“L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e affondata sulla rendita”. L’ha detto Matteo Renzi e non si poteva dire meglio il dramma che attanaglia l’Italia, al di là della crisi che abbiamo condiviso con il resto del mondo. La rendita è quasi sempre figlia di un privilegio, di una condizione esclusiva. Presuppone l’intreccio fra politica ed economia e spesso si tira dietro la corruzione. Non si può riformare il sistema, non si può uscire dalla crisi, se non si aggredisce questo nodo. Pubblichiamo la seconda parte di una riflessione di Lapo Berti sul tema.
Il sistema della rendita
Vale la pena di soffermarsi più a lungo sulle caratteristiche e gli effetti della principale articolazione del sistema della rendita, quella che intreccia, in un unico disegno predatorio, gli interessi delle imprese e gli interessi dei partiti e dei singoli politici che sono in grado di condizionare il funzionamento della pubblica amministrazione e di istituire per legge posizioni di privilegio o di monopolio. Quello che è importante capire, infatti, è che, mentre sul piano economico l’estrazione di rendite mina l’efficienza dei settori interessati, sul piano economico-sociale essa costituisce una ridistribuzione di ricchezza dalla totalità dei cittadini a una minoranza di soggetti che fanno parte del sistema della corruzione su cui la rendita si sorregge. Il peso negativo della rendita, dunque, si fa sentire sia sulla produttività dei settori economici interessati sia sulla distribuzione del reddito, che ne risulta distorta. Un sistema economico in cui la ricerca della rendita occupa uno spazio rilevante se non predominante, poggiando su di una vasta rete di relazioni e di comportamenti collusivi, è esposto a due conseguenze principali. Da un lato, lo sperpero di risorse impegnate nel rent seeking e l’allocazione inefficiente che ne consegue provocano una riduzione progressiva della sua capacità di produrre reddito. Dall’altro lato, il prelievo ingiustificato e predatorio sul reddito prodotto altera la distribuzione del reddito, peggiorando la posizione economica degli agenti che non partecipano al sistema. Due altre conseguenze non dovrebbero essere ignorate, per quanto più difficili da definire concretamente. Da un lato, la pervasività della rendita indebolisce l’incentivo a ricercare nuove combinazioni produttive, penalizzando la ricerca e l’innovazione; dall’altro, diffondendo e premiando i comportamenti collusivi deteriore l’ambiente sociale, indebolisce il senso civico, mina le basi della democrazia.
Nel corso del tempo, il sistema di funzionamento e di gestione dell’economia imperniato sull’esistenza e sulla costante espansione di una vasta area sottoposta al regime della rendita ha cementato un assetto di potere di cui i partiti, nessuno escluso, sono stati nel contempo il veicolo e i beneficiari. La produzione e percezione di rendite è diventata prioritaria e maggioritaria rispetto alla creazione di profitti. Le imprese si sono adeguate e i partiti ne hanno fatto l’oggetto precipuo della loro azione se non addirittura la ragione della loro esistenza e sopravvivenza. Il prezzo, fatale, che si è pagato è stato un restringimento progressivo della propensione a investire in ricerca e a promuovere l’innovazione, con la conseguente, drammatica, riduzione della produttività che ci ha progressivamente allontanato dagli altri paesi economicamente avanzati con cui siamo in competizione. Dall’inizio degli anni 2000, il tasso di crescita della produttività totale dei fattori, già crollato negli anni novanta, si è del tutto azzerato. È questa la cifra del declino italiano, l’indicatore che ci segnala l’esistenza di una “crisi italiana” che va al di là della crisi globale e che tuttora permane.
Di fronte al declino che, a seguito di questa piega che ha preso l’evoluzione economica del nostro paese, si è manifestato a partire dagli anni novanta, i principali attori economici e politici facenti parte del sistema di potere dominante, hanno fin qui reagito ampliando invece che riducendo l’estensione delle rendite, determinando un ulteriore peggioramenti delle prospettive e delle possibilità di crescita della nostra economia nel suo complesso. Ha resistito una parte minoritaria dell’apparato produttivo italiano che ha accettato la sfida della competizione globale, impegnandosi in intensi processi di innovazione, senza lasciarsi incantare dalle sirene della rendita.
Non è un problema nuovo. Ce ne siamo accorti, già con grande preoccupazione, negli anni settanta, quando economisti non ortodossi, come Augusto Graziani e ancor più Claudio Napoleoni, posero l’accento sul peso insostenibile delle rendite che gravava sulle prospettive di sviluppo del nostro paese e ne condizionava la vita sociale e politica. Si parlò allora di un “patto fra produttori”, di un compromesso fra capitalisti e lavoratori per una lotta comune alle rendite che liberasse il nostro potenziale di sviluppo da quell’abbraccio mortale. Non se ne fece nulla e ora sappiamo che almeno un trentennio è stato sprecato dalla classe dirigente italiana nella miope ed egoistica difesa di privilegi antichi quanto ingiustificati e intollerabili, economicamente e socialmente.
La lotta alla rendita
La lunga crisi italiana, cui negli anni novanta si dette il nome, non inappropriato, di declino, è stata attraversata e, quindi, rinfocolata ed acuita dalla crisi finanziaria ed economica mondiale, ma non ne è figlia. È figlia, piuttosto, dei “lacci e lacciuoli” o addirittura delle catene che da decenni imbrigliano l’energie innovative del paese in nome della conservazione di quel blocco di potere che poggia sulla rendita e prospera nella corruzione.
Se questa affermazione è, anche solo in parte, vera, ne consegue che non si esce dalla crisi e non si riesce a imboccare la strada di un nuovo modello di sviluppo se non si fa saltare quel blocco di potere, se non si abbattono le rendite e non si eliminano i centri di potere, politici ed economici, che sono da sempre impegnati nella creazione e nello sfruttamento delle rendite. Non è un compito da poco. In primo luogo, perché significa, appunto, affrontare e tentare di smantellare un blocco di interessi che, sul sistema delle rendite, si è cementato nel corso di decenni, assoggettando parti consistenti dell’amministrazione pubblica, della politica, dell’economia e perfino della magistratura. Esso compone e sostiene, tuttora, la classe dirigente del nostro paese e ne condiziona il governo. È improbabile che rinunci, senza combattere, ai vantaggi e ai privilegi di cui gode da tempo immemorabile.
Occorre che al governo del paese giungano gli esponenti di forze economiche e sociali sospinti dal vento dell’innovazione e che di quel blocco non hanno mai fatto parte organicamente. Non è facile, perché il ceto di governo, sia a livello centrale che locale, è ancora, in larga misura, emanazione di quel blocco. In secondo luogo, l’abbattimento del sistema delle rendite, richiede non solo interventi penetranti in alcuni sottosistemi, quello amministrativo e quello economico in primis che dalla rendita sono pervasi, ma anche e soprattutto un mutamento sociale, una mutazione della mentalità prevalente, quasi un cambiamento antropologico. Perché la logica della rendita, insieme con quella clientelare che ne è il correlato necessario, è penetrata nella mente e nella cultura delle persone, ne condiziona i comportamenti, orientandoli alla ricerca di una sia pur piccola partecipazione alla spartizione delle rendite, accettando il costo del clientelismo e della devastazione etica che ne deriva. Sarebbe necessario un vasto movimento dal basso, di cittadinanza attiva, ma senza l’incontro con un ceto dirigente nuovo e consapevole, determinato a porre la lotta alle rendite al centro della propria azione, anche questo sarebbe insufficiente.
In concreto, uno dei modi più diretti e immediati per rimuovere una parte consistente delle rendite che gravano sul sistema economico italiano sarebbe quello di introdurre più concorrenza e trasparenza nelle relazioni di mercato, facendo sì che il sistema risponda più alle logiche della competizione che a quelle dello scambio politico e della collusione. Ma, come ormai è sotto gli occhi di tutti, anche l’organismo che avrebbe dovuto vegliare sul corretto funzionamento dei mercati, l’antitrust (introdotto nel 1990), è stato inesorabilmente attratto nella rete del capitalismo clientelare e ha rinunciato alla sua funzione fondamentale di lotta alla rendita. Così, in un regime che assomiglia di più al feudalesimo che al capitalismo, monopolisti pubblici e privati, imprenditori collusi e fruitori di privilegi istituiti per legge da politici corrotti continuano impunemente a imporre la tassa della rendita sull’economia, sempre più asfittica, dell’intero paese.
Non è pensabile, dunque, e, tanto meno, politicamente praticabile un’azione che si proponga di prosciugare le rendite “in un’unica soluzione”. Sarebbe velleitario e ingannevole, come lo sono stati, finora, tutti gli impegni assunti da politici di combattere la corruzione. Appare più sensato immaginare un percorso che affronti i problemi in sequenza, selezionandoli in considerazione dell’impatto concreto che la loro risoluzione può avere sul funzionamento dell’economia, ma anche di quello mediatico che essa può esercitare su un’opinione pubblica che non crede più alla possibilità di cambiare davvero, in profondità, il sistema dominante. Sulla base di due presupposti: a) che questi interventi rientrino in un programma, chiaramente comunicato all’opinione pubblica, in cui si dichiari il modello di società e di economia che si intende perseguire; b) che si colga ogni occasione possibile per procedere a un ricambio della classe dirigente, in tutti gli ambiti della società, ma specialmente nel mondo della rappresentanza, favorendo l’emersione delle energie non colluse di cui la società e l’economia sono ricche.
Fra gli ambiti che compongono il sistema della rendita e che sarebbe opportuno, se non necessario, aggredire per primi, possiamo indicare a) il sistema della rappresentanza politico-amministrativa e sindacale, dove nel corso dei decenni ha messo radici un ceto politico che costituisce uno dei pilastri del sistema della rendita e della corruzione; a1) in stretta connessione, il sistema delle imprese che fanno capo agli enti locali; b) il sistema dei controlli giurisdizionali e amministrativi, dove nel corso dei decenni si è insediata una casta che è sinergica con il mondo delle rappresentanze in virtù dei poteri di veto e di interdizione di cui dispone e del fatto che a quel mondo appartengono i poteri di nomina; c) il sistema degli ordini professionali, che negli ultimi tempi si è tentato più volte, con scarso successo, di eliminare o quanto meno ridimensionare e che in ciò è emblematico del potere di condizionamento e della forza d’inerzia di cui dispone; d) il sistema bancario e delle fondazioni. Di tutto ciò dovremo riparlare più approfonditamente.
Vai alla prima parte