Il racconto agghiacciante di Liliana Segre, dei suoi 13 anni, di ciò che i suoi occhi videro e di ciò che i suoi 13 anni vissero nel campo di concentramento di Birchenau, ad Auschwitz in cui fu internata. L’orrore e la disperata voglia di vivere senza più nessun familiare accanto, rasata e rapata, con il numero di matricola 75190 tatuato sul braccio sinistro. Per ricordare chi ha vissuto l’abisso a cui l’odio cieco e assoluto può condurre. Per ricordare chi non è più tornato. Per ricordare che ogni uomo può scegliere se lasciare spazio all’odio che distrugge ogni forma di vita o costruire un mondo in cui la vita fiorisce, anche dopo aver vissuto l’orrore. Ogni uomo in ogni tempo è chiamato e può scegliere.
“A 13 anni, con l’accusa di esser nata ebrea, sono entrata nel carcere femminile di Varese. Mi ricordo le impronte digitali, la fotografia, mi ricordo il corridoio, il corridoio buio, spinta da una secondina senza pietà che mi buttò dentro una cella… Carcere femminile.
Piangevo disperata. E piansi sempre, tutti i giorni, insieme alle altre donne arrestate come me sul confine, e poi piansi ancora tanto nel carcere di Como. E poi non piansi nel carcere di Milano, perché a Varese e a Como ero sola, nel carcere femminile, per la sola colpa di esser nata, a San Vittore ero prigioniera, per la sola colpa di esser nata, ma ero con il mio papà. Il carcere di San Vittore a Milano è costruito con una pianta, potremmo dire a stella: c’è un corpo centrale e dei bracci. Uno di questi era adibito agli Ebrei: famiglie intere. Non c’era la divisione tra i reparti maschili e femminili, come c’era e come c’è nelle carceri anche adesso. Famiglie ricostituite stavano nelle celle insieme, quando – dopo l’iter burocratico dell’ingresso – vidi mio padre e compresi che saremmo stati insieme nella cella provai una indescrivibile tranquillità.
Quanto sono stati importanti quei quaranta giorni, gli ultimi che passai con papà, come fu importante quella cella: fu una casetta, una casetta spoglia, terribile, ma l’ultimo rifugio insieme.
Era la deportazione annunciata. Si susseguivano notizie, perché già era partito un trasporto e si sapeva che ne sarebbe partito un altro. Dei trentacinquemila Ebrei residenti in Italia la maggior parte si era nascosta, molti erano fuggiti per tempo, ma ottomilaseicento furono i deportati, quindi quasi un quarto della popolazione ebraica di allora. Il carcere si riempiva: all’inizio eravamo circa duecento, col passare dei giorni i rastrellamenti portavano persone a ogni turno, era terribile incontrare un amico, trovare un parente: «Anche tu. Anche tu». Ognuno aveva la sua storia: «Sono stato arrestato lì». «Mi hanno portato via questo…».«Mia madre l’hanno portata via, io mi sono nascosto…».
Erano mille storie, piccole, grandi, di cui io, adesso, ogni volta che c’è la giornata della Shoah o qualche momento particolare, cerco di ricordare, perché il mondo possa sapere, perché quasi nessuno si può ricordare di quelle persone che sono sparite nella Shoah. Ricordo un nome, una storia, una persona: alta, bassa, bionda, bruna, ricordo la voce per ridarle voce, per ridarle un volto, per restituire un colore a quegli occhi, che nessuno ha mai più visto.
Ci incontravamo sempre alla stessa ora. C’era il permesso di sostare in una piccola sala di riunione, e allora partivano quei messaggi che ognuno credeva di sapere sulla deportazione annunciata, con la speranza che fosse solo una voce infondata, ma con la paura nel cuore che fosse il futuro di tutti noi: «Ma non è possibile che Mussolini lasci partire per l’estero dei cittadini italiani, non è possibile, ci manderanno a lavorare, ma sarà in Italia, non sarà all’estero»… Non fu così.
Ma la cosa che mi ricordo di più di San Vittore è un’altra: la Gestapo chiamava gli uomini per gli interrogatori, feroci: torturavano, davano botte, martoriavano. Restavo sola nella cella, aspettavo che tornasse mio padre. Non avevo una spalla su cui piangere, purtroppo non l’ho mai avuta. Restavo sola e non avevo un libro, non ero credente, avevo solo mura di disperazione: vi erano scritte indimenticabili, graffite, in cui c’erano addii, saluti, maledizioni, benedizioni, che io leggevo, per ore imprimevo nella mente quell’intonaco scrostato. Aspettavo un’ora, due ore, tre ore, poi il mio papà tornava, ci abbracciavamo, in silenzio, eravamo insieme, eravamo insieme, eravamo insieme.
Ho avuto da mio padre e a lui ho dato così tanto amore che mi è bastato per cercare la vita in ogni momento. Lui mi ha dato insegnamenti di vita e non di morte, insegnamenti di pace e non di vendetta. Papà mi ha lasciato un patrimonio di una tale importanza che non ho mai smarrito nel mio ricordo pur avendo perso, quando avevo solo 13 anni, lui come persona.
Restavo da sola, un’ora, due ore, tre ore, e diventavo vecchia. Quando lui tornava e ci abbracciavamo io non ero solo la sua bambina, ero sua sorella, ero sua madre.
Ho tre figli e mio figlio maggiore, che si chiama Alberto come si chiamava mio padre, oggi è più vecchio di quanto fosse papà allora: perché mio figlio oggi ha 49 anni, papà ne aveva 43. Mi succede qualche cosa di così particolare che è anche difficile da spiegare: c’è più che uno sdoppiamento nel mio ricordo, quando guardo mio figlio alto, quasi vecchio ormai, perché un uomo di 49 anni è un uomo maturo, assolutamente, con ben altri problemi di quelli che aveva l’altro Alberto, si sovrappongono in me i due uomini e provo una sensazione dolcissima nel ricordo perché è amore, è puro amore.
Nessuno fu risparmiato
Arrivò il momento della deportazione annunciata. Entrò un Tedesco nel raggio e lesse un elenco di più di 600 nomi fra cui i nostri. Ci dovevamo preparare a partire. Ci preparammo a partire. Nessuno fu risparmiato: non c’erano intrasportabili, non c’erano malati, non c’erano neonati al seno della propria madre, non c’erano donne incinte. Tutti, per la colpa di esser nati, dovevano partire. E così uscimmo: lunga fila di personaggi borghesi, messi in ordine per la partenza. Uscimmo dal carcere di San Vittore.
Ricordo sempre come si comportarono in modo splendido altri detenuti di un altro raggio, detenuti comuni, forse assassini, forse delinquenti comuni, forse ladri, forse rapinatori, forse truffatori. Furono straordinari, furono uomini, furono uomini che ebbero pietà di altri uomini che non avevano altra colpa che quella di esser nati. Quando attraversammo il raggio dove stavano questi detenuti affacciati alle loro celle – avevano forse l’ora d’aria a noi negata – questi uomini ci urlarono benedizioni, saluti, incoraggiamenti: «Che il Signore vi benedica». «Abbiate coraggio». C’era chi ci buttava una mela, chi un fazzoletto, un paio di guanti, una sciarpa, una cosa qualunque… Loro ebbero pietà. Non voltarono la faccia dall’altra parte. Furono gli ultimi uomini noi incontrammo.
Ce ne volle poi, un anno e mezzo, per incontrare altri uomini: fu un viatico eccezionale. All’uscita da San Vittore, fummo spinti a calci e pugni e bastonate sui camion, portati alla stazione Centrale. A un incrocio, io, che ero stretta a mio padre, in fondo al camion dove il telone si apriva, vidi la mia casa di un tempo, pensai mai più, mai più, mai più, mai più, mai più, pensai di colpo che la tappezzeria era gialla, pensai a com’era fatta una certa stanza, pensai che c’era un corridoio… Mai più, mai più, mai più.
Arrivammo alla Stazione Centrale e lì… dai sotterranei partimmo: non si partiva certo dai binari, per non mostrare quella vergogna agli altri passeggeri, si partiva dal ventre nero della grande stazione di Milano che è ancora oggi un punto di raccolta di quelli arrivati all’ultima spiaggia: tossici, alcolizzati, senza fissa dimora… Là era preparato non il treno, ma un vagone… Ma noi allora non l’avevamo capito, me lo raccontò molti anni dopo Liliana Picciotto Fargion, la storica che ha scritto il libro della memoria. Non c’era il treno completo, c’erano due vagoni, ma noi in quel buio, i fari, il terrore del momento, l’incredulità di quello che ci stava succedendo, i cani che abbaiavano, le bastonate, i fischi, non capivamo che i vagoni erano due per volta, man mano che il vagone era riempito di umanità dolente, veniva sprangato e portato con un elevatore – che ancora esiste – al binario di partenza, e in fondo agganciato.
Dentro un vagone piombato
Come ci si pone con l’altro, che sia uno sconosciuto, che sia tuo padre, che sia tuo marito, che sia tua sorella, che sia tuo figlio, dentro un vagone piombato? Come ci si guarda intorno, cosa si dice, cosa si fa, come si piange, come si urla, come si sta zitti. Che modo c’è? Perché per ogni cosa c’è un modo, ma non c’è un modo per essere dentro a un vagone piombato con un po’ di paglia per terra, un secchio per gli escrementi, subito pieno… Come ci si pone, come ci si guarda?
Poi il treno si muove. E cominciano le ruote ad andare. E ogni rumore di queste ruote ti porta lontano dalla tua casa, dai tuoi odori, dai tuoi sapori, dai tuoi affetti… io lo racconto, come sono capace, perché non ho certo la vena poetica di Primo Levi, di Hetty Hillesum… anche loro, in realtà, non sono riusciti a rendere cos’è questo viaggio verso il nulla, questo viaggio verso ignota destinazione. E i ferrovieri che guidavano questi treni non si chiedevano – o se lo chiedevano – come mai i vagoni tornavano indietro vuoti… C’erano i capistazione, c’erano quelli ai passaggi a livello, c’erano quelli che avevano le case che davano sulla ferrovia, e vedevano passare in tutta Europa questi treni. Perché sono stati deportati sei milioni di uomini, donne, bambini, bambine? Non una volta tanto un viaggetto, no! Era un via vai continuo…
Mi ricordo le tre fasi: la prima del pianto, che apparteneva a tutti, grandi, piccoli, uomini, anche giovanotti forzuti, tutti piangevano. Quando poi il treno passò il confine e ai ferrovieri italiani subentrarono quelli Austriaci e poi Tedeschi, e si vide il treno andare verso nord, allora veramente i pianti arrivarono… Da nessuna parte, perché nessuno ci ascoltava. Nessuno ci diede un bicchiere d’acqua alle stazioni. Quelle fotografie di repertorio in cui si vedono visi dolenti che si affacciano a grate di finestrini dei carri bestiame… ci rappresentano, fanno sì che non si possa più girare la faccia dall’altra parte: eravamo come i vitelli che vanno a morire. Chi si interessava di noi? Dopo se ne è parlato, quando già erano morti i vitelli… Dopo s’è tanto parlato di Shoah, ma al momento nessuno diede un bicchiere d’acqua.
Alla prima fase del pianto subentrò una seconda fase rarefatta, kafkiana, importante: gli uomini religiosi, i pii, più fortunati, si riunivano nel centro del vagone e, dondolandosi, salmodiavano, lodando Dio anche in quel momento. Pregavano anche per noi, che non sapevamo pregare. Il vagone era buio, la gente appoggiata alle pareti del vagone e quegli uomini, al centro, si dondolavano pregando, con lo scialle di preghiera: era una visione straordinaria.
La terza fase fu quella del silenzio: quando si è già detto tutto, quando non c’è più niente da dire, ma è il momento di massima comunicazione con l’altro. Non è solitudine quando si è con l’altro a cui vuoi bene e non dici una parola. Io e il mio papà non avevamo più niente da dire, in realtà avevamo parlato sempre pochissimo io e lui, perché non avevamo bisogno di tante parole. Ma il momento massimo è il momento di comunione, così profondo, così silenzioso.
Allora l’ho capito: quando la vita è piena di rumore, di auricolari, di musica che sovrasta gli altri suoni, persino quelli delle casse al supermercato, non è mai un momento importante della nostra esistenza. Un momento importante della vita è sempre di silenzio assoluto, quando la coscienza e il cuore e la mente hanno la loro massima espressione.
Auschwitz: stazione di non ritorno
Fu un momento essenziale. La maggior parte di noi era condannata a morte all’arrivo. E a quel silenzio che io ho in così grande onore e che ricordo, importante dopo così tanti anni, all’arrivo subentrò il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, che aprirono i vagoni e ci buttarono, dinanzi agli occhi assuefatti al buio, la visione dell’inferno preparato a tavolino per noi da altri uomini. Era Auschwitz: era la stazione di non ritorno, binari morti, treni fine corsa, treni che ogni giorno sfornavano migliaia di persone che arrivavano da tutta l’Europa. C’erano persino vagoni fermi pronti per essere agganciati al treno successivo che così tornava indietro vuoto e un altro veniva vuotato. Fummo tirati giù da quel treno, gambe anchilosate, occhi che facevano fatica a capire non solo quello che ci stava intorno, ma anche a sopportare la luce di quel mattino grigiastro. 6 Febbraio 1944.
Una spianata, uomini vestiti a righe, prigionieri con la testa rapata erano sferzati dai diavoli SS coi loro cani, per fare in fretta in fretta in fretta in fretta a radunare noi, sbalorditi, incretiniti dal viaggio, ubriachi.
Radunarono le nostre valigie, divisero gli uomini dalle donne. Non sapevo che non avrei mai più rivisto il mio papà e continuo a sperare che anche lui non lo sapesse. Fummo divisi. Mio padre mi aveva raccomandato di stare vicino alla signora Morais: l’avevamo conosciuta a San Vittore ed è una di quelle persone a cui rendo la voce, ogni tanto, ricordandola, una dolce signora, mamma di due ragazzini più o meno della mia età. Mio padre, abituato a farmi da papà e da mamma, aveva visto a San Vittore che questa signora era dolce, graziosa, materna, e mi aveva detto: «Se là dove arriveremo, divideranno ancora gli uomini dalle donne, tu stai vicino alla signora Morais» e si era raccomandato anche a lei che lo aveva assicurato, rispondendogli: «Certo che mi occuperò anche della sua bambina… Ma perché adesso dobbiamo pensare che saremo divisi?».
Su quella spianata, avvenne la prima selezione. I nostri assassini avevano in mano la Transportlist e sapevano già quanti uomini e quante donne, quel giorno, sarebbero entrati vivi come forza lavoro. Erano due ufficiali e un medico, che seppi in seguito essere quel famoso Mengel di cui si parlò tanto… Ci tenevano calmi, con occhi gelidi e con labbra atteggiate al sorriso, dicevano: «Calmi, Calmi, tutti calmi, adesso vi registriamo e poi stasera le famiglie saranno di nuovo unite».
Noi volevamo credere a quelle parole e stavamo calmi. E loro scelsero così, con un gesto della testa: tu qui tu là. Trentuno donne, tutte del mio trasporto, tra le più giovani, e una sessantina di uomini. Fui spinta in quella fila, tribunale di vita e di morte senza saperlo. Non mi chiesero nulla. Avevo13 anni, ma ne dimostravo di più: ero alta, sciupatissima dal viaggio e fui mandata a sinistra. La signora Morais, coi suoi due ragazzi, fu mandata a destra. Quando vidi che mi separavano da lei avrei voluto essere accanto a quella donna, ma certo non potevo chiedere: «Mi scusi tanto, io vorrei andare da un’altra parte». Rimasi impietrita, silenziosa, spaurita. La signora Morais fu mandata direttamente al gas e la sera stessa era sicuramente già cenere.
Io, con altre trenta ragazze, fui mandata, non si sa perché, a piedi al campo femminile di Birchenau, ad Auschwitz. Era una città: era una città del dolore, una città di 60.000 donne che entravano e uscivano tra quelle che andavano a morte e le nuove arrivate. Trentuno ragazze, italiane – non conoscevo nessuna di loro e solo la lingua ci univa in quel momento – entrai con loro e vidi quella serie infinita di baracche, la neve grigia, in fondo una ciminiera che sputava fuoco, intorno il triplo filo spinato elettrificato… E poi le sentinelle, e donne, donne scheletrite, testa rasata, vestite a righe, picchiate, in ginocchio, portavano pesi… «Ma dove siamo entrate?». Era una scena apocalittica. Noi, scese due ore prima da quel treno, ci guardavamo intorno, ma nessuno più ci avrebbe sussurrato: «Tesoro. Amore». «Ma dove siamo arrivate?». «Che cos’è questo posto incredibile?». «Siamo vittime di un incubo, di un’allucinazione… Non può essere che esista un posto di questo genere…».
Sì, esisteva, era stato costruito. Dov’erano i muratori, dov’erano i falegnami, dov’erano gli elettricisti, dov’erano gli industriali che avevano fornito i materiali?. Erano stati realizzati questi campi già da tempo, molto ben organizzati, molto ben preparati per far soffrire e morire: quello era il fine.
75190 di Auschwitz
Entrammo nella prima baracca, dove ci fu tolto tutto! Fummo spogliate, nude. Come si può sentire una donna, improvvisamente nuda, dinanzi a soldati che passano, guardano sghignazzano con l’estremo disprezzo della razza padrona.
Uomini armati, vestiti di tutto punto e quelle ragazze nude che cercavano inutilmente di coprirsi con pudore: era quella la maggiore persecuzione. E poi sempre davanti ai soldati venimmo rapate a zero, ci vennero rasati il pube e le ascelle, e poi, con estremo sfregio e spregio, ci fu tatuato il numero sul braccio sinistro.
Lo porto con grande onore il mio numero, il 75190 di Auschwitz. In questo i nazisti sono riusciti perfettamente. Chi è tornato per raccontare, è rimasto essenzialmente il numero di Auschwitz. Volevano sostituire con un numero l’identità di milioni di uomini e donne e una volta morti, non sarebbero state più persone, ma numeri: il niente a raccontare di loro. E chi è tornato è rimasto essenzialmente quel numero. Io lo ripeto sempre ai miei figli: sulla mia tomba, se sarò una delle poche persone della mia famiglia ad avere una tomba, voglio che ci sia scritto prima di tutto il mio numero. Con una piccola operazione di chirurgia plastica potrei toglierlo, in qualunque momento. Ma credo che quel numero sia un monumento alla vergogna di chi l’ha impresso sulla pelle, e credo che sia anche un motivo di onore per chi, avendo perso tutto nella Shoah, non ha perso la sua mente, non ha perso la sua anima, non ha perso la memoria di quella serie interminabile di numeri.
In quel momento ero una disgraziata ragazzina di 13 anni a cui veniva portato via tutto, anche una fotografia, un libro, un fazzoletto, le restava il suo povero corpo, rasato, rapato, e col numero tatuato sul braccio sinistro. Venimmo rivestite di stracci, venimmo rivestite a righe, un fazzoletto sulla testa rapata. Cominciava la nostra vita di prigioniere e schiave.
Le altre, quelle che erano a Birchenau già da un po’, ci spiegarono dove eravamo arrivate. Non volevamo credere alle loro parole. Pensavamo di essere arrivate in un manicomio e che quelle ragazze che ci spiegavano torture, esperimenti, forni crematori, camere a gas, fili elettrici, fili spinati con l’elettricità… Non volevamo credere. Noi le guardavamo pensando di essere arrivate in un manicomio. Ma sarebbe stato troppo facile liquidare prigionieri e carnefici come pazzi. Nessuno era pazzo, né gli uni né gli altri.
Cominciò questa vita di prigioniera e schiava. Mi ricordo come piangevamo tutte nei primi giorni, ma scegliemmo la vita. Scegliemmo la vita immediatamente, scegliemmo la vita, volevamo vivere, capimmo che dovevamo mettere al bando nostalgie e ricordi, capimmo che, se volevamo vivere, dovevamo non ricordare, perché il presente, in quel momento, era assolutamente tragico e dolcissimo il passato per ognuna di noi, e non avremmo potuto sopportare quel presente ricordando il passato. Se volevamo scegliere la vita dovevamo proibirci ogni ricordo del passato, dovevamo mettere tutto il nostro impegno e le nostre forze per sopportare quella realtà in quel luogo dove eravamo arrivate per la sola colpa di esser nate.
Cominciò una teoria di giorni tutti uguali. Io fui molto fortunata, perché fui scelta quasi subito per diventare operaia nella fabbrica di munizioni Union. È una fabbrica che in tempo di pace costruiva macchine utensili, in tempo di guerra lavorava per la guerra: realizzavamo bossoli per le mitragliatrici.
Avevo scelto di essere una stella
Mi ricordo che imparai a diventare una prigioniera trasparente. Quando ho letto Sopravvivere di Bettelheim – pubblicazione che mi ha dato molta sofferenza e che ho in gran parte contestato – ho capito che, meccanicamente, avevo scelto un mia modalità per sopravvivere: io avevo scelto di non essere lì. Avevo scelto, quasi in modo automatico, bestiale, irrazionale, infantile – in fondo ero ancora una bambina – e nello stesso tempo in modo maturo, vecchio, ottuagenario – in fondo ormai tale ero diventata – avevo scelto di non essere lì, perché era la realtà intorno a me che era inaccettabile. Avendo scelto la vita – ho sempre scelto la vita e anche adesso che sono vecchia scelgo la vita – non potevo accettare la morte intorno a me e quindi avevo scelto di non vedere. Avevo scelto di essere una stellina.
È diventato un leitmotiv nella mia famiglia, al punto che anche i miei nipoti, quando erano piccoli, spesso mi regalavano il disegno di una stella. Avevo scelto di essere una stellina che vedevo nelle notti chiare. Pensavo: «Io vivrò finché quella stellina brillerà e quella stellina brillerà finché io sarò viva». Era un modo appunto assurdo e infantile… E il mio corpo, invece, pretendeva attenzione. Il mio corpo diventò uno scheletro, perché la fame si faceva sentire, terribile, perché era inverno e avevo freddo, avevo le piaghe ai piedi, avevo dolori ovunque quando venivo bastonata.
Io non volevo essere lì, non guardavo, non volevo guardare le compagne in punizione… Ero vigliacca. Nel mio modo di sopravvivere, nella mia ricerca di sopravvivere ero estremamente vigliacca. Non mi voltavo a vedere le compagne in punizione, non mi voltavo a vedere i mucchi di corpi nudi scheletriti pronti per essere bruciati.
Io non mi voltavo. Io non guardavo. Io non volevo vedere il crematorio, sia che ci fosse la fiamma sia che ci fosse il fumo. Io non volevo sentire l’odore dolciastro della carne bruciata. Io non volevo vedere la cenere sopra la neve. Io non volevo essere lì. Volevo essere quella di prima, che correva in un prato, che faceva il bagno al mare e che veniva chiamata Tesoro, Amore… Non volevo essere lì, ma c’ero purtroppo, e prendevo le botte, e non avevo da mangiare, prendevo gli insulti e sentivo freddo, avevo intorno a me quel paesaggio allucinante che era il campo di Birchenau ad Auschwitz.
Avevamo una fame terribile
Avevo intorno a me le mie compagne, erano il mio specchio: il loro volto senza espressione, i loro occhi come dei gusci vuoti erano lo specchio che non avevamo… Imparammo a non piangere più. Imparammo a non raccontare più: «La mia casa era così, la mia mamma era così, mia sorella era così» perché anche l’altra aveva lo stesso dolore, anche l’altra aveva la stessa fame…
Fratellanza, amicizia, solidarietà… muoiono di morte violenta anche loro in quei contesti. Non avevo una spalla su cui piangere e non sono stata una spalla su cui piangere. Quelli che sono stati spalle su cui piangere sono diventati santi. Sono santi. Noi eravamo povere ragazze che parlavano solo di cibo. Il mangiare era diventato una fissazione: oggi non si può capire, oggi è difficile, quasi impossibile raccontare la fame alle nuove generazioni abituate ad aprire il frigorifero e a scegliere, abituate a buttare nella spazzatura alimenti scaduti perché non piaciuti abbastanza.
Noi avremmo mangiato qualunque cosa. E parlavamo solo di cibo. E inventavamo ricette succulente, e immaginavamo torte megagalattiche poste nel centro del piazzale dove c’erano invece le forche. Avevamo una fame terribile e diventavamo scheletro giorno dopo giorno.
All’alba venivamo svegliate da una bastonata, non avevamo orologio, non avevamo radio, non sapevamo mai che giorno fosse, che ora fosse. Venivamo inquadrate all’appello e poi portate al lavoro. Uscivamo dal campo e incontravamo sulla strada per Auschwitz, per andare in fabbrica, quasi tutti i giorni, ragazzi della Hitlerjugend: nostri coetanei, pasciuti che stavano a casa propria. Ci vedevano passare e, non contenti di essere carnefici e figli di carnefici, ci sputavano addosso e ci dicevano parolacce che avrei capito solo in seguito e che mi sarebbero sembrate assurde e ingiuste. Li odiavo allora, con tutte le mie forze, ed è stato liberatorio per me, nella mia età matura, diventata la donna di pace che sono, rielaborare quei ricordi, e avere pena di quegli adolescenti di allora e dei Naziskin di oggi.
Proseguivamo la strada, arrivavamo in fabbrica, lavoravamo tutto il giorno. Non c’erano sindacati e gli industriali tedeschi erano ben contenti di avere manodopera schiava in grande quantità, subito sostituita dopo la morte. Lavoravamo tutto il giorno, a sera tornavamo al campo. Eravamo fortunati: è stata una delle ragioni per cui io sono sopravvissuta quella di aver lavorato al chiuso, le mie compagne, infatti, che lavoravano all’aperto in quei climi e senza mangiare non resistevano a lungo.
Jeanine, francese, andata al gas
In quell’anno che trascorsi ad Auschwitz, Birchenau, tre volte passai la selezione. Non era quella della stazione. Era la selezione annunciata, quando c’erano troppi nel campo e bisognava mandare a morte quelle che non ce la facevano più a lavorare.
E io mi ricordo: nude, in fila indiana, nel locale delle docce, dovevamo passare da un’uscita obbligata dove un piccolo tribunale di tre assassini decideva con un sì o con un no se potevamo ancora lavorare. Come ci si presenta davanti a questo tribunale di vita e di morte quando si è nudi e inermi? Io sceglievo l’indifferenza, sceglievo di non essere lì. Il cuore mi batteva come un pazzo dentro il mio petto scarno e macilento, arrivavo davanti a quei tre, criminali. Mi guardavano davanti, dietro, in bocca, i denti (se c’erano ancora) e poi con un gesto mi lasciavano andare.
Mi ricordo la prima volta che passai la selezione. Il medico, sempre quello, mi fermò e mi mise un dito sulla pancia lì dove ho la cicatrice dell’appendicite per cui avevo subito un’operazione due anni prima. Il terrore, il panico: «È il momento, ecco, adesso perché ho una cicatrice mi manda a morte».
No… lui tutto soddisfatto, prima mi chiese di dove fossi e quando risposi tutta terrorizzata: «Italienerin» mi disse: «Che cane di chirurgo italiano» – e mi indicava ai suoi compari – «Un cane. Una ragazza così giovane! Le ha lasciato una brutta ferita che si porterà per tutta la vita, invece io lascio un striscia sottilissima, così quando una donna diventa adulta, anche se è nuda non si vede alcuna cicatrice».
E poi fece quel gesto, con cui indicava che avevo passato la selezione. Ero viva, ero viva, ero viva, ero viva, e non mi importava del luogo dove mi trovavo, della mia solitudine, della mia condizione psicofisica, ero viva, ero felice, per quella volta ero felice, ero viva, ero viva, ero felice, non mi voltavo, ero vigliacca… Non mi sono voltata – lo racconto sempre, non posso fare a meno di raccontarlo – quando fermarono dietro di me Jeanine, giovane francese che lavorava con me in fabbrica, non mi sono voltata. La macchina in quei giorni le aveva tranciato due falangi. Lei era nuda. Con uno straccio aveva cercato di coprire quella mano. Gli assassini l’hanno vista. Ovviamente. E io ero appena passata e godevo di questa felicità infinita di essere viva…
Sentii che fermavano Jeanine e che la scrivania, prigioniera anche lei, era obbligata a prendere il numero, io non mi voltai, non fui come i detenuti di San Vittore. Non le gridai: «Coraggio. Ti voglio bene». Qualche cosa, una parola qualunque! Lavoravo con lei da mesi alla macchina e non sopportai altri distacchi. Io non mi voltai, io volevo vivere. Descrivo Jeanine, perché devo espiare, nel presente, una reazione così vigliacca e spaventosa che nessuno conoscerebbe se io non la raccontassi. Jeanine è andata al gas per la colpa di essere nata, e solo io sono testimone di me stessa e dell’abisso a cui ero arrivata. Jeanine, per un attimo le rendo la vita, raccontando di lei alle intelligenze e ai cuori di chi legge: Jeanine, francese, ventidue, ventitré anni, bionda, due centimetri di ricciolini che erano ricresciuti, occhi celesti, voce dolce, andata al gas, in quella mattina, ad Auschwitz, colpevole di essere nata. Io non mi sono voltata. Io ero viva.”
Tratto da Memoranda. Strumenti per la giornata della memoria, a cura di D. Novara, edizioni La meridiana, Molfetta, 2003