di Roberto Ciccarelli –
Le mutue italiane sono più di 1.500, spesso hanno più di un secolo di vita. In Europa raccolgono oltre 180 miliardi e danno lavoro a 350mila persone. Con la crisi dello stato sociale, tra austerity e tagli, l’unica speranza è il mutualismo. Il nostro viaggio nella pratica che permise a operai, artigiani e contadini di auto-tutelarsi
Lo spirito degli anni Novanta sta tornando. Non quelli del XX secolo, definiti da Joseph Stiglitz gli «anni ruggenti» della bolla finanziaria che ha portato all’esplosione dei mutui subprime negli Usa e del debito sovrano in Europa, bensì gli anni Novanta del secolo precedente, l’Ottocento.
È un ritorno al futuro. In una crisi che aumenta la disgregazione sociale e smentisce l’ipotesi di uno Stato sociale che accompagna le persone dalla culla alla bara, si torna a parlare di mutualismo. Nel XIX secolo questa pratica permise a operai, artigiani e contadini di creare le società del mutuo soccorso, le leghe di resistenza, le camere del lavoro per garantirsi l’istruzione, le tutele sociali, l’assistenza sanitaria e i fondi contro la disoccupazione. A quel tempo, in Italia c’erano 6700 mutue (800 mila soci effettivi). In Inghilterra c’erano oltre 24 mila società (oltre 4 milioni di soci), in Francia (6200 per 842 mila soci).
Nel secondo Dopoguerra la sinistra e i sindacati hanno considerato il mutualismo come un residuo del passato perchè lo Stato doveva rispondere a tutti i bisogni dei cittadini. La crisi del welfare, sempre più burocratico e inefficiente, ha rilanciato la consapevolezza di integrare le tutele garantite universalmente dallo Stato con meccanismi di auto-governo. Sono nati così i gruppi di acquisto solidale (Gas), le esperienze di moneta virtuale utili per il baratto di beni e servizi, il commercio equo e solidale o la banca del tempo. Esiste inoltre un settore del welfare dove la mutualità, con la sua storia ultra-centenaria, potrebbe assumere un ruolo decisivo: l’assistenza sanitaria integrativa del servizio pubblico.
Welfare di comunità
Nel 2011 un rapporto del Parlamento Europeo ha calcolato che le mutue del Vecchio Continente raccolgono 180 miliardi di contributi, impiegano 350 mila persone e garantiscono coperture sociali e sanitarie di tipo complementare. In alcuni casi gestiscono ospedali e farmacie. In Italia le società di mutuo soccorso sono oltre 1500, aderiscono alla Federazione Italiana Mutualità Integrativa Volontaria (Fimiv), fondata nel 1900, e operano in prevalenza nel centro-nord del paese. Una delle più antiche è la Cesare Pozzo, con circa 90 mila soci e 270 mila assistiti, specializzata nell’intervento socio-sanitario. L’adesione a questo sistema è volontaria. Il versamento di una quota associativa permette il riconoscimento di un sussidio per malattia, invalidità o decesso, e spinge il socio a partecipare alle assemblee in cui si discutono i bilanci, si definiscono le prestazioni da erogare, oppure l’elezione degli organismi dirigenti. «Fino a 10 anni fa il mutualismo era un fenomeno circoscritto – afferma Placido Putzolu, presidente della Fimiv – Gran parte delle società di mutuo soccorso sopravvivevano a se stesse dopo la creazione dello Stato sociale, i grandi sindacati e i partiti di massa. Oggi che la spesa sanitaria delle famiglie cresce, e lo Stato non riesce più a garantire prestazioni efficienti e si sta ritirando dalla gestione del welfare, la mutualità si propone come un soggetto no-profit. Il nostro intervento è integrativo, non sostitutivo rispetto a quello del pubblico». Nel 2008 un decreto del governo Prodi, e un altro autorizzò l’apertura dei Fondi Sanitari Integrativi, attuando la riforma sanitaria del 1999. Questi decreti hanno vincolato il 20 per cento delle prestazioni erogate dai fondi sanitari, dalle casse e dalle mutue alla copertura di prestazioni per non autosufficienza, odontoiatria, al fine di godere di benefici fiscali.
Anche grazie a questo provvedimento, nell’ultimo quinquennio sono nate oltre 100 società di mutuo soccorso. Un accordo tra Fimiv e Confcooperative ha permesso di promuovere la mutualità attraverso le banche di credito cooperativo dalla Lombardia alla Puglia. Un altro fronte di sviluppo è quello dei contratti nazionali. Sono almeno 50 i rinnovi che prevedono forme di mutualità. Ci sono fondi che interessano il commercio (Fondo Est), i chimici o i metalmeccanici. Per tutte le categorie del lavoro dipendente che aderiscono a un fondo mutualistico aziendale la deducibilità fiscale dell’assistenza integrativa è del 100 per cento.
Il futuro degli autonomi
La situazione è ben diversa per un milione e mezzo di lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata Inps e per oltre 4 milioni di precari. Per loro, che non partecipano alla contrattazione collettiva, e sono privi di tutele per la maternità, infortuni o malattie professionali, il mutualismo è una risorsa. Chi decide di aderire a un fondo mutualistico ha diritto solo alla detraibilità del 19 per cento della quota associativa. Questa ingiustizia viene denunciata anche dalla Fimiv: «Il rischio più prossimo è quello di una frattura sociale sull’equità dei livelli di tutela – sostiene Putzolu – Non si è ancora trovato il modo per estendere i benefici delle coperture complementari a chi non svolge un lavoro dipendente».Come rimediare? «I problemi non si risolvono da soli. Le persone possono mettersi insieme secondo una logica di welfare territoriale – risponde Putzolu – Noi, ad esempio, stiamo sperimentando la mutualità territoriale. A Bolzano, c’è il fondo “Mutual Help” della Cesare Pozzo, si rivolge tanto ai dipendenti quanto ai professionisti e ai loro familiari. In questi progetti di continuità assistenziale possono essere coinvolti tanto le Asl, quanto le mutualità del posto».
Soci, non clienti
«In Italia siamo arrivati ad un paradosso – aggiunge Valerio Ceffa, direttore di Insieme Salute, una società di mutuo soccorso di base in Lombardia con 10.500 soci, 200 in più che nel 2011, e un patrimonio che ammonta a più di un milione di euro – le persone che non hanno tutele come i precari o gli autonomi devono preoccuparsi dei costi inerenti alla propria salute. Il mutualismo ha enormi possibilità in questo campo, ma viene frenato dalla scarsa coesione sociale degli autonomi e precari, e anche dalla scarsa conoscenza di queste nuove possibilità. Noi abbiamo iniziato ad affrontare questo problema con il gruppo, piccolo ma coeso, dei traduttori di Strade ».
«Il vero problema – continua Ceffa – è come riempire il vuoto che sta lasciando lo Stato: al cittadino viene detto solo di arrangiarsi, e di pagare quando ha bisogno. Davanti a lui sembra esserci solo un rapporto di mercato con le aziende private che hanno l’obiettivo del profitto. L’assicurazione privata tende a sostituire lo Stato, salvo poi lasciargli tutti i costi. Nel privato ci sono strutture che lavorano bene, ma guarda caso spesso non hanno pronto soccorso, la rianimazione, reparti per i malati di Aids o per lungo degenze». Ciò non significa che lo Stato debba abdicare al suo ruolo di tutela dei diritti fondamentali delle persone. Il mutualismo permette una gestione sociale dei rischi per la salute che il welfare assistenzialistico non riesce ad assicurare. «Alla base – conclude Ceffa – c’è un gruppo che si auto-organizza, crea una struttura che risponde alle proprie esigenze. Chi si associa non verrà mai buttato fuori e avrà sempre il diritto di essere curato. Se i costi per una malattia sono notevoli, la mutualità continuerà ad assisterlo comunque. Per noi le persone sono soci, non clienti».
Mutualismo operaio
Nel campo del lavoro dipendente, Insieme Salute ha creato una convenzione insieme agli operai della Bcs, un gruppo di Abbiate Grasso specializzato nella produzione di macchine agricole con 100 milioni di fatturato. L’idea è stata di Danilo Tonella, cinquantaquattro anni, delegato Fiom da 25, che oggi siede nel Cda della società di mutuo soccorso. Cinque anni fa, ha proposto ai suoi colleghi di inserire la mutualità nel rinnovo del contratto aziendale. «L’idea è nata da una necessità semplicissima – ricorda Tonella – In Lombardia abbiamo un sistema sanitario abbastanza efficiente, ma l’aumento dei costi delle prestazioni, delle terapie o dei ticket gravano su uno stipendio di 1200 euro. Per un’ecografia si arriva a pagare 70 euro». Con Insieme Salute, gli operai della Bcs hanno definito una convenzione con l’azienda alla quale hanno aderito 300 colleghi (su 600). Il contratto prevede una quota annuale di 45 euro a carico dei lavoratori e 150 a carico dell’azienda che permette il rimborso totale delle spese sanitarie. «I tempi di attesa sono lunghissimi, se vai con le convenzioni con i privati si accorciano i tempi, ma si pagano tanti soldi. La proposta del mutualismo supera questi problemi. Per il lavoratore ha costo quasi zero, visto l’integrazione aziendale, e i tempi sono più veloci. Bisogna unirsi, altrimenti finiamo in pasto ai pescecani».
Tratto da “Il manifesto” http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/8033/