Non è la sindrome di NIMBY il vero nemico
di Walter Ganapini –
Taranto, Casale Monferrato, Priolo, Marghera, Pieve Vergonte, Cogoleto, Manfredonia, Campania,Pioltello, Mantova, Crotone, La Spezia, Gela, Portovesme, Sarroch, Piombino, S.Giulia-Montecity-MI, Brescia, Falconara… e tanti altri luoghi d’Italia richiamano quanto il profitto abbia poco tenuto in conto salute di lavoratori/cittadini ed ambiente.
Fino al 9% delle morti per cancro è di origine occupazionale, spiega l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) che , per bocca del suo rappresentante presso la UE chiosa ’They should simply NOT happen’, aggiungendo ‘The effects of chemicals on human health : 1% well studied , 24% some data , 75% no data’, con buona pace degli interessi che hanno combattuto la Direttiva REACH dell’Unione Europea e dei loro ben pagati corifei , accademici e mediatici .
Consapevole di come la qualità ambientale di prodotti, processi produttivi e territori sia fattore competitivo cruciale nella sfida tra sistemi industriali avanzati sui mercati globali, anche nel pieno della crisi attuale, l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA)
afferma “Precaution and regulations for public health stimulate rather than frustrate innovation”, per rammentare agli industriali meno capaci e competitivi che ambiente e salute non sono un vincolo e un costo, ma una opportunità di sviluppo di qualità.
E poichè salute ed ambiente sono primariamente diritti fondamentali della persona, Istituzioni serie dovrebbero monitorarne il rispetto attraverso strutture normative e di controllo percepibili da persone/comunità come INDIPENDENTI /TRASPARENTI. È per questo che WHO e EEA si chiedono : «Conflicts of interest in scientific assessments should be disclosed : how many opinions given by well known scientists are really independent? Should scientists from industry be involved in regulatory committees? What about academicians supported by industry?».
Nell’Italia marginale in cui ci tocca di vivere ora, tutto ciò che ci avrebbe tenuto nei binari della modernità europea sopra accennata è stato malversato e raso al suolo, dai ‘Registri Tumori’ all’Agenzia Nazionale per l’Ambiente, dalle ARPA alle Università: penso abbiamo tutti negli occhi atti giudiziari in cui si vedono professori periti di Tribunali intascare tangenti in aree di servizio e dirigenti ARPA fungere da vettori di mazzette per assessori.
E contestualmente a tale “far strame”, fino al tentativo di “rinascita nucleare”, è ripreso il “gutta cavat lapidem” della sindrome NIMBY e dei ‘cittadini perennemente in preda a moti emotivi e viscerali contro tutto e contro tutti, attenti solo al proprio cortile’, mentre i costruttori di centrali nucleari e a carbone, di rigassificatori e TAV, di inceneritori e complanari palesemente ad altro non pensano che al bene comune, quando va bene sotto forma di sola esternalizzazione dei costi ambientali e sanitari.
Occorre allora rinfrescare la memoria collettiva, anche quella dei comunicatori facile preda sia degli imbonimenti di PR dei ‘vested interests’ che delle pressioni di editori tenuti al guinzaglio dagli stessi poteri in virtù delle forti ‘contribuzioni’ pubblicitarie erogate anche in presenza di bilanci disastrosi.
Nell’ambito dei progetti UE-EUREKA, nel 1990, a Bonn venne presentato il Rapporto “Origini e Sviluppi dei Conflitti Ambientali in Europa”, che portò alla ribalta per la prima volta come la sindrome NIMBY (“not in my backyard”) risultasse solo quinta in ordine di priorità decrescente tra le cause di scatenamento di conflitto ambientale, mentre la prima causa risultava essere la sindrome NIMTO (“not in my terms of office”, tipica attitudine di miopi amministratori non certo ‘problem solving oriented’, ma piuttosto generatori di scaricabarile tra istituzioni).
Il ‘focus’ era l’esigenza di rispetto dei ruoli, del fare o non fare il proprio mestiere, del non abdicare al ruolo di tutela e valorizzazione dell’interesse generale cui ogni ‘civil servant’ è chiamato.
Lo strumento decisivo per minimizzare strategicamente il rischio del verificarsi di fenomeni irreversibili di degrado dell’ambiente in cui viviamo e di aggressione alla salute delle popolazioni, in logica di sostenibilità intesa come solidarietà diacronica ed equità intra- ed inter-generazionale, è, nel comune sentire degli attori istituzionali, sociali ed economici più consapevoli, il ‘Principio di Precauzione’, introdotto nel 1984 nella legislazione tedesca a seguito dell’acidificazione di precipitazioni, e quindi suoli e corpi idrici della Foresta Nera , con danni gravi alla copertura boschiva .
Le vicende Amianto, PCB (policlorobifenili), CVM (cloruro di vinile monomero) sono solo alcuni esempi concreti del valore che , in virtù di tale Principio , avremmo dovuto attribuire ai primi segnali di allarme, obbligandoci ad assumere la nozione di rischio associata a quella di incertezza/ complessità come base della crisi di ogni lettura meccanicistica dei fenomeni solo orientata a considerare semplici e lineari i nessi causali governanti le complesse relazioni tra organismi umani, biologici e sociali .
Al riguardo, metteva in guardia Albert Schweitzer, che già negli anni ‘40 ammoniva: «..l’uomo ha perso la capacità di prevedere, di prevenire e certamente finirà col distruggere la Terra».
Torna conto, allora, rimembrare il Principio di Precauzione richiamandone i caratteri principali elaborati dall’EEA a partire dal recupero di informazioni mai diffuse, su Amianto e suo impatto su salute e ambiente, contenute in una relazione di Ms. Dean, ispettore industriale del servizio sanitario inglese, che, nel 1898, visitando una fabbrica dell’Asbestos Company, analizzò al microscopio le polveri minerali disperse in quell’ambiente riscontrandone, come prevedibili, effetti dannosi sulla salute.
L’Amianto divenne fuori legge in Inghilterra e in Europa cento anni dopo e, ancora oggi, nel Regno Unito muoiono 3.000 persone/anno per Amianto, mentre si stimano, in Europa e nei prossimi 35 anni, 400.000 morti per passate esposizioni allo stesso.
Nel suo Rapporto ‘Lezioni tardive da allarmi precoci’, l’Agenzia sintetizza le ultime lezioni da allarmi precoci, studiando i casi dei PCB, degli ormoni della crescita, dei CFC,delle radiazioni,dell’MTBE, degli antibiotici nella alimentazione animale, della mucca pazza (BSE), per ogni caso valutando quando venne dato il primo early warning (non necessariamente in letteratura scientifica), le azioni/ inazioni seguenti all’early warning stesso, costi e benefici delle azioni/inazioni e le raccomandazioni che si possono trarre da tali valutazioni.
Consapevole della priorità dell’interfaccia “ambiente/salute”, l’Agenzia evidenzia il rischio relativo a tre gruppi di sostanze:organismi geneticamente modificati (OGM), “chemicals” o “POP’s” (la “sporca dozzina” di composti organici il cui carattere non previsto è la persistenza) e i cosiddetti “disruptors” endocrini (tutto ciò che colpisce la dotazione biologica a partire dall’impatto di sostanze sintetiche sulle capacità riproduttive).
Per altri gruppi può rendersi necessario un monitoraggio a lungo termine, come per i CFC (clorofluorocarburi) , i PCB, le radiazioni, casi di early warnings nell’immediato sottovalutati, se non cancellati dagli stessi produttori delle sostanze diffondendo falsi assunti anche attraverso le etichette dei prodotti.
Altro luogo comune dimostratosi inconsistente è che i PCB potessero ritenersi totalmente confinati nei trasformatori, in cui fungono da dielettrico, o in prossimità degli impianti di produzione, quando oggi lo si trova ovunque, come accadde per il DDT, rinvenuto nel grasso delle urie e delle procellarie al Polo Nord, così distante dalle aree di produzione e consumo della molecola .
Fu quello il caso grazie al quale si compresero i meccanismi di accumulo biologico di inquinanti lungo le catene alimentari, normandone infine lo scarico/diluizione nell’ambiente.
Altro luogo comune sconfitto è che gli ormoni della crescita non potessero avere effetti al di fuori dei coltivi in cui venivano usati: già negli anni ‘70, dalla zona floricola fra Pistoia e Pescia nonché dal distretto delle colture protette di Vittoria, arrivavano segnalazioni di topi e altri animali di dimensioni inconsuete e alla fine riconducibili al contatto con quegli ormoni, così come di malattie degenerative dovute all’uso massiccio di presidi chimici e fitosanitari.
È nella responsabilità dei controllori ambientali e sanitari analizzare lo scenario peggiore (“worst case”), studiando il ciclo di vita del prodotto in esame e suo il destino finale, distinguendo rischio, incertezza, ignoranza, evitando luoghi comuni e il ricorso ad una unica fonte, mettendo intorno al tavolo multidisciplinare tutti gli esperti potenzialmente interessati, dai medici ai veterinari, dagli ingegneri ai chimici.
Ciò non significa non tenere conto degli specialismi, ma indurli a relazionarsi con ispettori industriali, lavoratori, medici di base, residenti relativamente alla loro percezione di un fenomeno, per evitare che solo molto tempo dopo venga accertato ed accettato come problema esistente, fino ad interessare il normatore.
Non si dimentichi il caso di John Dennis, un giornalista di New York, che documentò i primi effetti nocivi delle radiazioni X già qualche anno dopo la loro scoperta, nel 1895 (ancora oggi il Servizio Sanitario Inglese misura come eccedente di oltre il 25% l’uso che in medicina oggi si fa di radiazioni X).
Uno dei casi italiani forse più evidenti, prima del caso ILVA e dello studio ‘Sentieri’, fu quello della diffusione di sarcomi delle parti molli che Gloria Costani Rabitti, serio medico di base a Mantova, riscontrò nella popolazione soggetta alla ricaduta dei fumi di alcune fonti emissive (petrolchimico, impianto di incenerimento, ecc.).
Se si è corpo di regolazione e controllo occorre mantenere la distanza (terzietà come garanzia di trasparenza) dalle parti interessate.
Gli effetti del benzene sul sistema osseo (1897), gli effetti dell’amianto (1898), gli effetti negativi dei PCB sui lavoratori (negli anni ‘30), del CVM, sono stati ex-post riscontrati come noti all’industria interessata e, a volte, anche del normatore.
Onoro qui l’amica e maestra Laura Conti, massacrata per il suo impegno su Seveso, quando dovemmo rivolgerci a Barry Commoner, che altrettanto onoro, per sapere cosa fossero le diossine: la onoro rimembrando come solo in punto di morte, un quarto di secolo dopo Seveso, il capo delle ricerche di Hoffmann-La Roche abbia confessato, in un libro, che l’azienda conosceva perfettamente le diossine e il loro impatto devastante, tossicologico a breve e teratogeno a lungo termine, sulla salute e l’ambiente.
Se i costi associati all’azione precauzionale crescono ad un ritmo diverso e più alto dell’azione stessa e dei suoi effetti si dice superato il “precautionary principle” per adottare il “proportionality principle”, consapevoli che all’interfaccia tra scienza e politica si deve cambiare paradigma, da quello “fatti consistenti – valori deboli”, a quello “deboli fatti/deboli segnali scientifici – forti valori pubblici”.
Nell’ipotesi di non esclusione di impatti irreversibili bisogna operare prima di averne la prova, riducendo le aggressioni all’ambiente, promuovendo la eco-efficienza e dunque la produzione più pulita, incoraggiando la convergenza e la integrazione di tematismi ambientali nei principali “drivers” dello sviluppo (industria, agricoltura, energia, trasporti, turismo), come postulato già dal V° Programma di Azione “Verso la sostenibilità” dell’UE, associando alla tutela ambientale i temi della innovazione, della competitività, dell’occupazione, della tutela dell’ambiente e della salute.