di Salvatore Aprea –
Energia: molta teoria, poca pratica
L’energia Italiana ha conquistato un poco invidiabile record europeo: è in cima alla scala negli incentivi alle fonti rinnovabili e contemporaneamente è in fondo per gli investimenti nella ricerca del settore. Questo dato emerge da un rapporto dedicato all’innovazione energetica, preparato dall'”Istituto per la Competitività” (I-Com) di Roma e offre un interessante confronto internazionale per l’evoluzione nell’ultimo decennio e le nuove tendenze maturate.
Un ulteriore dato che spicca è fornito dal confronto tra il numero delle pubblicazioni dei ricercatori nostrani e le domande di brevetto presentate all’European Patent Office nel 2010. Se per le prime siamo grosso modo nella media, per i brevetti siamo pietosamente in coda. Tanto per rendere le cose più chiare nel 2010, considerando una trentina di riviste internazionali tra quelle principali, i ricercatori italiani hanno pubblicato un terzo degli studi dei primi della classe – i soliti statunitensi – concentrandosi in particolare sulle tecnologie fotovoltaiche (16 studi) e lo stoccaggio di energia (15 studi). Al contrario nel campo dei brevetti al primo posto ci sono gli Stati Uniti con 1175 e al secondo posto la Corea del Sud, mentre l’Italia si ferma a quota 95 (geotermia in primis e poi fotovoltaico e solare termodinamico): meno di un terzo della Francia e addirittura un decimo della Germania. Incredibile per un Paese con un sistema economico che gli consente (consentiva?) di stare da sempre nel G8.
Tutto ciò rappresenta la prova di una perniciosa “malattia” che da decenni praticamente tutti i governi si sono guardati bene dall’affrontare seriamente e cioè il sistema pubblico – università, CNR, Enea ed altri enti – e il sistema privato – l’industria – non si parlano o al massimo lo fanno scarsamente. Siamo abbastanza bravi nel produrre lavori teorici che però sembrano interessare poco all’industria che non riesce a trasformarli in soluzioni da sfruttare. Che l’industria nostrana soffra in maniera cronica di una “leggera” forma di allergia verso gli investimenti nella ricerca non è certo una diceria: nel 2009 il settore privato ha speso nella ricerca 466 milioni di dollari – ben al di sotto delle altre nazioni più ricche – a fronte dei 570 milioni di dollari della ricerca pubblica. Certo anche l’industria internazionale ha il fiatone. Se si osservano i dati internazionali degli ultimi dieci anni ci si rende conto che le risorse economiche dedicate sono cresciute in valore assoluto, ma la ripartizione pubblico/privato è profondamente cambiata. Nel Duemila gli investimenti pubblici rappresentavano “solo” il 62% di quelli privati, mentre nel 2009 sono saliti al 175%. In una parte d’Europa, con gli investimenti privati che resistono lungo l’asse franco-tedesco, e negli Stati Uniti – non in Giappone – il contributo pubblico si è progressivamente dilatato quando la crisi economica ha spinto i governi a compensare la contrazione delle disponibilità private attraverso un maggior intervento diretto. Per quanto riguarda l’Italia l’orientamento è mutato notevolmente. Nel Duemila il 40% della spesa era rivolto al nucleare, mentre oggi prevale l’efficienza energetica (22,8%) seguita dal nucleare (20,4%), dai combustibili fossili (15,7%) e dalle fonti rinnovabili (10,3%).
L’uso degli incentivi ha sicuramente ampliato il mercato delle fonti rinnovabili, ma non ha prodotto una importante crescita delle capacità tecnologiche che abbia generato vantaggi industriali ed economici. Per agevolare lo scambio di conoscenze alcuni mesi fa Confindustria ed Enea hanno siglato un accordo, ma ad oggi sono ancora poche le risposte delle aziende Italiane, concentrate soprattutto sul fotovoltaico e sul solare termodinamico. Tutto ciò, seppur utile, è insufficiente per invertire la rotta poiché occorrerebbe che la regia venisse svolta da un programma nazionale sull’innovazione energetica che stimolasse il mondo produttivo, i cui benefici si avvertirebbero nel tempo anche sul piano occupazionale. Una dimostrazione, invece, della superficialità con la quale la materia è affrontata dalla classe politica emerge lampante osservando che l’Enea, l’unico centro di ricerca italiano per l’energia, da tempo immemorabile è commissariato.
I dolori di Atene e Sparta
Per la verità è giusto precisare che in Italia se Atene (ovvero la ricerca nell’industria) piange, Sparta (ossia l’università) non ride poiché l’accademia italiana da anni viene bocciata dagli istituti di valutazione internazionali. Il pollice verso più recente proviene dalla graduatoria delle top-universities della società “Quacquarelli Symonds”, stilata fin dal 2004 sulla base di rigidi criteri di valutazione bibliometrici per misurare la rilevanza delle ricerche pubblicate, assieme alla reputazione accademica, al valore dei suoi docenti, alle strutture e ai servizi. In cima alla World university rankings di “Qs” ci sono le università britanniche e statunitensi, con Cambridge al primo posto seguita da Harvard, il MIT di Boston, Yale e Oxford, mentre occorre precipitare fino al 183° posto per scovare la prima italiana, l’Università di Bologna che peraltro ha perso 7 posizioni rispetto al 2010. Dopo Bologna, prima di incontrare un altro ateneo nostrano bisogna scendere oltre quota 200. Alla posizione 210 c’è infatti La Sapienza di Roma, quindi l’università di Padova (263/a) e quella di Milano (275/a). Discorso a parte merita il politecnico di Milano. In classifica generale si posiziona al 277° posto, ma tra gli atenei tecnologici è 48°, unico tra gli italiani a sfondare il muro della top 50. Buoni risultati li ha raccolti la Bocconi, 48/a nella categoria social sciences and management, 26/a per Finanza e 29/a per Economia. Il primato dell’ateneo economico milanese riguarda comunque la reputazione dei propri laureati, dove raggiunge il 15° posto.
Ignoranza e smemoratezza
Il problema è che il nostro Paese vive immerso in un perenne presente: non ha memoria nemmeno del proprio passato recente e si comporta come se il futuro non fosse affar suo. La classe dirigente italiana non ha alcuna visione del futuro e appare non in grado di costruire un progetto politico-economico che possa favorire lo sviluppo di tutti quei settori innovativi capaci di contribuire alla crescita del Paese. Ad esempio in occasione del G8 dello scorso maggio, un report preparato dalla società di consulenza McKinsey sul ruolo trainante di Internet nello sviluppo economico, ha messo a confronto tredici paesi (G8 più Cina, Brasile, Corea del Sud, India e Svezia) e l’Italia non ha fatto una bella figura, visto che è in fondo a tutte le classifiche. Eppure da uno studio focalizzato sull’Italia risulta che negli ultimi quindici anni Internet ha creato 700 mila posti di lavoro e ne ha soppressi 380 mila con un saldo netto positivo di 320 mila posti. Certo, la sparizione di posti di lavoro ha un costo sociale, ma il potenziale di crescita è un dato di fatto e quindi sarebbe opportuno ampliare la banda larga italiana. Secondo la società di consulenza Boston Consulting, oggi in Italia Internet vale il 2 % del Pil, pari a 36,1 miliardi di euro: nel 2015 questo valore può raddoppiare, con una crescita annua fra il 13 e il 18%. Ciò nonostante il tavolo aperto mesi fa dal Ministero dello Sviluppo Economico con le aziende di telecomunicazioni langue.
La cronica mancanza di fondi, accentuata dalla crisi economica, è la motivazione che viene sempre addotta per giustificare i limiti della ricerca italiana. Eppure se si avesse la volontà politica di avviare un programma nazionale di ampio respiro i soldi si troverebbero. Facendo i conti della serva, il non aver voluto accorpare le elezioni amministrative con i referendum ha provocato lo sperpero di 400 milioni di euro; l’avvio dei progetti del Ponte sullo Stretto di Messina ovvero di un’assurdità che non vedrà mai la luce ha prodotto altri 400 milioni di spesa; il regalo delle frequenze televisive invece dell’assegnazione tramite asta – contrariamente a quanto avvenuto nelle telecomunicazioni – ha causato mancati introiti per lo Stato stimati in circa 2 miliardi; l’ostinazione nel non voler vendere Alitalia ad Air France ha provocato il passaggio del passivo della compagnia di bandiera alle casse dello Stato, pari a circa 2,3 miliardi (17 novembre 2008, dichiarazione del liquidatore Augusto Fantozzi). Fermandoci qui per carità di Patria, siamo già arrivati a oltre 5 miliardi di euro letteralmente “defenestrati” negli ultimi tre anni.
Ignoranza e smemoratezza sono mali a cui il nostro futuro rischia di pagare un carissimo prezzo. A meno che qualcuno non abbia l’ardire di considerare un futuro accettabile quello che sembra prospettarsi, con scarse certezze per i lavoratori – come un vecchio Paese latinoamericano – e la produzione di beni di modesta qualità tecnologica – come la vecchia Cina di 10 o15 anni fa che non aveva ancora abbandonato la lunga stagione maoista. Un Paese “vecchio” non solo in termini anagrafici, ma per il suo modello socioeconomico non in grado di recuperare un rilievo internazionale. Perché un ruolo non si ottiene per grazia ricevuta, bisogna meritarselo.