di Salvatore Aprea –
La commentatrice Chrystia Freeland in un articolo sull’Herald Tribune si è domandata se il movimento “Occupy Wall Street” riuscirà a smantellare la “rivoluzione reaganiana”, improntata alla deregulation finanziaria, al libero mercato e allo stato “leggero”, che trent’anni fa ha cambiato il mondo. Quella rivoluzione ha avuto anche risvolti positivi, sostiene la Freeland, contribuendo al tracollo del modello sovietico, alla svolta capitalista in Cina, alla globalizzazione che secondo dati della Banca Mondiale avrebbe condotto fuori dalla povertà nel Terzo Mondo 500 milioni di persone. Ma ha anche prodotto una crescente diseguaglianza economica in Occidente, riassunta efficacemente nello slogan del movimento newyorkese “We are the 99 percent” – a significare che il 99 per cento della popolazione si è impoverito a beneficio del restante 1 per cento – e adottato lo scorso week-end nelle capitali di mezzo mondo.
Ora forse siamo alla vigilia di trasformazioni sociali e culturali profonde delle quali fatichiamo ancora a definirne i contorni. I fenomeni sociali ormai si propagano con rapidità e assistere alla riscoperta delle analisi marxiste in alcuni ambienti, talvolta impensabili, negli USA testimonia la metamorfosi che si sta diffondendo non solo al di qua, ma anche al di là dell’Atlantico e quanto stia cominciando a ribollire il pentolone americano.
A riscoprire l’autore del “Capitale” non sono soltanto i giovani che protestano contro le sopraffazioni dei banchieri da settimane. Il movimento nato a New York in questa riscoperta è arrivato solo secondo. Il recupero di Marx era già cominciato ai piani alti di quegli stessi grattacieli di Manhattan contro cui i manifestanti urlano i loro slogan. A riprova che lo scenario è tutt’altro che peregrino, Federico Rampini nel proprio Blog ha recentemente pubblicato un articolo, dal titolo emblematico “Se Marx conquista l’America…”, in cui descrive i cambiamenti in atto.
Se Marx conquista l’America…
Michael Cembalest, capo della strategia d’investimento per la JP Morgan Chase, in una lettera riservata ai clienti Vip della sua banca scrive che “i margini di profitto sono ai massimi storici da molti decenni e questo si spiega con la compressione dei salari”. Cembalest riecheggia ampiamente l’analisi di Marx sulle crisi di sovrapproduzione, provocate da un capitalismo che comprime il potere d’acquisto dei lavoratori. Sottolinea che a fronte dei profitti-record c’è “un livello salariale sceso ai minimi da 50 anni, sia se lo si misura in percentuale del fatturato delle imprese, sia in proporzione al Pil americano”. Tre suoi colleghi di Citigroup, altro colosso bancario di Wall Street, nei loro studi per i clienti descrivono gli Stati Uniti come una “plutonomia, dominata da una ristretta élite del denaro”. La rivista The New Republic parla di “bolscevismo alla Brooks Brothers”: è la riscoperta delle teorie classiche del padre del comunismo da parte di chi indossa le celebri camicie che sono uno status-symbol della élite di Manhattan. La rivista economico-finanziaria Bloomberg Businessweek intitola un reportage “Marx to Market, come la crisi ha reso le sue teorie rilevanti”. Cita un altro esperto di una grande banca, George Magnus della Ubs, secondo il quale l’attuale livello di disoccupazione può essere descritto come “l’esercito industriale di riserva” di Marx: un’arma in mano ai capitalisti per ricattare chi ha lavoro e comprimere i livelli retributivi. Il capitalismo – sostiene Bloomberg Businessweek – ha cercato di ovviare alla depressione dei consumi con la finanza creativa e cioè offrendo all’esercito dei nuovi poveri un credito a buon mercato: ma lo scoppio della bolla dei mutui subprime ha interrotto quell’illusione.
Il pensiero marxiano torna a fiorire nelle aule universitarie, e non solo nei corsi di scienze politiche e di storia che non lo avevano mai completamente dimenticato. Alla University of Santa Cruz, California, un circolo interdisciplinare di lettura e commento dei testi del grande Karl, di Friedrich Engels e di Antonio Gramsci si è formato attorno al Dipartimento di Scienze Ambientali, dove abitualmente si prediligono chimica e biologia. Aumentano gli abbonamenti a The Nation, l’unica rivista storica della sinistra americana che non ha mai ripudiato il marxismo; la sua direttrice Katrina Vanden Heuvel è un’opinionista corteggiata dai network televisivi Abc, Cnn, Msnbc, Pbs. (…) E’ un inizio di svolta rispetto agli ultimi trent’anni, segnati dall’egemonia culturale dell’ “edonismo reaganiano”? Questa è la nazione dove parlar male dei ricchi era diventato un tabù, perché il dogma dell’American Dream è che un giorno ricchi lo saremo tutti.(…) Perfino le chiese evangeliste si erano adeguate, scordandosi della parabola sul “ricco e la cruna dell’ago” avevano abbandonato il Vangelo di Matteo a favore di un culto della prosperità: successo e ricchezza come segni della predestinazione divina. Ora tutto ciò sembra invecchiato di colpo, di fronte all’efficacia dello slogan di “Occupy Wall Street”: “Siamo il 99%, riprendiamoci un’America che è stata sequestrata dall’1% dei plutocrati”. I manifestanti sono ancora un minoranza, ma dietro di loro c’è una realtà terribile. La recessione del 2007-2009 ha lasciato 25 milioni di americani senza lavoro e ha tagliato del 3,2% i redditi di chi ancora ha un posto. Dopo quella botta le cose non sono affatto migliorate, anzi: dal giugno 2009 al giugno 2011 il reddito della famiglia media è sceso ancora di più, meno 6,7%. Nel frattempo per i ricchi nulla è cambiato. E non importa se siano incompetenti: Léo Apotheker, il disastroso chief executive di Hewlett-Packard defenestrato dal consiglio d’amministrazione il mese scorso, è stato ringraziato con un “premio di licenziamento” di 13 milioni di dollari che si aggiungono a quello che lui aveva guadagnato di stipendio normale cioè 10 milioni in soli 11 mesi. Il suo collega chief executive di Amgen (biotecnologie) se n’è andato con 21 milioni di stipendio annuo dopo che il valore dell’azienda in Borsa era caduto del 7% e lui aveva licenziato 2.700 dipendenti.
Barack Obama ha colto il cambiamento di clima e da un paio di settimane il suo tono è un po’ più radicale. Ha proposto la tassa sui milionari, sfidando la destra a bocciargliela al Congresso. Ha espresso “comprensione” per il movimento “Occupy Wall Street”, noncurante del fatto che la polizia di New York ne abbia arrestato 700 aderenti per il blocco illegale del ponte di Brooklyn. Subito da destra è partita contro il presidente l’accusa di “fomentare l’odio di classe” (Rick Perry), di “incitare alla lotta di classe” (Mitt Romney). Sembrano riecheggiare Ronald Reagan (…). Ma il Verbo reaganiano ha perso credibilità, dopo trent’anni di regressione delle classi lavoratrici e del ceto medio. Sotto lo shock di questo declino della middle class, si comincia a riscoprire che gli anni d’oro dell’American Dream furono segnati proprio dalla lotta di classe: all’epoca dei presidenti democratici Woodrow Wilson e Franklin Roosevelt c’erano potenti forze socialiste nel paese; sotto John Kennedy e Lyndon Johnson la piena occupazione coincise con il massimo potere contrattuale dei sindacati. David Harvey, il 75enne storico e geografo che ha sempre insegnato Marx ai suoi studenti (prima a Oxford poi a Johns Hopkins) è convinto che la storia si ripete: come ai tempi della Grande Depressione, “in mano al capitalismo sregolato e alla destra, l’economia di mercato va verso l’autodistruzione”.
Deficit di democrazia
D’accordo, negli esempi di Rampini siamo ancora lontani da slogan marxisti come “Proletari di tutti i paesi, unitevi!” e francamente non credo proprio che gli “Indignados” d’oltre Oceano intendano resuscitare modelli politici ed economici d’altri tempi che non gli appartengono e che sono stati abbondantemente bocciati dalla Storia. Ma sembra che qualche idea – così come i loro “compagni di strada” europei – comincino ad averla chiara, a iniziare dal rifiuto verso la profonda debolezza del sistema politico e la sua subalternità ai potentati economici. Prima che economico, infatti, è evidente che il deficit dei paesi occidentali è di democrazia poiché le azioni delle lobbies economico-finanziarie, ossia di soggetti che nessuno ha mai eletto, hanno un peso incommensurabilmente maggiore rispetto a quello dei cittadini. Sicché interventi economici necessari quali ad esempio la tassazione delle rendite finanziarie, come suggerito da Stiglitz che certo non può definirsi un nostalgico marxista della prima ora, semplicemente non vengono presi in considerazione dai governi occidentali. Il sociologo e psicoanalista tedesco Erich Fromm scrisse in “Avere o essere?” nel 1976 ossia in tempi non sospetti, <<La democrazia può resistere alla minaccia autoritaria soltanto a patto che si trasformi da “democrazia di spettatori passivi”, in “democrazia di partecipanti attivi”, nella quale cioé i problemi della comunità siano familiari al singolo e per lui importanti quanto le sue faccende private>>. Né gli “Indignados” americani né quelli europei sono ancora in grado di proporre un programma politico, ma comunque testimoniano un forte desiderio di partecipazione: dopo anni di “ripiegamento” sul privato è un primo segnale importante.