di Katia Marcantonio –
Alcuni programmi elettorali per la scorsa tornata elettorale in Italia prevedevano il riconoscimento di un reddito minimo alle fasce meno abbienti della popolazione. Il tema è di assoluta attualità in un periodo di crisi economica. I ricercatori della rete Bin (Basic Income Italia), hanno raccolto oltre 50 mila firme per promuovere una legge di iniziativa popolare.
Comprendere la portata e le implicazioni di questo strumento di inclusione socio-economica non è facile in quanto bisognerebbe, quanto meno, valutare i seguenti punti:
- il rapporto con l’indennità di disoccupazione e/o con gli sgravi fiscali e le forme di sussidio cui hanno diritto i percettori di redditi bassi o di salario minimo;
- i criteri di eligibilità, dal momento che il reddito minimo non è un reddito di base universale o di cittadinanza.
Iniziare a fare chiarezza in tema può essere utile. Di seguito, si fornisce, quindi, un primo quadro d’insieme, anche alla luce delle sperimentazioni avvenute in Italia, nell’intento di fare una ricognizione degli approfondimenti necessari per un’elaborazione puntuale dello strumento.
La Raccomandazione 2008/867/CE della Commissione dell’Unione europea, riprendendo l’orientamento del Consiglio europeo del 1992, riconosce come diritto fondamentale della persona quello di disporre di risorse materiali sufficienti per vivere in condizioni umane dignitose. La Commissione inserisce l’attuazione di questo diritto in un quadro programmatico vasto, che spazia dalla promozione della cd. “formazione continua” dei lavoratori a meccanismi volti a favorire la partecipazione sociale di coloro che non sono in grado di lavorare.
In Italia, come riportato da uno studio effettuato per conto della stessa Commissione dell’Unione (1) non c’è un meccanismo coerente volto a garantire l’erogazione di un reddito minimo a livello nazionale. Invero, la legge finanziaria per il 2008 aveva previsto il cd. RMI, reddito minimo d’inserimento, come strumento integrativo per coloro che avevano un reddito basso ed erano disponibili a partecipare a piani di inserimento sociale. Tuttavia, il RMI, dopo svariati anni di sperimentazione non fu adottato per le difficoltà d’identificazione degli aventi diritto (2).
Ci si orientò, quindi, verso uno strumento di sostegno al reddito meno universalistico, anzi con caratteristiche di ultima istanza, rivolto, cioè, solo a quei cittadini che non fossero già assistiti da altre misure di integrazione e sostegno del reddito. Nacque, così, il cd. RUI, reddito di ultima istanza, che doveva distinguere “le carenze reddituali derivanti da mancanza di opportunità lavorativa” da forme di esclusione dal mondo del lavoro derivanti da situazioni di emarginazione sociale (3).
Questo nuovo strumento, più selettivo, doveva essere co-finanziato dal Fondo per le politiche sociali, di programmi regionali approvati dall’amministrazione centrale, tuttavia, la legge finanziaria del 2004 non introdusse gli strumenti per distinguere il RUI dalle varie forme di sussidio regionale già in essere. Ad ogni modo, la sentenza n. 423 del 2004 della Corte Costituzionale (4), dichiarò l’incompatibilità dell’allora configurazione del Fondo per le politiche sociali con l’art. 119 della Costituzione in tema di riparto di competenze tra Stato e regioni sul finanziamento delle politiche sociali (5).
Ciò premesso, le questioni legate al riparto di competenze tra Stato e Regioni s’intrecciano con il rapporto sostanziale tra reddito minimo ed altre forme di inclusione sociale o welfare, tra le quali soprattutto gli sgravi fiscali e l’indennità di disoccupazione.
Infatti, le Regioni, dal canto loro, tra il 1994 e il 2010, hanno implementato, ognuna secondo un proprio modello, schemi di reddito minimo eterogenei, collegandoli a criteri d’idoneità diversi (6).
Piuttosto interessante risulta il caso della provincia autonoma di Trento, che ha previsto l’introduzione di un sussidio monetario il cui importo è pari alla differenza tra la condizione economica del nucleo familiare e la soglia di povertà associata a tale nucleo, nonché la previsione di una ciclicità che riduca il rischio di assistenzialismo (7).
Nel frattempo, a livello nazionale è stata introdotta la cd. social card, legata all’età e all’indicatore ISEE (8).
La ricognizione sopra operata dimostra che una futura introduzione di un reddito minimo che aspiri ad avere connotati coerenti su scala nazionale deve, quanto meno, affrontare le seguenti questioni e/o tener presenti i seguenti aspetti:
- l’attuale riparto costituzionale di competenze Stato-Regioni in tema di finanziamento delle politiche sociali di coesione e solidarietà (art. 119 Costituzione) e di disciplina dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili (art. 117 Costituzione);
- razionalizzare i vari strumenti di sussidio socio- economico, soprattutto la cd. indennità di disoccupazione, attualmente vigenti su scala locale e nazionale a sostegno del reddito. Contestualmente, andrebbe valutato se e quali possono essere aboliti e sostituiti dall’introduzione del reddito minimo, in un’ottica di semplificazione e di riduzione dei costi transazionali di controllo ed erogazione.
- indicare le fonti di reperimento del gettito finanziario stimato per l’erogazione di un reddito minimo;
- individuare modalità di prevenzione di qualsivoglia forma di strumentalizzazione da parte dei mercati del lavoro in nero.
Note
1) F. Strati, Italia, Schemi di reddito minimo, EC, DG Employment, 2009
2) Cfr. punto 2.7 dell’Accordo interconfederale del 5 luglio 2002, cd. Patto per l’Italia firmato dal governo e dalle parti sociali, con l’esclusione di un sindacato nazionale.
3) Cfr. Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Libro Bianco sul welfare del 2003, p. 37.
4) Per maggiori dettagli, cfr. http://www.giurcost.org/decisioni/2004/0423s-04.html
5) La Corte rilevò: “una deviazione sia dal modello del Fondo perequativo da istituire senza vincoli di destinazione – che deve essere indirizzato ai soli «territori con minore capacità fiscale per abitante» (art. 119, terzo comma) – sia dalla sfera degli «interventi speciali» e delle «risorse aggiuntive», che lo Stato destina esclusivamente a “determinate” Regioni (o a determinati Comuni, Province e Città metropolitane) per finalità enunciate nella norma costituzionale o comunque per «scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni» (art. 119, comma quinto). Da ciò non consegue, però, come ritenuto dalla Regione Emilia-Romagna, la soppressione del Fondo nazionale per le politiche sociali”.
6) Quadro sinottico in F. Strati, cit. pp 12 e ss.
7) Cfr. G. Cerea, “Il reddito minimo? Si può fare”, in www.lavoce.it, marzo 13, “La somma spettante è poi eventualmente integrata di un importo per il sostegno del canone d’affitto. L’intervento è per quattro mesi, rinnovabili dopo verifica e per non più di tre volte in due anni. L’erogazione (mensile) della spettanza è garantita entro la fine del mese entro cui è stata effettuata la procedura amministrativa, contestuale alla domanda per gli anziani e tutti coloro che lavorano o hanno perso da poco l’occupazione. Per gli altri soggetti l’erogazione è invece subordinata a una valutazione puntuale da parte dei servizi sociali. La condizione economica dei richiedenti è valutata in base a reddito (al netto delle imposte, delle spese mediche e dell’affitto/rata del mutuo, ma comprensivo di sussidi e di ogni altra voce d’entrata del nucleo) e patrimonio (con la sostanziale sterilizzazione della prima casa), affiancati da indicatori di consumo (auto, ampiezza dell’abitazione, affitto), in base ai quali circa il 17 per cento delle situazioni è stato dichiarato incongruo”.