di Quintostato –
Ci sporchiamo le mani per una nuova idea di città e di cittadinanza. Ci sporchiamo le mani contro una visione proprietaria e speculativa dei beni comuni. Ci sporchiamo le mani per una democrazia fatta di partecipazione, innovazione e sostenibilità
La coalizione dei lavoratori indipendenti “il Quinto Stato” invita cittadini e cittadine a mettere in rete le esperienze, le pratiche e le riflessioni di chi lotta per la riappropriazione della città e dei suoi spazi pubblici, contro ogni svendita e abbandono.
Una coalizione per ripensare il futuro degli spazi pubblici
L’invito è rivolto a tutta la cittadinanza che ha deciso di opporsi ad ogni ulteriore tentativo di strappare al pubblico accesso e alla pubblica utilità ogni singolo spazio potenzialmente alienabile. Il progetto è quello di iniziare un percorso comune e ripensare l’uso pubblico di questi spazi, alla luce anche delle esigenze dei lavoratori indipendenti.
Dai mercati alle caserme, dai teatri ai cinema, dai depositi auto-tranviari ai luoghi di produzione dismessi, lavoriamo insieme ai comitati di quartiere e all’associazionismo diffuso per:
– Sostenere la coalizione sociale che lotta per un’altra idea di città e di crescita;
– Garantire nuove condizioni di vivibilità e fruibilità degli spazi pubblici da parte di tutta la cittadinanza, senza nessuna esclusione;
– Riaffermare il diritto delle comunità locali a scegliere le destinazioni d’uso e a co-progettare questi luoghi;
– Rivitalizzare il tessuto sociale urbano e i quartieri, creando nuove opportunità di incontro, scambio, cura, mutualismo, formazione, co-working e co-housing, esigenze fondamentali anche per i lavoratori indipendenti;
– Ripensare e costruire una nuovo e più sostenibile rapporto tra centro e periferia, tra città e campagna.
Roma: l’urbanistica contesa
Nessuna visione culturale e politica può prescindere dall’ascolto e dalla comprensione di ciò che la storia e la microstoria hanno innescato e innescano nell’uso e nel pensiero pubblico della città. Nessuna azione materiale e immateriale, di piccola o grande scala, può essere operata sul corpo urbano senza che ciò produca contraccolpi e onde lunghe, oltre che su di esso, anche e soprattutto sul corpo sociale.
Il “comune”, in quest’ottica, non è solo una necessaria cognizione storica e giuridica, ma il territorio osmotico che lega e condiziona lo spazio pubblico e chi lo vive, il suo uso, la sua narrazione e la sua interpretazione. In queste dimensione qualsiasi forma di violenza, qualsiasi espropriazione indebita e non ponderata di questo stratificato patrimonio condiviso, rompe e cortocircuita un equilibrio, scardina quella cerniera che consente persistenza e flessibilità allo stesso tempo.
Roma sta vivendo una nuova drammatica fase nella sua contesa storia urbanistica, che dal 1870 ad oggi l’ha portata ad avere un’estensione pari alla somma di Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Palermo e Catania, 10 volte superiore alla superficie del comune di Parigi. Questa rapidissima, ipertrofica e sregolata espansione, è stata quasi esclusivamente frutto di una cultura speculativa – bulimica di territorio e di rendita – che si è tramandata e rinnovata sino ai nostri giorni, vedendo solo l’avvicendarsi dei centri di potere e dei protagonisti che l’hanno voluta, gestita e fatta fruttare a scapito di tutti gli altri e della città stessa.
Nessun tentativo di pianificazione e di progettazione complessiva è riuscito in 140 anni a garantire il rispetto delle regole e la salvaguardia di un ecosistema umano e naturale che per millenni si è basato su un delicato equilibrio tra città e campagna, tra spazio pubblico, vita e storia, con un tasso di porosità e di eterogeneità che ha fatto di Roma un palinsesto sociale e materiale unico al mondo.
Ciò che ormai si cela a malapena dietro un romantico, persistente ed ipocrita malinteso – capace di attrarre solo un turismo squalificato e squalificante – è un lungo ed esponenziale processo di gentrificazione, che allo svuotamento, alla svendita, all’ipervalorizzazione fondiaria e immobiliare, ad un’inedita e incessante museificazione del centro storico, vede corrispondere geometricamente un’ulteriore espansione incontrollata, degradante e onnivora della periferia.
La sofferenza di questa città, le sue dolorose smagliature sociali e materiali, si fondano su un vuoto di senso, di pensiero e di cura, sulla completa abiura del pubblico a favore di qualsiasi interesse privato, contro ogni bene comune.
L’ultimo sacco di Roma
L’ultimo e più spudorato modello di gestione collusa del corpo urbano di Roma, è frutto di una continuità d’azione che ha visto, nel corso degli ultimi vent’anni, i sindaci Rutelli, Veltroni e Alemanno – con il sostegno di governi nazionali di qualsiasi colore – operare a tappe forzate la svendita pressoché definitiva del suolo pubblico ancora disponibile e di immense risorse immobiliari a quasi assoluto vantaggio dei loro Grandi Elettori, le dinastie palazzinare dei Caltagirone, dei Toti, dei Bonifaci, dei Mezzaroma.
Implementando sistemi ormai consolidati come le varianti di piano a strumenti a dir poco creativi come la “finanza di progetto”, questo ennesimo sacco di Roma ha saturato nel giro di pochissimi lustri ogni spazio edificabile all’interno del Grande Raccordo Anulare e devastato gli ultimi lacerti della Campagna Romana – un sistema culturale, produttivo, monumentale e naturale prezioso e da sempre intimamente connesso all’Urbe – pesantemente compromessa dalla cementificazione degli anni ’50- ’80.
Ma questa bulimia si è riversata ancora una volta nella città consolidata, dove il costo del suolo e il valore potenziale di intere aree in dismissione, hanno schiuso nuovamente la possibilità di illimitati guadagni.
Tutto questo è stato ancora una volta possibile grazie a complici interventi statali, come la modifica del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. In questo caso la sola correzione di un articolo, spostando da 50 a 70 anni la soglia per poter dichiarare l’interesse culturale di un’architettura, ha di fatto fornito lo strumento giuridico necessario per intervenire in quadranti anche molto centrali.
Una crisi senza precedenti e l’indebitamento progressivo dell’amministrazione – dovuto alla totale assenza di un progetto politico sostenibile e alla gestione clientelare e familistica di un sistema burocratico ridondante, appesantito e corrotto – sta offrendo ai soliti noti l’occasione per mettere definitivamente le mani sulla città.
Il paese degli Shopping Mall
Viviamo ormai nel Paese degli Shopping Mall. Un miliardo di metri cubi è stato costruito negli ultimi dieci anni: outlet, ipermercati e centri commerciali sempre più grandi, circondati da quartieri pressoché vuoti. Cresce il numero delle case e degli uffici disabitati, mentre sempre più persone – a causa della totale deregolamentazione del mercato degli affitti e alla strutturale assenza di politiche di housing sociale – sono in emergenza abitativa, prive di servizi e di luoghi in cui svolgere la propria attività di studio e di lavoro.
E’ evidente che non c’è più nessun motivo per aggiungere un solo mattone e tagliare un solo albero, ed è altrettanto evidente che è ormai indispensabile avviare profonde politiche di riqualificazione, regolamentazione e gestione collaborativa con le cittadinanze, arrestando una volta per tutte questo incessante processo, inconciliabile con qualsiasi ragionevole interpretazione delle parole “crescita” e “sviluppo”.
Perché il Quinto Stato
Il Quinto Stato è il tentativo di ricomporre la sterminata e omessa galassia del lavoro indipendente, creativo e cognitivo, con l’unica finalità di costruire percorsi condivisi in grado di consentire l’emersione di una nuova cittadinanza, portatrice di saperi, esperienze e visioni necessarie al ripensamento dal basso del progetto sociale e culturale di questo paese, come unica via d’uscita da questa crisi che umilia e inquina i corpi, le menti, le relazioni, lo spazio vitale.
Il nostro percorso di coalizione ci ha persuasi che la conquista del diritto universale alla cittadinanza, passa soprattutto attraverso la ricostruzione – a partire dalla difesa e dalla riconquista dei beni comuni – di un nuovo patto civile.
Terreno di questo patto è un radicale processo di innovazione sociale che ad ogni livello punti a scardinare la tradizionale tripartizione Stato – Mercato – Non Profit, investendo ogni settore, contaminando, promuovendo le intersezioni, praticando autogoverno, progettazione condivisa, riappropriazione degli spazi e dei tempi di vita da parte delle cittadinanze. Dal riuso di materiali all’imprenditoria sociale, dall’arte alla cultura, dall’economia collaborativa al mutualismo, dalle energie rinnovabili all’agricoltura biologica, dal co-working al co-housing, questo processo investe e responsabilizza qualsiasi individualità in favore del benessere collettivo.
Abitare liberamente la città
In anni di crisi dell’economia, del lavoro, della produzione e della ricerca, in una città che ha perso, o mai del tutto posseduto, un suo progetto, occorre conciliare la necessità di uno sviluppo locale con il diritto ad abitare liberamente la città nelle sue varie forme e necessità, incentivando l’attivazione di pratiche dal basso, auto-organizzate e indipendenti, che rivendichino la propria presenza all’interno della sfera urbana come parte attiva ed enzimatica.
La cultura materiale e immateriale di questo paese non è un bene in vendita, ma il punto esatto da cui ripartire per costruire un futuro abitabile e sostenibile, per tutti e tutte.Tratto da “Quintostato”