Lavoratori autonomi e freelance

Autonomi e freelance: il dilemma del topo nel formaggio

di Roberto Ciccarelli

“Topi nel formaggio”, “individui servili” e “culturalmente rozzi”, protagonisti di “pratiche non di rado sgradevoli e perfino ripugnanti della nostra vita pubblica”. Sono alcune delle espressioni usate negli anni Settanta da Paolo Sylos Labini a proposito della crescita esponenziale di una nuova forza-lavoro, il lavoro indipendente che non rientrava nel modello produttivo della grande fabbrica, in quello del lavoro salariato e, in generale, del lavoro dipendente. Da allora ne è passato di tempo ma, per la sua strutturale complessità, il lavoro indipendente resta ancora oggi un’anomalia rispetto al governo delle relazioni produttive e alle politiche del lavoro

Il processo di formazione del lavoro indipendente ha un carattere globale e non può essere limitato alle valli bergamasche, alle province del Veneto o ai distretti industriali. E’ stato un fenomeno metropolitano che ha investito per un ventennio le scuole e le università, tracimando dagli angusti, e probabilmente inesistenti confini della “piccola borghesia”, a quelli dei comportamenti di massa, dell’immaginazione simbolica e degli stili di vita della popolazione più giovane e acculturata e avrebbe, più tardi, inciso sulla mentalità della forza lavoro qualificata, intellettuale e professionale che Sergio Bologna e Andrea Fumagalli definirono, nel 1997, “lavoro autonomo di seconda generazione”. Negli ultimi quindici anni si è consolidato un lavoro orientato alle funzioni cognitive e delle relazioni sociali. Oggi questa situazione riguarda i giovani tra i 25 e i 34 anni che hanno aperto la partita Iva nelle attività professionali, scientifiche e tecniche (cioè nel lavoro cognitivo autonomo) e, all’inizio del 2012, hanno superato per la prima volta quelle aperte nel settore tradizionale delle partite Iva, quello del commercio e dell’artigianato.

Roma, Università La Sapienza, 1977, Piazzale della Minerva
La possibilità di tenere insieme questi aspetti oggettivamente diversi (l’impresa e il lavoro) nella stessa categoria di “lavoro indipendente” è stata ampiamente esplorata nel volume curato da Costanzo Ranci Partite Iva. Il lavoro autonomo nella crisi italiana. In questo libro prezioso, che rompe il tabù della ricerca accademica, non si nascondono le difficoltà dovute all’idea che per gli indipendenti la politica sia ancora rappresentanza degli interessi, attività di lobbying e non anche costruzione di nuovi modelli di cittadinanza sociale.

Questa duplice difficoltà investe direttamente l’efficacia del concetto di “lavoro indipendente”. Quanto al primo aspetto, i ricercatori sembrano tracciare una linea di continuità tra il lavoro autonomo e la piccola impresa, mettendo sullo stesso piano i committenti (i grandi professionisti del lavoro autonomo regolamentato: gli architetti ad esempio) e coloro che lavorano per i loro grandi studi (le “giovani” partite Iva), oppure i titolari della micro-impresa e i loro dipendenti. E lo fanno perché la natura del lavoro indipendente risponde ad un capitalismo postfordista organizzato per appalti e subappalti.

Ambivalente indipendenza
L'”indipendente” può essere contemporaneamente datore di lavoro e lavoratore, imprenditore di se stesso e titolare di una partita Iva. Questo aspetto viene colto nel libro e rivela la natura del lavoro contemporaneo, quella di esercitare un’attività operosa che sfugge alle categorie di “lavoro salariato” e di “lavoro dipendente” e, in generale, alla nozione di “lavoro” come l’abbiamo conosciuto nel Novecento: cioè un rapporto contrattuale tra due soggetti distinti, un datore di lavoro e il lavoratore. Questa transitorietà, o ambivalenza, dei ruoli e delle funzioni si rispecchia nella composizione tecnica del lavoro indipendente che all’apparenza rappresenta un’insalata indigesta, ma che in realtà è molto ben definita: c’è il lavoro professionale (dagli avvocati agli architetti ai consulenti o manager), poi l’impresa e, infine, il lavoro autonomo nelle relazioni organizzative.

Ciò non toglie che tra queste figure accomunate, non a caso, dall’appartenenza al contenitore del “ceto medio”, esistano differenze di classe eclatanti. Lasciando da parte le ovvie differenze tra il piccolo imprenditore e il suo dipendente, tra il grande libero professionista e il “giovane” avvocato, tanto per fare un esempio, esistono spaventose disuguaglianze economiche, il primo può guadagnare milioni di euro, il secondo, se gli va bene, poco più di 10 mila all’anno. Che senso ha dunque accomunare nel ceto medio persone che possiedono status culturali e professionali così diversi, dato che gli stessi ricercatori riconoscono che il “ceto medio” “non si dà in natura”, ma è una costruzione mentale che può essere usata per mille scopi diversi?

Pensare che la definizione di “ceto medio” riesca a conciliare questo conflitto tra l’identità di status (o ceto) e quella sociale è forse un azzardo. Si trascura il fatto che l’immagine attuale del lavoro indipendente è il risultato di un’ideologia del professionalismo borghese che considera il lavoro indipendente solo nella sua versione affluente, cioè popolata da grandi professionisti e da imprenditori, e non da partite Iva e lavoratori autonomi alla ricerca di un reddito minimamente dignitoso. Sia cioè un’altra versione del discorso sull’impresa, quando invece appartiene a pieno diritto all’orizzonte simbolico e esistenziale del lavoro. Così facendo si nasconde il conflitto e si prepara il terreno per le retoriche consolatrici sui “giovani” della “generazione perduta”, e altre consimili. Discorsi che aspirano alla ricomposizione dell’ordine sociale perduto, evocando scenari del passato che la crisi ha ormai reso inattuali.

La frattura sociale e ideologica tra i grandi professionisti, i piccoli e medi imprenditori (rispettivamente 1 milione 524 mila e 1 milione) e gli indipendenti (3,8 milioni) si è allargata nell’ultimo decennio, non diversamente da quella che oppone gli operai e i manager della grande fabbrica. Tutto questo è avvenuto mentre fallivano le ipotesi che, da destra a sinistra, si sono confrontate con questo problema. Politicamente il settore della piccola impresa si è a lungo identificato con la protesta contro lo stato predatore, mettendo al centro la questione fiscale. A sinistra c’è stato il cosiddetto “veltronismo” che ha inteso rappresentare simbolicamente il lavoro indipendente delle metropoli, in particolare quello che si è sviluppato nelle reti dell’economia dei grandi eventi culturali. Oggi questa formula mostra tutta la sua inadeguatezza, non solo per la carenza delle risorse degli enti locali, ma perché rappresenta una politica burocratica ad alto tasso di consociativismo, oltre che un’idea del lavoro culturale ridotto ad offerta commerciale dall’alto.

Siamo apolidi o cittadini?
Davanti al fallimento di queste ipotesi, nel lavoro indipendente si sta affermando l’auto-organizzazione a difesa di un sistema di regole a tutela dei più deboli e vulnerabili (e nella ricerca coordinata da Ranci si cita l’esempio di Acta, noi aggiungiamo quello dei traduttori, degli archeologi o degli architetti). E’ una novità che tuttavia non sembra essere efficace a causa di una contraddizione interna al lavoro indipendente: i professionisti fanno attenzione ad una politica degli interessi di categoria, i precari ai diritti sociali fondamentali. Un’antitesi apparentemente insuperabile, nonostante i recenti tentativi di tracciare possibili coalizioni tra due sfere finora non comunicanti.

In fondo, lo stesso dubbio viene espresso in una lunga e realistica recensione al libro scritta da Sergio Bologna (che di Acta è membro) che sta girando in queste settimane in rete. Basterà l’auto-organizzazione a istituire una novità in un campo, quello della rappresentanza politica degli interessi, già affollata e ultra-frammentata tra 19 ordini professionali e 250 associazioni che si rivolgono al lavoro autonomo non regolamentato?

La politica come rappresentanza degli interessi, di lobbying, non è servita fino ad oggi per sconfiggere tre luoghi comuni: gli indipendenti sono tutti liberi imprenditori (versione di destra); sono precari o “false partite Iva” in attesa di stabilizzazione (versione di sinistra, elemento caratterizzante anche della riforma Fornero). Questa mancata comprensione della realtà produce mostri: gli indipendenti pagano l’Irap (come se fossero tutti imprenditori), sono obbligati tutti ad essere assunti (quando invece avrebbero bisogno di tutele per non dipendere dai voleri del loro committente); non hanno la garanzia di una pensione e invece pagano salata la gestione separata dell’Inps. Nessuno di loro ha diritto alle politiche di sostegno al reddito. Non sono cittadini, sono apolidi.

Un nuovo proletariato
Gli indipendenti che hanno espresso il desiderio di auto-organizzarsi restano divisi tra due prospettive opposte: i professionisti fanno attenzione ad una politica degli interessi professionali, i precari ai diritti sociali fondamentali della cui assenza soffre il lavoro indipendente. Un’antitesi apparentemente insuperabile, nonostante i recenti tentativi di tracciare possibili coalizioni tra due sfere altrimenti non comunicanti. Si continua a credere nella validità delle opzioni calate dall’alto, oppure in quelle contrattate con il legislatore, attraverso un bricolage infinito di emendamenti a proposte ispirate ad un secolare moderatismo politico e culturale.

Forse una soluzione può venire da una battaglia culturale, condotta in primo luogo all’interno del lavoro indipendente, che rifletta sulle reali condizioni del lavoro indipendente in Italia. Siamo in presenza di milioni di working poors che vedranno peggiorare nei prossimi anni la propria condizione. Davanti a questo fatto ogni mistero dell’analisi sociale dovrebbe sparire, e con esso anche le remore a considerarsi un nuovo proletariato. Impresa difficile, ma non impossibile, dato che l’impotenza politica del lavoro indipendente è il risultato della crisi del professionalismo che ha strutturato l’ideologia del ceto medio durante la storia repubblicana ed è esploso da quando la disoccupazione colpisce anche le professioni “liberali”, intellettuali o creative.

Una coscienza della proletarizzazione del ceto medio del lavoro indipendente, quello che negli anni Novanta chiamavamo precariato cognitivo e che oggi definiamo Quinto Stato, viene dalle occupazioni dei teatri, dei cinema e degli atelier del Valle a Roma, di Macao a Milano, dell’asilo Filangieri di Napoli o la Zisa a Palermo. Stupisce la mancanza dell’analisi di queste esperienze nel libro di Ranci, e comunque l’assenza di settori naturalmente “indipendenti” come quelli dello spettacolo, della cultura e dell’arte. L’utilità di queste esperienze consiste nel fare emergere le contraddizioni che stanno affossando il lavoro indipendente, e non solo il ceto medio: la rottura del legame tra formazione e professione, tra produzione dei saperi e possibilità di remunerazione; l’auto-governo delle istituzioni e la democrazia diretta che supera le mediazioni tradizionali del ceto medio delle professioni.

Il dilemma del topo nel formaggio
E’ una battaglia tutta da fare, e gli esiti sono incerti, anche perché sono ancora tutti da verificare i punti di saldatura tra questi movimenti e l’auto-organizzazione del lavoro autonomo. E’ sempre possibile che le divisioni interne al lavoro indipendente, cioè il conflitto tra l’ideologia del ceto medio (lo status del “professionista” borghese) e le pratiche dell’auto-organizzazione, arrestino il processo di coalizione. Ciò non toglie però che una battaglia culturale può essere istruita alla luce di un presupposto comune.

Nella società postfordista i nuovi strumenti del controllo dell’intelligenza, della mobilità e dell’autonomia dei cittadini lavoratori vengono sperimentati prima sul corpo vivo del lavoro indipendente e poi sul resto della società. E’ stato così nel 1997 con il pacchetto Treu sulla precarietà, sarà così domani con la riforma Fornero e quella delle professioni.

Finchè il lavoro indipendente non riuscirà a superare questa contraddizione, e a riconoscersi come Quinto Stato e non come “ceto medio”, resterà schiavo di un’immagine di se stesso formata da altri. Se invece capirà di rappresentare la condizione generale del lavoro, e non solo quella di un ceto di professionisti o aspiranti tali, allora – forse – troverà la leva politica per arrestare la propria liquidazione. E risolvere il dilemma del topo nel formaggio: continuare a mangiare, anche quando non c’è più nulla, nemmeno le bucce, oppure rischiare, dichiarare la propria indipendenza ed essere cittadini?