queste scelte “incivili” a fronte di sprechi vergognosi, come i lauti pensionamenti e le buonuscite “faraoniche”, per citarne solo alcuni? Mettendo la testa sotto la sabbia o voltandosi dall’altra parte, fingendo di non vedere?