Garantito che non è un’utopia
di Toni Castellano –
Un’equipe di sociologi, economisti, filosofi, giuristi, ricercatori, liberi pensatori riuniti nel Basic Income Networking, ovvero una rete internazionale che da anni si occupa di studiare, progettare e promuovere interventi indirizzati a sostenere l’introduzione di un reddito minimo garantito. L’Italia è l’unico paese europeo insieme alla Grecia ad esserne privo e di questo argomento parla una delle ultime pubblicazioni della casa editrice “Edizioni gruppo abele”. Il testo spiega cosa sia e come funzioni tale sistema di tutela universale in caso di disoccupazione o transizione lavorativa. Abbiamo chiesto a Luca Santini, avvocato e presidente del Bin Italia, di darci alcune chiavi di lettura sul movimento che si sta creando attorno a questa proposta.
Cosa si intende per Reddito minimo garantito?
Si tratta di una dotazione di risorse, erogata sia in termini monetari, sia con prestazioni di servizi, che si propone di dotare l’individuo che ne sia privo di un ammontare di risorse sufficienti a garantirne la partecipazione alla vita pubblica o comunque a fronteggiare le condizioni di maggiore privazione. Il reddito minimo garantito mira ad assicurare la persona dal rischio di esclusione sociale, sempre più diffuso nelle società contemporanee.
Quanto costerebbe metterlo in pratica nel nostro Paese?
La stima sui costi di una misura del genere è uno degli esercizi di scienza delle finanze più complessi che esistano, perché la predisposizione di stime accurate si scontra con l’indisponibilità di dati certi sui redditi degli italiani e perché soprattutto il costo complessivo della misura dipende da una quantità di variabili demandate alla decisione politica (i costi variano in ragione dell’ammontare del reddito che si intende erogare, del tipo di misure assistenziali esistenti che si pensa di riassorbire nel nuovo schema, delle soglie di esclusione dal beneficio che si intendono prevedere).
Ipotizzando però una misura di sostegno in linea con le indicazioni europee (cioè pari al 60% del reddito mediano) destinata a tutte le persone prive di altri redditi, si può immaginare un impegno per le finanze pubbliche nella misura di 35 miliardi di euro. Questo costo lordo non tiene conto dei risparmi che ci si possono attendere dal riassorbimento di misure assistenziali che non avrebbero più ragione di esistere (gli assegni sociali, i sostegni ai nuclei familiari numerosi, alcune prestazioni di invalidità), né dei ritorni in termini di maggiori entrate dovuti all’aumento dei consumi (e della produzione).
Più che di veri e propri costi, si dovrebbe parlare di redistribuzione delle ricchezze esistenti. E’ bene comunque ricordare che l’Agenzia delle Entrate ha stimato di recente in 120 miliardi l’ammontare annuo dell’evasione fiscale nel nostro Paese, e che secondo la Corte dei Conti ammonta a 60 miliardi ogni anno il costo della corruzione nel settore pubblico. Dunque l’ordine di grandezza indicato pone la proposta del reddito minimo garantito su un piano di concretezza e di praticabilità, anche se ovviamente non ci si può nascondere che si tratterebbe di una riforma economico-sociale di vasta portata, che potrebbe richiedere un tempo abbastanza lungo per la sua completa attualizzazione.
Quali “scogli” si trova a fronteggiare il vostro movimento? Quali sono gli argomenti di chi avversa l’introduzione di un Reddito minimo garantito nel nostro Paese e come ribattete a queste critiche?
L’ostacolo principale all’introduzione di una misura di garanzia del reddito è dipeso in passato da una sorta di “ideologia del lavoro” che accomunava le principali forze politiche e sociali del Paese. Si pensava (e talvolta si sostiene ancora oggi) che l’unico modo “degno” di partecipazione alla vita pubblica dipendesse da una mediazione con il lavoro, e che tutto ciò che fosse fuori da questa sfera della produzione meritasse l’epiteto di “assistenzialismo”. Di fronte alla falcidia di posti di lavoro che la crisi economica internazionale sta provocando, e ancor prima di fronte all’emergere di una precarizzazione di massa del lavoro, queste posizioni conservatrici paiono destinare a cedere.
Si fa strada sempre più ampiamente la consapevolezza che alle vecchie tutele “del lavoro”, occorre associare delle nuove tutele “del cittadino lavoratore”, del soggetto cioè inserito nel mondo produttivo, anche se spesso in condizioni di inattività forzata, oppure di autoimpiego, oppure ancora in continua transizione da un impiego all’altro.
Oggi in verità l’ostacolo più impervio all’introduzione o al rafforzamento degli schemi di reddito minimo è dato dal vento di austerità che si è abbattuto sull’Italia e sull’Europa. Le politiche restrittive attualmente in auge rischiano di vedere sacrificati i diritti sociali sull’altare della competitività. A questo ritorno di fiamma del neoliberismo va contrapposta un’opzione forte per la difesa del modello sociale europeo, che ha fatto della tutela della persona e della sua dignità uno dei punti qualificanti del suo successo.
Quali sono i vantaggi di questo sistema di sostegno per chi si ritrova senza reddito? In che modo l’introduzione del reddito minimo garantito potrebbe essere motore di una nuova forma di partecipazione alla res pubblica?
Il reddito minimo è una misura a favore della cittadinanza attiva. La sua introduzione rafforzerebbe il senso di appartenenza alla collettività (che non può ridursi a un fatto meramente psicologico). Determinerebbe inoltre un allentamento della presa del lavoro sull’esistenza e favorirebbe la nascita o il consolidamento di modalità alternative di produrre e di vivere. Si instaurerebbe un clima sociale meno esasperato, meno competitivo, più disponibile alla cooperazione.
Guardando al panorama europeo, dove il reddito minimo garantito è molto diffuso, sebbene con formulazioni differenti, quale ritenete sia “esportabile” in Italia?
Non esiste probabilmente un modello europeo direttamente esportabile in Italia. La situazione irlandese – caratterizzata da interventi normativi e redistributivi molto recenti – è interessante per la forte tutela del reddito accordata ai cittadini nei momenti di inattività produttiva, associata a una minore tutela sul piano pensionistico. Il modello belga accorda un’attenzione particolare ai cosiddetti flexworker, insediati nell’economia dei servizi e caratterizzati da una spiccata precarietà lavorativa. Infine il modello tedesco si segnala per l’elevato livello di assicurazione dai rischi e per la capacità di adeguarsi alle mutate esigenze produttive senza cedere sul pianto delle tutele (alcune importanti sentenze del Tribunale federale costituzionale hanno richiamato l’attenzione del legislatore sulla centralità degli schemi di protezione del reddito). Insomma, di fronte a questi modelli l’Italia avrà ampia possibilità di orientarsi al fine di prescegliere una strada originale, forte anche dell’esperienza altrui.
Nel libro che raccoglie l’esperienza del Bin Italia e l’evoluzione del reddito minimo, si descrive il passaggio da welfare a workfare… in cosa consiste e a che punto è in Italia questa trasformazione?
Le politiche neoliberiste degli ultimi decenni non hanno mancato di rivolgere la loro attenzione, per restringerne la portata, agli schemi esistenti di protezione del reddito. Le forze politiche conservatrici non hanno avuto la forza (ma forse neppure l’intenzione) di smantellare del tutto queste misure, ne hanno però ristretto le modalità di accesso, rendendo maggiormente condizionata l’erogazione del reddito minimo garantito. Con l’espressione workfare si indica uno slittamento delle protezioni dalla funzione “classica” di sostegno dell’individuo, al rinnovato scopo di incitare il soggetto a reinserirsi forzatamente nel mercato del lavoro. Dunque un’erogazione sempre più magra (o comunque quasi mai riadeguata all’aumentare del costo della vita) viene spesso subordinata all’accettazione di impieghi qualunque, talvolta sottopagati o non in linea con le capacità o le aspirazioni dell’individuo. Si tratta di una china pericolosa, che rischia di rafforzare e non di smussare la segmentazione sociale e che rischia di condurre alla formazione di un mercato del lavoro duale, con una fetta di popolazione destinata a impieghi “derelitti” o di serie B. Nel nostro volume abbiamo sottolineato con forza questo rischio, deducendone la necessità di una battaglia politica da condurre sul terreno continentale, per fare del reddito garantito un diritto fondamentale europeo. Da un tale indirizzo si avvantaggerebbero in primo luogo, come è ovvio, i paesi come l’Italia che sono del tutto privi di misure di sostegno del reddito, ma anche gli altri cittadini europei avrebbero da ottenere una sorta di messa in sicurezza dei loro sistemi di protezione, grazie alla forza vincolante del diritto comunitario.
Una campagna nata intorno ad una proposta di legge di iniziativa popolare che intende istituire anche nel nostro Paese una garanzia per il reddito per coloro che sono precari, disoccupati e inoccupati, oggi soprattutto giovani, donne e Working Poor. Una campagna che sta dando dei risultati. Qual è la reazione della gente?
E’ presto per fare un bilancio compiuto della campagna di raccolta firme per la legge di iniziativa popolare, si può però affermare sin d’ora che si tratta della più vasta mobilitazione degli ultimi anni sul terreno del reddito garantito. Due partiti della sinistra (Sel e FdS) dopo alcuni tentennamenti degli anni scorsi hanno finalmente sposato con convinzione il tema del reddito, e ne hanno compreso le potenzialità dirompenti anche in funzioni anti-crisi. Anche degli autorevoli esponenti del Partiti democratico (senatori ed eurodeputati in primo luogo) hanno aderito alla campagna, alcune personalità della cultura hanno dato lustro all’iniziativa, oltre 250 iniziative in pochi mesi su tutto il territorio nazionale hanno accompagnato la raccolta di firme. Si tratta di un patrimonio politico prezioso, che speriamo possa essere capitalizzato nella prossima legislatura. Per quanto ci riguarda il Bin-Italia farà di tutto per mantenere alta l’attenzione sul tema del reddito, anche affinché non vada disperso questa nuova domanda di dignità che la recente campagna ha espresso a gran voce.