di Aldo Bonomi –
Succede anche questo in un paese che si spacca in una guerra di religione sull’art. 18: che la parte più qualificata e innovativa del mondo del lavoro, quel terziario avanzato che è confuso nel “popolo delle P.Iva”, sia senza rappresentanza ai tavoli in cui si discute, senza costrutto, di riforma del mercato del lavoro. Invece di guardare al nuovo che avanza, ci si attarda in battaglie di retroguardia che accentuano il declino
Strano destino per un popolo l’essere senza voce. Finisce che altri parlano e decidono per lui. In tempi di crisi e di “stato d’eccezione” avere rappresentanza e accedere ai tavoli che contano è ancora più importante. Se non ci sei quasi non esisti. In questi giorni di riforma del lavoro accade al “popolo delle P.Iva”, vaso di coccio tra i vasi di ferro del capitale del lavoro. Un mondo che, certo, andrebbe scomposto per evitare che l’immagine riflessa assomigli più alla deritiana mucillagine, massa informe più che popolo. Vale soprattutto per quel terziario innovativo fuori dagli Ordini che, nato come molecola dell’economia postfordista, oggi si trova a fare i conti con una crisi di identità e di riconoscimento forse anche più grave di quella economica e di mercato; che pure grave lo è.
Tre le questioni che mi permetto di sollevare: primo il welfare. Al 2018 i contributi da versare nella riserva indiana della Gestione Separata saliranno al 33 %. In cambio di cosa? Non di una pensione dignitosa visto che nel contributivo all’italiana posso versare tanti contributi ma il coefficiente di calcolo darà sempre una pensione da fame. Diritto al reddito? Neanche a parlarne perché se un professionista esce dal mercato del lavoro per un anno ma non arriva alla scelta estrema di chiudere la P.Iva non ha diritto allo “status” di disoccupato. Insomma si fa cassa ma senza includere. Due: il dispositivo contro le false P.Iva rischia di far morire anche quelle vere laddove siamo in presenza di processi di concentrazione del mercato o di raggiungimento dell’agognata alta consulenza con commesse che magari superano la famosa soglia del 75 %. Tre: curiosamente si applica la norma solo alle professioni “non ordinistiche” ma i giovani avvocati o architetti sono oggi tra le figure più precarie.
Insomma ce ne è per capire quanto l’origine del problema per il mondo delle P.Iva stia soprattutto nella debolezza della sua dimensione di popolo e di soggetto capace di produrre tracce di rappresentanza. Una situazione che deve portare in primo luogo gli stessi professionisti e chi ne fa rappresentanza a riflettere sulla propria identità e capacità di fare coalizione. Perché in questo mondo l’associazionismo prolifera. Anche troppo. Sono quasi 3 milioni i professionisti senza albo e hanno ben 242 organizzazioni che tuttavia organizzano per lo più solo la punta delle singole piramidi professionali, con identità sempre più ristrette. Solo la milanese ACTA con una forte produzione teorico-pratica di auto rappresentazione (notevole il loro Manifesto dei lavoratori della Conoscenza) punta a fare il “sindacato” trasversale delle P.Iva e osa chiedere di essere ricevuta dal ministro Fornero. Tutte hanno un problema di fondo: non hanno risolto la questione, per usare un linguaggio antico, del rapporto tra avanguardia e popolo. Soprattutto nel terziario dei servizi dove soprattutto tra le giovani generazioni dei nativi digitali perennemente connessi proliferano le micro-reti, le community, gli accordi informali, in una logica virale per organizzare il bisogno di non sentirsi soli, di capitale sociale, relazioni e auto rappresentazione per superare l’indistinzione dei mercati. Un proliferare che non viene intercettato se non a fatica da chi dovrebbe farne base sociale per acquisire forza di lobby verso la dimensione dei poteri verticali. Una debolezza che rischia di rendere vano il lamentio sul non essere considerati nonostante l’orgoglio da classe creativa. Difficile in queste condizioni essere visti dal ministro Fornero. Quasi un paradosso un governo dei professori che non riconosce identità e forme del lavoro del general intellect professionale.
Se il popolo delle P.Iva intende essere tale deve in primo luogo far capire di essere figlio della modernità, di un processo di terziarizzazione che non può essere ridotto alle forche caudine dell’alternativa secca tra eccellenza e precariato. Serve lo sviluppo di una dimensione professionale intermedia che può (ri)nascere solo se in alto chi regola ne riconoscerà lo statuto diverso e autonomo e sul territorio nelle piattaforme produttive si realizzerà quell’osmosi tra capitalismo manifatturiero in ristrutturazione e ceti professionali metropolitani che tutti da tempo indicano come una delle vie d’uscita dalla crisi. Che però è bisognoso di politiche che connettano formazione e innovazione di saperi contestuali e formali e imprese. Per uscire dalla crisi occorre anche una visione del “capitalismo a venire” che non può essere immaginato solo come la culla del lavoro dipendente “normato e salariato” così che ciò che devia da questo standard viene classificato come patologia da reprimere. Avviene così che anche nel mercato del lavoro ogni piccolo cambiamento è visto spesso come l’inizio di ciò che finisce e non di quello che (volendo) potrebbe iniziare. Usando sempre parole del ‘900 perché non pensare che siamo in presenza di deboli tracce di classe creativa (R.Florida) o di un nuovo ceto medio basato sui lavoratori della conoscenza (S.Bologna). Impariamo da loro a continuare a cercare per continuare a capire dentro la moltitudine della nuova composizione sociale.
Da “Microcosmi”, Il Sole 24 ore