di Paolo Deganello –
La rivoluzione industriale ha fortemente incrementato la produttività del lavoro riducendo sempre più una partecipazione attiva a fare e a costruire. Ha aumentato a dismisura il numero di serie del prodotto artigianale ma ha frantumato, parcellizzato, specializzato il lavoro separando il progetto dalla costruzione, la produzione dal consumo, il progettista dal rapporto diretto col consumatore del suo progetto.
Ha certamente il merito di aver massificato la merce e l’ha così liberata dalla dimensione tendenzialmente elitaria della modalità artigianale. Il pezzo unico, prodotto artigianale per papi, principi e signori, aveva grande valenza estetica e veniva considerato arte minore. Le piccole serie dei prodotti popolari e degli utensili artigianali erano copie povere dell’invenzione delle arti minori: dai cestini di vimini alle ceramiche al tornio ripetitivamente decorate a mano, e comportavano uno sfruttamento e una ripetitività del lavoro manuale ben più mostruosi di quelli del lavoro di fabbrica. Massificazione della merce e diritti sul lavoro sono stati certamente conquiste della rivoluzione industriale e il design, il design del “movimento moderno”, si è fatto carico di mostrare che il prodotto industriale ben disegnato era migliore delle invenzioni delle arti minori. Oggi con troppa disinvoltura tendiamo a dimenticare in questa rimitizzazione del lavoro artigianale, le mostruosità del lavoro artigiano, ma allo stesso tempo il design deve prendere atto che la massificazione dell’estetico con la sovrapproduzione anche di merci ben disegnate, la loro iniqua distribuzione e le sempre più scarse risorse che madre terra può ancora darci per alimentare la nostra folle crescita, si rivela sempre più una prospettiva suicida e distruttiva della vita sul pianeta.
Oggi la cosiddetta avanguardia del progetto sa solo anteporre alla massificazione l’artisticizzazione della merce, cioè il ritorno alle arti minori, la riedizione in nome dell’arte della ricostituzione del privilegio della merce preziosa, esclusiva, una primizia esteticamente legittimata, distribuita attraverso le gallerie, ennesima occasione per la speculazione finanziaria attraverso il collezionismo. Prova ne è un esemplare della poltrona Proust di Mendini, il più lucido artefice della artisticizzazione della merce prodotta in centocinquanta copie e in diverse varianti, che è stata venduta all’asta per 58.000 euro.
Il processo artigianale comportava, comunque, una diffusione del lavoro progettuale nelle botteghe. L’artigiano o il capo bottega, non i suoi collaboratori senza diritti con lavoro ripetitivo alienato e mal pagato, realizzava il progetto, ma lo vendeva direttamente e lo produceva su commessa. L’invenduto era un’eccezione.
La rivoluzione industriale ha accentrato il lavoro di progettazione e l’ha messo a fianco dell’imprenditore, alle sue dirette dipendenze. Henry Ford progettò insieme a Charles Harolde Wills e a due emigrati di origine ungherese Jozsef Galamb e Jeno Farkas il Model T. Presentato nel dicembre del 1908, prodotto con la catena di montaggio, è la merce emblematica della società industriale. Rimase nel mercato fino al 1927 e ne furono prodotti 15.007.033 (Wikipedia). In sostanza quattro progettisti per 15 milioni di auto per una durata 20 anni e la separazione totale tra progettista e consumatore.
Oggi 30 milioni di auto prodotte tra il 2010 e il 2011, sono rimaste invendute. Non è forse una merce obsoleta l’auto? E se fosse ormai obsoleta anche la produzione e il lavoro industriale? E la società industriale che su quel processo produttivo, labor intensive, ha modellato tutto e la vita di tutti? Due progettisti per IKEA ai vertici dell’azienda ideano la quasi totalità degli arredi di serie per il mondo intero. Devono durare poco e costare poco, cioè devono costare poco i materiali e il lavoro necessario a produrli, oltre ad essere i più uguali possibili per il mondo intero.
Il design del “movimento moderno” ha realizzato in IKEA il suo capolavoro. Steve Jobs e Jonhatan Ive, impresario e designer ,sono insieme i due artefici del successo Apple, li chiamavano i due Ive, hanno progettato tutta la collezione Apple. Non sappiamo qual è l’invenduto del prodotto Apple, merce emblematica della contemporaneità. Conosciamo, però, la strategia dell’azienda ossessionata dalla continua sostituzione rapida (la Ford Model T resistette sul mercato 20 anni) di ogni prodotto innovativo per poter continuamente aumentare la quantità di prodotti Apple venduti. Ma conosciamo le bellissime e drammatiche foto del fotografo sudafricano Pieter Hugo su una delle discariche hi-tech, una delle più grandi discariche del mondo ad Agbogbloshie, una baraccopoli alla periferia di Accra, nel Ghana, dove computer, monitor, cavi e schede madri vengono bruciati per ricavarne rame, ottone, alluminio e zinco da rivendere, producendo residui nocivi che contaminano l’aria, l’acqua, la terra e le persone.
All’ultimo salone del Mobile di Milano, 201 designer, in maggioranza giovani, hanno presentato, col sostegno di una associazione “Milano si autoproduce” i loro prodotti autoprodotti in una mostra finanziata dal comune. Nel quartiere periferico di Lambrate, giovani artisti e designers ormai difficilmente distinguibili, e studenti di scuole di tutto il mondo, hanno presentato un’altra miriade di piccoli oggetti autoprodotti in negozi trasformati in gallerie, in fabbriche dismesse, in case vuote trasformate in condomini espositivi. Ovviamente era tutto lavoro volontario e questo metteva molto a disagio vecchi designer come me a cui il lavoro di progettazione aveva dato da vivere, ma era comunque bellissima la periferica Lambrate posseduta dagli autoproduttori, dai loro ammiratori, da molti studenti, qualche vecchio designer e molti imprenditori più o meno giovani preoccupati di capire dove va il mondo o per lo meno la merce, ma soprattutto preoccupati di capire quale futuro vuole prendersi questo mondo giovane che autocostruisce le proprie opere, che le espone nella periferia, dove esporre costa meno, che non accetta l’emarginazione per non entrare nella categoria statistica degli “scoraggiati”. Un mondo giovane che vuole riprendersi il lavoro, un lavoro che la grande e piccola industria sempre meno gli offre che, nonostante la mancanza di domanda di lavoro progettuale, forse spera di vendere la sua poltrona a 58.000 euro. E che forse spera di farsi notare da qualche industriale che lo porti a progettare con lui ai vertici della sua azienda, ma che allo stesso tempo è anche compiaciuto del suo nuovo ruolo di committente-produttore-costruttore-venditore e della sua capacità creativa riunificata contro tutti gli specialismi e la parcellizzazione del lavoro, tipica della società industriale. Resta, ovviamente, aperta tutta la grande questione di che cosa produrre oggi? Ma prendiamo atto che di fronte ad un’industria in crisi da sovrapproduzione chiudono le fabbriche, vengono ridotti i diritti e aumenta il costo del lavoro per produrre le stesse macchine, gli stessi Suv. Ripartire dal lavoro, perciò, deve essere il primo radicale contributo di una cultura del progetto che non ha più spazio. Il design giovane per progettare la merce riprogetta, prima di tutto, il lavoro.
Non abbiamo in Italia i Techshop Californiani, laboratori con macchinari di tutti i tipi, dove si può andare a lavorare pagando una quota oraria per realizzare i propri progetti. Solo e soltanto se con questo lavoro riescono a vivere, cioè se riescono a costruirsi un mercato da gestire autonomamente, fuori sia dalle gallerie che dagli show-room, questa loro riappropriazione del lavoro può sperare di avere successo. In altri paesi d’Europa c’è già un” reddito da cittadinanza”, o reddito minimo, un reddito di base, che potrebbe permettere di resistere in questa ricerca di una nuova autonoma modalità di produrre e vendere. Si può prefigurare, perciò, una separazione sempre più netta tra lavoro e reddito che potrebbe contribuire a consolidare questa nuova modalità di produzione, questo diverso modo di svolgere il lavoro. Resta aperta la grande questione aperta su cosa questi giovani potranno, dovranno e/o vorranno progettare, produrre e vendere direttamente.
Intorno al cibo già si è realizzata una radicale riappropriazione del lavoro che potrebbe dare molte indicazioni utili a questi progettisti auto-produttori, ad esempio l’esperienza dei G.A.S (Gruppi di acquisto solidale). La loro prima fondamentale innovazione è stata la ricostruzione del rapporto diretto contadino/produttore/consumatore. Questo rapporto diretto favorisce l’incontro tra un alimento più sano e più fresco, con una provenienza nei limiti del km.O e una stagionalità specifica accettata come vincolo per il prodotto. Il prodotto è diventato sempre più un prodotto bio, la qualità superiore è stata riconosciuta nel prezzo. Il risparmio del packaging, dello scarto e della minore immondizia sono tutti vantaggi di natura collettiva che hanno aiutato l’accettazione di un prezzo della merce molto più remunerativa del lavoro necessario a produrla. I G.A.S sono ormai una realtà sempre più diffusa, convivono con la tradizionale organizzazione del lavoro agricolo e con la tradizionale distribuzione, ma hanno la forza di essere un’alternativa e seppur rappresentano un mercato minoritario, sono in una fase dicontinua espansione, essendo in grado di condizionare la stessa grande distribuzione, contribuendo alla diffusione di un’agricoltura bio.
I contadini-produttori ormai concordano su cosa e come produrre per il consumatore. Il designer produttore penso debba avere il coraggio e la modestia di informare il consumatore, deve far vedere come e con cosa produce, e allo stesso tempo deve saper ascoltare cosa il suo consumatore vuol consumare, e questi deve avere delle occasioni per conoscere l’opera del designer/produttore.
Certamente va creato un sito, un Ebay dell’auto-produttore, ma anche un mercato mensile nella piazza del paese e magari anche in piazza del Duomo a Milano quando c’è il salone. Una rete di laboratori, punti vendita degli auto-produttori, sostenuti in diverso modo gestito dai comuni, nello stesso modo come oggi sostengono i mercati popolari nelle piazze e nelle strade non potrebbero essere iniziative per costruire un nuovo rapporto design produttore/ consumatore? È possibile che questo nuovo design che si riappropria del lavoro possa produrre una nuova modalità di progetto-produzione-distribuzione, diventi una nuova scuola e sia l’inizio di una riappropriazione felice di tutto il lavoro?