Festival della Soft Economy (2 luglio-4 luglio) e Seminario Estivo Symbola 2013 (Treia, 5 e 6 luglio)
A Treia, piccolo gioiello dell’Italia borghigiana dove ogni anno la Fondazione Symbola si ritrova per un ciclo di seminari sulla soft economy, anche quest’anno si giocherà la sfida del bracciale, metafora della sfida che ci impone la crisi. Quest’anno l’evento avrà una struttura più ambiziosa, non un semplice seminario ma una riflessione itinerante nel cuore delle Marche “civiche” da Camerino a Montecosaro a Macerata concludendosi a Treia.
Nel tentativo di articolare una visione complessiva dell’Italia “che potrebbe essere” mettendo a fuoco le 5 metamorfosi che attraversano il paese. La prima riguarda il rapporto, per me necessario ma ancora poco esplorato, tra green economy e green society ovvero del come evitare che la sussunzione economica del limite ambientale diventi l’ennesima bolla di un turbocapitalismo finanziario dal respiro corto. Green economy è visione che va situata nello spazio locale. Il che significa guardare alla metamorfosi del capitalismo di territorio e alle nuove forme del lavoro nella città terziaria, a come quest’ultima può diventare smart city non solo con l’innovazione dall’alto dei grandi capitalisti delle reti digitali ma attraverso politiche di sostenibilità che coinvolgano l’intelligenza diffusa del lavoro della conoscenza metropolitano.
Al fondo un grande dilemma, ovvero se la società terziaria, nel contado come nella metropoli, sia in grado di tradurre l’enorme accumulo di general intellect scientifico in maggiore sostenibilità. Perché ciò avvenga dobbiamo renderci conto che, come già lo era per il capitalismo molecolare dei distretti, green economy è in primo luogo un rapporto sociale. Qualcosa che per affermarsi ha bisogno di una green society e di una green politics.
Un percorso di innovazione radicale da incorporarsi in un disegno di società inclusiva, che presuppone investimenti collettivi e un nuovo equilibrio tra politica, economia e società. Non certo l’austerity. Ciò dovrebbe interessare anche un ambientalismo politico che in Italia non è mai riuscito a giocare un ruolo paragonabile all’ecologismo francese o tedesco perché privo di una visione della crisi come momento attraverso cui il capitalismo incorpora l’ambiente come nuovo motore di sviluppo.
Seconda metamorfosi, il made in italy che dovrà farsi rimade in Italy per inaugurare una quarta stagione dopo quelle della bottega, del capannone e dei distretti in cui per le filiere produttive si dovrà aprire una stagione in cui il territorio sia fonte di valore nella sua dimensione di bene comune da rigenerare. Non più solo deposito di saperi, tradizioni, risorse da prelevare dentro un modello di crescita puramente quantitativa fondata sul consumo di territorio e sul dumping sociale. Qualcosa che pone il problema del carattere sociale e cooperativo dell’attività di investimento nell’economia della conoscenza. Dove per ricostruire le basi del valore la manifattura ha bisogno di impollinare la cultura della fabbrica con saperi scientifici e sociali di cui sono portatori creativi, professionisti, giovani “indigeni digitali”. I quali, a loro volta, se vogliono tradurre gli investimenti formativi in redditi e lavori corrispondenti non possono continuare a coltivare l’utopia di un capitalismo virtuale e deindustrializzato.
La strada per fare questo, terza metamorfosi, non può che essere lo sviluppo di un’industria culturale sottratta però alle retoriche passatiste del “bel paese” come giacimento di beni storico-artistici, ma giocando questo patrimonio nella produzione di contenuti culturali contemporanei (cinema, videogame, format, televisivi, editoria multimediale, ecc.), dove invece l’Italia oggi è paese secondario e colonizzato. Tutto ciò richiede un diverso posizionamento nella divisione internazionale del lavoro: sennò Roma continuerà ad essere sorpassata da Berlino come metropoli della cultura.
Processi che precipitano, quarta metamorfosi, in una nuova geografia del made in Italy in cui i confini delle tradizionali specializzazioni in parte sfumano, in parte si allargano a comprendere la centralità del rapporto e delle reti che devono connettere città terziaria e contado produttivo. Un tassello di questa nuova geografia sarà l’Expo 2015, nella misura in cui un evento per definizione metropolitano e cosmopolita dovrà diventare anche un grande momento di ragionamento e rappresentazione del nuovo made in Italy in trasformazione nelle piattaforme territoriali.
Infine la quinta metamorfosi riguarda la grande questione di come la microfisica dei poteri territoriali e della società di mezzo si rapporti in modo nuovo alla verticalità della politica e delle istituzioni sovranazionali e come la politica a sua volta riesca ad accompagnare le quattro metamorfosi ora elencate, ad esempio partendo dalla parola d’ordine cara ad Ermete Realacci sull’Italia “che deve fare l’Italia”. Sono necessarie parole chiare su quali politiche pubbliche siano adatte a governare il cambiamento e soprattutto su quali siano gli spazi di compatibilità di queste politiche con l’architettura dell’Euro e della Banca centrale europea (Bce). Prima che gli automatismi della crisi riducano definitivamente gli spazi di manovra. Quelle di Treia saranno sicuramente utili giornate di riflessione.
Mi rimane solo un dubbio. È vero che l’Italia deve fare l’Italia. Ma nei nuovi assetti che la crisi globale sta partorendo basterà questo per rimanere un grande paese non solo nelle statistiche dell’export ma anche nei livelli di vita e nella capacità di assicurare diritti, democrazia delle chances di futuro e welfare? Il dibattito è aperto.
Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore 23 giugno 2013