di Christian Iaione
Non basta parlare di “città intelligenti” se non sono pensate per i milioni di “cittadini intelligenti” che hanno già iniziato a collaborare per il bene comune. Come in tutte le rivoluzioni, il cambiamento è partito dal basso e rischia di trovare le istituzioni impreparate. La fiducia diventa un bene che solo un’autorità pubblica terza è in grado di produrre
I cittadini hanno già avviato un cambiamento dal basso delle città
Si parla sempre più frequentemente di città intelligenti o smart cities. Nella maggior parte dei casi si immaginano città tecnologicamente avanzate che funzionano meglio grazie alle innovazioni della telematica. Ma l’obiettivo ultimo dovrebbe essere quello di mettere a punto tecnologie, strumenti e politiche pubbliche idonee a trasformare le città in “smart communities”, all’interno delle quali le amministrazioni perseguono i propri scopi anche grazie a “cittadini 2.0” che fungono da nodi di una rete per la cura degli interessi della collettività.
Finora il tema dell’open data, dell’open government e dell’e-government, in particolare se declinato a livello locale, è stato affrontato soprattutto nella prospettiva di ampliare le possibilità di partecipazione dei cittadini alle decisioni di un soggetto, quello pubblico, che a valle di un dialogo tra livello politico e livello amministrativo rimane il depositario ultimo della interpretazione di ciò che è interesse generale, della definizione delle modalità per perseguirlo e soprattutto delle attuazione concreta di queste decisioni.
Oltre a investire sulla maturazione delle nuove tecnologie nell’ambito della tipologia tradizionale di amministrazione appena descritta, si deve tentare di tracciare le linee di sviluppo ed approntare gli strumenti tecnici idonei a fondare un nuovo paradigma di amministrazione locale. Un paradigma all’interno del quale i cittadini non si limitino a partecipare alle decisioni che implicano la soluzione di problemi della collettività ma, per quanto possibile, contribuiscano direttamente alla soluzione dei medesimi con proprie azioni, propri stili di vita, proprie risorse. Per questa via si ridurrebbe la necessità di organizzare una risposta pubblica e un apparato pubblico in tutte quelle istanze in cui esiste una necessità di dimensione collettiva da risolvere.
Dalla smart city alla smart community
Esemplificazioni di questo cambio di paradigma sono gli innumerevoli casi in cui i cittadini, attraverso una cooperazione orizzontale, molto meglio se supervisionata e governata da un regista pubblico, diventano in grado di offrire soluzioni innovative, sempre più spesso facenti leva sulle potenzialità delle nuove tecnologie e dei nuovi media, alle necessità di approvvigionamento energetico attraverso la produzione diffusa di energia, di mobilità personale attraverso la condivisione di mezzi di trasporto individuali o collettivi, di assistenza personale sanitaria, sociale e persino finanziaria attraverso il mutuo soccorso e la reciprocità, di spazi di vita e lavorativi mediante forme di gestione condivisa della proprietà privata e pubblica.
La rivoluzione collaborativa
Si passa così dall’e-government al we-government, dalla città aperta e tecnologicamente attrezzata alla wiki-città, in cui una comunità coesa e collaborativa condivide con le istituzioni il peso non solo delle scelte, ma anche delle azioni necessarie per curare l’interesse generale. Questo modello di governo della città basato sulla governance policentrica, sulla produzione diffusa di energia, sulla fornitura orizzontale di servizi e, in definitiva, sul consumo collaborativo richiede un ruolo di regia molto importante da parte dei poteri pubblici che devono aggiornare i propri modelli di azione e apprestare gli strumenti tecnici necessari per favorire questo processo di rinnovamento della società e dell’economia. E’ stata chiamata “collaborative revolution”.
La fiducia come bene pubblico
Ed ogni rivoluzione comporta la necessità di pensare e ripensare nuove strutture sociali e nuovi strumenti tecnici di governo della collettività che assecondino il cambiamento che ogni rivoluzione reca con sé. A nuovi paradigmi corrispondono nuove esigenze di azione collettiva. In questo caso diventa missione prioritaria per le istituzioni pubbliche produrre un bene comune che è la fiducia. Perché la collaborazione vive e sopravvive sulla fiducia che tutti i soggetti della relazione siano affidabili e sulla minimizzazione del rischio di imbattersi in interlocutori animati da scopi diversi dalla buona riuscita della collaborazione stessa. La reputazione (e non più la capacità economica) dei soggetti che entrano nella rete collaborativa diviene l’unità di misura in grado di esprimere il successo di una persona o di un’impresa, oltre che un possibile mezzo di scambio sostitutivo della moneta. Ma la reputazione deve essere controllata, verificata, validata. La fiducia diventa così una missione e un bene che solo un’autorità pubblica terza, imparziale, ma soprattutto autorevole può essere in grado di produrre.
Tratto da “Labsus“