di Lapo Berti –
Il coraggio e l’immaginazione di Franklin Delano Roosvelt
Come dice il nostro Presidente della repubblica, “non troveremo vie d’uscita soddisfacenti e durevoli senza rivolgere la mente al passato e lo sguardo al futuro” (Intervento del Presidente Napolitano al Meeting per l’amicizia fra i popoli, Rimini, 21 agosto 2011). In questo spirito, non c’è forse modo migliore di andare a un passato che, di fronte a un presente incerto e sconnesso, ha ancora molto da dirci che quello di leggere o rileggere i messaggi con cui il presidente Roosevelt lanciò il New Deal.
Erano tempi di crisi feroce, anche quelli, e ci voleva molta energia, molto coraggio e anche molta immaginazione per affrontarli e superarli. Franklin Delano Roosevelt e i suoi uomini seppero trovare tutto ciò. Senza particolari intenti teorici, ma, piuttosto, nel crogiolo della pratica e di fronte alle esigenze tremende di trovare soluzioni praticabili, “inventarono” un esperimento di “economia mista” che, al di là delle contrapposizioni ideologiche, ha segnato in profondità l’anima americana.
Generazioni di economisti insulsamente liberali si sono sforzati di dimostrare che quella era una strada sbagliata, che portava verso la schiavitù e l’aborrito socialismo. Il risultato sono state le aberrazioni teoriche che hanno ispirato e giustificato i comportamenti, talora delinquenziali, di uomini, imprese e istituzioni, ponendo le basi della sequenza tragica di crisi che stiamo attraversando ormai da quattro anni.
Così, un poco alla volta, le idee e le preoccupazioni che mossero la grande stagione rooseveltiana sono state accantonate, considerate nel migliore dei casi come il prezzo da pagare per una crisi, ma non certo tali da guidare l’economia in tempi normali. Si colpevolmente tralasciato di discutere, anche criticamente, le prospettive che l’esperimento del New Deal aveva aperto e di rispondere alle domande, agli interrogativi che aveva posto.
Eppure, se vogliamo guardare al futuro con speranza e convinzione è da quel passato che bisogna ripartire per farne il nostro presente. Dobbiamo tornare a parlare della realtà che abbiamo di fronte, che è quella, inutile negarlo, di un'”economia mista”. Nell’età moderna, anche in quella segnata dalle idee liberali, non è mai esistito altro, checché ne dicano gli ideologi di qualunque parte politica. Non è mai esistita un’economia affidata unicamente al funzionamento dei mercati né una, neppure quella socialista, interamente affidata alla gestione statale. Dobbiamo riprendere a parlare di “economia mista” e abbandonare le veementi quanto false e infruttuose contrapposizioni fra stato e mercato.
Il problema non è che il mercato è cattivo perché vi predomina l’interesse individuale e lo stato è buono perché vi predomina l’interesse collettivo. Nessuna di queste due cose è vera. Come non è vero l’inverso, che il mercato è buono perché vi regna la libertà individuale e lo stato è cattivo perché è la matrice dell’oppressione. Ambedue le istituzioni sono abitate da uomini, con i loro difetti (sempre di più) e con le loro virtù (sempre meno), per cui la questione centrale diventa di stabilire come si riesca a sottoporli, in tutt’e due gli ambiti, a regole efficaci. Ma, come forse bisognerebbe cominciare a dire con forza, il vero problema che non abbiamo mai affrontato davvero e tanto meno risolto è quello di trovare, di volta in volta, i modi per combinare nella maniera migliore stato e mercato per conseguire obiettivi condivisi nel rispetto dei valori che tengono insieme la società.
A quasi ottant’anni di distanza, le parole rooseveltiane non hanno perso nulla della loro attualità. Ma è, forse, la loro inattualità quella che oggi colpisce di più. Colpisce la consapevolezza pienamente dispiegata del ruolo centrale e insostituibile che la coesione sociale svolge nel rendere realizzabile qualunque progetto una collettività si ponga come obiettivo e, soprattutto, nell’affrontare i momenti di difficoltà. Colpisce il valore morale, prima ancora che politico, attribuito all’idea di nazione, di comunità nazionale. Colpisce la fiducia nell’intelligenza di tutti e la consapevolezza che è compito della buona politica fare affidamento in primo luogo su di essa. Colpisce infine la consapevolezza della responsabilità che chi governa si assume nei confronti dei cittadini, dell’impegno che deve porre per non tradirne le aspettative. Tutte cose che oggi non ci sono e che talora vengono addirittura irrise da una classe politica indecente. Tutte cose che dobbiamo ritrovare, se vogliamo tornare a governare la realtà in cui viviamo recuperando lo spirito pragmatico e ottimistico che comunicano le azioni di Roosevelt.
Non si può resistere, dunque, alla tentazione di citare, a mo’ di conclusione, un brano che è un po’ il sigillo dell’intero messaggio rooseveltiano: “La felicità non consiste solo nel possesso di denaro, ma nella gioia che nasce dal raggiungimento di un risultato e nell’emozione data dallo sforzo creativo. La gioia e lo stimolo morale del lavoro non devono mai più essere dimenticati rincorrendo sconsideratamente profitti evanescenti. Questi giorni bui saranno valsi a qualcosa se ci avranno insegnato che non dobbiamo far gestire il nostro destino da altri, ma dobbiamo amministrarlo noi stessi”.
Franklin Delano Roosevelt, Ripartiamo! Discorsi per uscire dalla crisi, Add Editore, Torino, 2011