Riproponiamo alcune riflessioni di Lapo Berti, tratte dal suo saggio su Moneta e integrazione europea del 1993, che ci aiutano a riconsiderare i limiti insiti nel processo di unificazione europea sin dalla sua nascita. Dominava all’epoca un bisogno di Europa, che doveva misurarsi con la difficoltà, ancora attuale, di costruirla. L’incapacità politica di raccogliere la sfida, la sua completa abdicazione a favore delle forze economiche e finanziarie, a cui è stata, di fatto, affidata la responsabilità di indicare la rotta, dettare tempi e scegliere i modi del processo di unificazione hanno determinato le conseguenze a cui tutti oggi assistiamo: burocratizzazione, lentezza, deficit democratico. Mezzo secolo fa il poeta e scrittore Ezra Pound sintetizzava ciò che stava accadendo, affermando: “I politici sono i camerieri dei banchieri”. Sono stati sottovalutati indubbiamente gli aspetti culturali del processo, ma anche l’estrema articolazione degli interessi economici, di categoria e territoriali in gioco. I benefici derivanti dall’apertura del mercato sarebbero stati elevati, ma la loro equa distribuzione non poteva essere data per scontata. La costruzione dell’unione monetaria ha scelto di privilegiare la stabilità, ma questo è andato a discapito, come era prevedibile, dello sviluppo e dell’equità. E dunque, se è vero, come disse Luigi Einaudi all’Assemblea costituente del 1947 che gli Stati sono un “anacronismo storico”, è vero anche che l’Unione europea, ad oggi, è un “oggetto politico non identificato”.
Il continente europeo è sottoposto oggi a una quantità di tensioni […] C’è un bisogno d’Europa che prima o poi la stragrande maggioranza dei cittadini del continente riconoscerà come il prerequisito necessario della sua sopravvivenza […] Ma proprio per la molteplicità e la complessità delle sfide che sono implicate in questo difficile processo di costruzione dell’Europa, appare del tutto inaccettabile che la responsabilità di indicare la rotta, di segnare i traguardi, di dettare i tempi, di scegliere i modi, sia interamente lasciata all’interesse parziale, per quanto rilevante o addirittura decisivo, degli operatori economici, delle grandi imprese, dei gruppi finanziari, delle banche, delle burocrazie. Eppure è esattamente questo il processo che è venuto avanti in questi anni […], come ancora di recente ricordava De Rita, “un modo rapido e politicamente meno faticoso, concentrato nella delega all’economia e in particolare agli strumenti finanziari e monetari” […] Gli eventi critici cui abbiamo assistito negli ultimi mesi, dalle contrastate votazioni […] al preoccupante diffondersi di movimenti di protesta a sfondo nazionalistico o razzistico, mostrano, se ce n’era bisogno, quanto sia arduo e irto di ostacoli il cammino dell’integrazione europea nel momento in cui dalle dinamiche rarefatte e concentrate dei grandi apparati si scende sul piano dei comportamenti, degli atteggiamenti e degli interessi della gente. Qui si sconta la sottovalutazione degli aspetti culturali, ma anche dell’estrema articolazione degli interessi economici, di categoria, territoriali. Si sconta il deficit di partecipazione democratica all’elaborazione del processo di integrazione e, quindi la scarsa identificazione nei suoi obiettivi da parte di quelli che dovrebbero essere domani i cittadini d’Europa.[…] Il Mercato comune è tale solo di nome “l’industria europea non esiste […] La ricerca europea non esiste”. Di fatto le imprese continuano ad operare subendo i vincoli dei confini nazionali, ostacolate nelle possibilità di dar vita a intese sovranazionali e impedite nella creazione di vere e proprie imprese europee.[…] “La storia dell’integrazione economica suggerisce che i benefici derivanti dall’apertura del mercato sono elevati, ma che l’equità della loro distribuzione non può non essere data per scontata“, avverte l’autore di uno dei più autorevoli ed equilibrati rapporti sull’evoluzione del sistema economico della Comunità europea, il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Tommaso Padoa-Schioppa.
In particolare, si è osservato che una maggiore integrazione internazionale può avere anche effetti almeno parzialmente negativi se si tiene conto delle imperfezioni dei mercati.[…] Il venir meno dei vincoli protezionistici esporrà alla concorrenza infracomunitaria settori e aree economiche con notevoli differenze di produttività, di risorse, di retribuzioni e indurrà a nuove specializzazioni produttive. […] In uno dei suoi ultimi interventi, con la consueta pacatezza e lucidità, Franco Momigliano, opponendosi caparbiamente all’imperante trionfalismo dell’ <Europa delle imprese>, dell'<Europa dei mercati>, analizzava i diversi interessi coinvolti e ammoniva sulla complessità del problema: <E’ ovvio che qualsiasi giudizio di convenienza va riferito a una qualche funzione di utilità. L’Europa può convenire alla crescita, o alla stabilità economica, o alla sicurezza, o all’equità sociale, o alla qualità della vita o anche alla sicurezza militare, alla sovranità, all’indipendenza nei confronti dei “grandi poteri imperiali”. E’ probabile che un’Europa integrata possa soddisfare parecchie di queste funzioni di utilità: è assai meno probabile che le possa soddisfare in uguale misura; in qualche caso è possibile che le soddisfi in modo contrastante.> Allora tre di questi obiettivi principali appaiono in conflitto fra di loro se non in un vero e proprio rapporto di trade-off: quello dello sviluppo, quello della stabilità e quello dell’equità.
Lo sviluppo si concilia difficilmente con la stabilità e l’esperienza storica dimostra anche che è raramente rispettoso dei criteri di equità. La stabilità, d’altronde, può richiedere a sua volta sacrifici ancora più pesanti in termini di sviluppo che di equità. La costruzione dell’unione monetaria […] ha scelto di privilegiare la stabilità. […] l’Uem non conviene a tutti i soggetti economici e sociali nella stessa misura e rispetto agli stessi obiettivi. Può essere, inoltre, come sta dimostrando la vicenda dell’Europa a più velocità, che ai diversi partner l’unione convenga secondo prospettive temporali diverse. Non è detto, infine, che per taluni soggetti non esistano alternative di cooperazione-integrazione internazionale più convenienti.
[…]fra i parametri indicati a Maastricht per delineare il processo di convergenza fra le economie europee manca l’indice di disoccupazione. L’assenza appare in effetti assai grave in quanto significa che nella verifica del grado di convergenza viavai raggiunto non c’è l’obbligo di considerare anche gli effetti che le politiche di risanamento adottate esercitano sul livello dell’occupazione. E’ chiaro che l’inclusione di questo parametro nei criteri di convergenza stabiliti per l’unione economica e monetaria avrebbe reso il processo ancora più arduo e problematico. Ma è vero anche che la sua assenza appare qualcosa di più di una dimenticanza. Dietro di esso si scorge il desiderio di far scomparire dalla vetrina dell’Uem uno dei suoi aspetti più problematici, quello dei costi sociali che certamente il suo perseguimento, nelle condizioni date, comporta. C’è qui una sorta di cattiva coscienza del processo di integrazione che è invece il caso di portare alla luce. […] La maggiore obiezione di natura teorica al progetto di unione monetaria europea si riallaccia all’argomento dell’occupazione. […] Essa parte dall’osservazione che gli squilibri posti in luce dai disavanzi della bilancia dei pagamenti possono trovare compensazione in due modi: o aggiustando misura corrispondente il tasso di cambio oppure accettando una riduzione del reddito. Un sistema monetario europeo che evolve verso tassi di cambio irrevocabilmente fissi elimina tendenzialmente la possibilità di percorrere la prima strada. Non resta dunque che agire sul salario o sull’occupazione. E poiché i salari nelle nostre economie sono difficilmente flessibili verso il basso e non sussiste, d’altro canto, quella mobilità del lavoro entro lo spazio europeo che sarebbe presupposta dalla teoria delle aree monetarie ottimali, il risultato sarà che l’aggiustamento si avrà in termini di occupazione. Di qui la conclusione che, in presenza di ampi e persistenti divari economici tra le diverse economie, una moneta unica o un sistema di cambi fissi non potrà non avere effetti depressivi sull’occupazione. […]gli economisti tedeschi sostengono che unione monetaria ha bisogno di un’unione politica che la supporti con strumenti che possono essere manovrati solo da un’autorità federale europea. Si pensa, soprattutto, all’esigenza di un bilancio pubblico europeo per far fronte agli squilibri regionali. […] Anche il premio nobel per l’economia Maurice Allais si è schierato in favore del “no”, sostenendo che le condizioni di convergenza delle economie, per quanto necessarie, non sono sufficienti a supportare l’unione monetaria con una moneta unica se non sono accompagnate da un’effettiva unione politica, come dimostrerebbe il caso della riunificazione tedesca.
[…] Il processo di integrazione economica e monetaria dell’Europa proseguirà. Con esso procederà anche il campo verso l’unificazione politica, con presumibili ampliamenti […] ma non sarà un processo agevole e lineare, tanto meno breve, quale l’avevano immaginato gli eurocrati di Bruxelles […]Il cammino verso l’integrazione economica e, soprattutto, monetaria si presenta irto di difficoltà che non sarà possibile aggirare affidando al cieco agire delle forze di mercato e all’ottusa dittatura dei vincoli economici il compito di sbarazzare il campo dalle difficoltà. […] Sono stati commessi errori gravi, ancorché irrimediabili. Dietro l’ispirazione di ideologie economiche che per essere state largamente diffuse e vincenti negli anni trascorsi non sono meno sbagliate e perniciose, è stata scelta la via più ardua e costosa per raggiungere l’integrazione economica e monetaria. Si è scelto di imporre un cammino breve di convergenza forzata a sistemi economici e sociali resi disomogenei da storie di decenni se non di secoli. E come obiettivo di questo processo di superficiale omologazione a tappe forzate si è posta la creazione di un sistema monetario europeo che ha come regola di comportamento l’imperativo assoluto della stabilità, in un momento in cui a questo termine non può associarsi un senso sinistro, in presenza dei guasti intollerabili provocati dalla recessione e davanti allo spettacolo delle popolazioni che ai confini dell’Europa attuale chiedono con forza disperata il riassetto e il rilancio delle loro economie. La conseguenza principale di questi errori è stata che si sono fissati un orizzonte temporale e termini di riferimento precisi per la speculazione. […] Il fatto che invece di lucrare sulle differenze di prezzo tra beni si tenti di lucrare sulle differenze di prezzo tra monete o attività finanziarie non modifica in nulla il fenomeno della speculazione, cui, in condizioni normali, spetta il nobile compito economico di portare in equilibrio i prezzi di domanda e d’offerta. […] la speculazione sulle attività finanziarie e sulle valute in particolare è il fatto che, in condizioni di squilibrio particolarmente pronunciate, si trasforma in un potente fattore di amplificazione dello squilibrio […]
L’Europa economica, l’Europa dei mercati e delle monete, è un passaggio inevitabile, un prerequisito necessario dell’unione europea. Ma neanch’essa vedrà la luce in maniera completa se non saprà offrirsi come risposta credibile alle forze disgregatrici che agiscono all’interno e alle spinte tremende che premono all’esterno.
(tratto da Lapo Berti, Moneta e integrazione europea, in L. Berti e A.Fumagalli, L’antieuropa delle monete, Manifestolibri, 1993)