di Lapo Berti –
Una crisi economica che siamo ben lungi dall’aver risolto, anche perché, come abbiamo scritto più volte, richiede interventi di sistema che nessuno attualmente è in grado di concepire e tanto meno di realizzare. Un sistema politico in via di implosione o, forse, già imploso, dal quale non è dato aspettarsi nessuna mossa risolutiva. Una scadenza elettorale da cui è molto difficile che escano le soluzioni politiche necessarie a risollevare il paese. Uno scenario di probabile incertezza e instabilittà. L’unica speranza è che si risvegli una cittadinanza attiva e consapevole, capace di far sentire sentire la sua voce e di premere per una riforma generale.
Un sistema impazzito
Ormai da mesi stiamo assistendo, sempre più increduli e costernati, alle convulsioni di un ceto politico che, abbarbicato alle fonti piccole e grandi del proprio potere, rifiuta pervicacemente di fare i conti con un’opinione pubblica, non parlo di quella espressa dai media, che da tempo ha espresso con chiarezza il proprio verdetto di condanna e di rifiuto. E’ davvero sconcertante assistere ancora in queste settimane alla scoperta di politici di tutte le parti politiche impegnati ad arraffare soldi pubblici, spesso anche senza la pur devastante giustificazione che lo stanno facendo per il bene del partito. Ed è altrettanto sconcertante vedere come i partiti, nonostante il disastro incombente e la disapprovazione manifesta della maggior parte del paese, siano impegnati a difendere allo spasimo gli ingiustificati privilegi che essi stessi si sono attribuiti. Una perversa logica del potere da difendere e conservare a tutti i costi, in cui spesso rimangono invischiate anche le componenti sane dell’universo politico, lasciando il paese senza speranza.
Cosa significa tutto ciò, al di là del fatto, ovvio, che siamo di fronte a un personale politico di infima qualità umana e intellettuale? Cos’è successo al nostro sistema democratico?
Proviamo a mettere in fila qualche riflessione senza pretese di completezza.
In una prospettiva di lungo periodo, il punto di svolta può essere forse indicato nel momento in cui Craxi, accusato di malversazioni a favore del proprio partito, rispose, quasi con fierezza, che così facevano tutti, sottintendendo che, dunque, si doveva accettare questa torsione della morale pubblica, in nome di un realismo che appare sconcio oggi come allora. Al fondo c’era, si diceva, la questione dei costi crescenti della politica. Ma perché i costi della politica crescevano e hanno continuato a crescere?
La risposta più banale è probabilmente anche quella più realistica: perché potevano crescere. Perché non c’era, e non c’è, alcun vincolo, interno o esterno, che impedisse ai costi della politica di crescere. Non c’erano regole né vincoli morali all’interno dei partiti. I partiti trovavano sempre il modo di ritagliarsi una fetta crescente di contributi pubblici legali. E poi, dove non arrivavano le risorse legali, c’erano la corruzione, la concussione, la malversazione, l’appropriazione illecita di fondi pubblici e la riscossione di tangenti. Il disincentivo rappresentato dalla disapprovazione pubblica non è mai stato un deterrente efficace, fino a oggi, perché l’esperienza dimostrava che, seppur a malincuore, a ogni scadenza elettorale gli elettori finivano con il rinnovare la loro delega a un ceto politico sempre più estraneo. Diminuivano i votanti, ma ci si consolava con la constatazione che era un mal comune di tutte le democrazie e che, comunque, in Italia non andava poi così male.
Senza una prospettiva
Oggi si sta diffondendo la sensazione di essere giunti al capolinea. Siamo presi in una spirale perversa che non presenta vie d’uscita, perché il rimedio al male è affidato alle mani di coloro che l’hanno prodotto. E, puntualmente, vediamo che i partiti sono impegnati a discutere di nuove regole, di una nuova legge elettorale, che facciano salvi i loro interessi di bottega e non a interrogarsi su quali siano le soluzioni migliori per far funzionare la democrazia nell’interesse dei cittadini.
Nel frattempo, i cittadini manifestano un disagio crescente, che, stando ai sondaggi, si manifesta attraverso l’astensione o l’adesione a partiti e movimenti anti-sistema. Complessivamente, più della metà degli italiani ha abbandonato i partiti che sono ancora in lizza per conquistare il governo del paese come se nulla sia successo e stia succedendo. Contando, probabilmente, ancora una volta sul fatto che la vischiosità dei metodi democratici esistenti consenta di governare senza maggioranza e, quindi, senza alcuna legittimità sostanziale. E’ una prospettiva allucinante, ma sembra, a oggi, quella più probabile.
Il problema di fondo, su cui regna un silenzio glaciale da parte di tutti coloro che normalmente dovrebbero contribuire alla formazione dell’opinione pubblica, è che l’attuale geografia politica, con i perimetri partitici che circoscrivono (frammenti di) ideologie e spezzoni di gruppi d’interesse facenti capo ai membri di una casta inamovibile, non corrisponde in alcun modo all’articolazione di una società sempre più proiettata verso la prospettiva del 99% vs l’1%. Questo è il motivo per cui appena si presenta qualcuno che anche solo sembra andare oltre quei perimetri, come Grillo o Renzi, incontra un successo che alle cariatidi della politica e dell’informazione appare incomprensibile e privo di senso. Si ricorre allora alla categoria mascalzona dell'”anti-politica” per escludere ed emarginare chi non accetta il menù ammannito dalla politica costituita.
Il cammino della speranza
Andiamo incontro a una scadenza elettorale il cui risultato, salvo sorprese o eventi imprevisti, certificherà lo spappolamento della rappresentanza politica attuale, la sua incapacità di riformarsi e, soprattutto, di fare proposte all’altezza dei problemi sul tappeto. Andremo incontro a una nuova fase d’instabilità politica, d’incertezza generale. Il declino continuerà.
Viviamo una crisi di sistema determinata dal fatto che per trent’anni si è affermata e ha governato un’ideologia, ampiamente condivisa anche da molti di coloro che ne hanno subito i danni, la quale si è dimostrata incapace di tenere insieme le dinamiche del capitalismo globale e la coesione sociale, lo sviluppo della democrazia, la tutela dell’ambiente. Le manifestazioni più evidenti di questa crisi di sistema sono, da un lato, la crisi finanziaria globale che ha messo sotto gli occhi di tutti l’insostenibilità di un sistema finanziario che si sviluppa e agisce al di fuori di qualsiasi limite e controllo e, dall’altro, l’implosione della democrazia ridotta a un edificio cadente, fatto di diritti puramente formali e svuotato della partecipazione attiva dei cittadini, dietro il quale si muovono gli interessi, talora inconfessabili, di un’oligarchia” che non accetta regole. Il risultato è la diffusione del cancro della corruzione inteso come asse fondamentale della governabilità. A tutti i livelli, il consenso non lo si crea, non lo si ricerca, lo si compra. Non è solo un problema italiano, beninteso. La crisi di riguarda tutti, investe la governance dell’intero pianeta.
E’ lecito e sensato nutrire speranze in questo contesto apparentemente disperato? Si può fare qualcosa? La risposta è affermativa e si chiama “cittadinanza attiva”. Una cosa facile a dirsi e un po’ meno a farsi, ma non impossibile e dall’effetto sicuro. I cittadini, anche se non sono certo sovrani, hanno ancora un potere considerevole, che rimane per lo più allo stato latente. Sommersi dai flussi della globalizzazione, hanno perso in larga misura il potere che avevano come lavoratori, ma hanno mantenuto e forse rafforzato quello che hanno come consumatori. Anche qui, la sovranità del consumatore è consegnata a qualche consunto manuale di economia, ma ciò non significa che, nel momento in cui recuperano consapevolezza, i cittadini/consumatori non siano in condizione di confrontarsi anche con le più arroganti concentrazioni del potere economico.
Ma quello che conta, in definitiva, è il potere di cui disponiamo in quanto cittadini, in quanto fondamento, ancorché solo formale, del sistema democratico. Siamo noi che decidiamo chi mandare in parlamento, anche se hanno fatto di tutto per espropriarci di questa facoltà. Siamo ancora noi che possiamo decidere del destino di un politico, esercitando la facoltà di controllo sul suo operato che ci compete, appunto, in quanto cittadini. Siamo noi che possiamo e dobbiamo dettare l’agenda, indicare le priorità, scegliere il tipo di società in cui vivere. Senza nascondersi che, a differenza di quanto afferma un luogo comune stucchevole quanto ingannevole, la cosiddetta società civile non è civile affatto e in essa allignano le stesse pulsioni, gli stessi difetti, di cui si alimenta la politica dei partiti attuali. Ed è quindi inevitabile, anzi necessario, il confronto, la competizione, anche il conflitto.
Ma c’è un problema. Non disponiamo degli strumenti per dare attuazione a tutto ciò, per esercitare appieno le facoltà che la democrazia ci assegna. Un tempo, i partiti erano una buona approssimazione di ciò che s’intende per organi intermedi della rappresentanza, strumenti per la formazione di una volontà collettiva che poi trovava espressione nell’esercizio del diritto di voto. Certo, erano strumenti imperfetti, che si rivolgevano a una popolazione ancora largamente immatura dal punto di vista culturale e politico. Ma sono serviti, se non altro, a far prendere il gusto della democrazia a tanti che avevano conosciuto solo la passività politica o si erano scaldati per “l’uomo della provvidenza”.
Oggi occorre fare un passo in avanti in direzione della democrazia sostanziale, di un sistema politico che non possa fare a meno del consenso dei cittadini, della maggioranza effettiva dei cittadini. Non possiamo sentirci dire che questo è impossibile nelle società complesse del mondo globalizzato. Oggi, tramite la rete, i cittadini hanno la possibilità di entrare agevolmente in rapporto fra di loro, di scambiarsi opinioni, di formulare proposte. Non è sufficiente a fare una nuova democrazia, ma basta per iniziare un nuovo cammino. Bisogna ridare vita a tutte le istanze intermedia, politiche, economiche e sociali, in cui la voce dei cittadini può farsi meglio sentire. Se è il caso, bisogna inventare nuove forme di partecipazione e di consultazione dei cittadini, come stanno sperimentando i Piraten tedeschi. E bisogna, forse, ripensare a quegli strumenti di controllo dal basso che sognava Capitini tanti anni fa.
Il nostro paese ha bisogno di riprendere contatto con la propria realtà, con i cittadini che lavorano e che aspirano a ricercare la loro felicità, con le imprese che producono, innovano, competono, con i giovani e meno giovani che non necessariamente sognano il posto fisso, ma chiedono tutele per affrontare un’incertezza nuova che nessuno rimuoverà dal loro orizzonte. La politica va ricostruita da qui, riaprendo i canali fra la società che vive e le istanze che la rappresentano e devono impegnarsi a dare forma al suo futuro.