Sempre più vuote, sempre più disaffezione
di Luigi Della Luna Maggio –
Le campagne elettorali, sebbene rappresentino un momento centrale nella vita democratica di un Paese, rischiano, paradossalmente, di aumentare la disaffezione dei cittadini dalle istituzioni e, più in generale, dalla politica. Il paradosso consisterebbe nel fatto che, nonostante esse rappresentino uno tra i luoghi deputati alla competizione politica che si interroga sulle varie proposte messe in campo, scandite secondo i tempi della comunicazione, la campagna elettorale spesso si arricchisce di promesse che difficilmente potranno essere mantenute.
Così, da luogo di confronto (e scontro) politico, le campagne elettorali rischiano, insomma, di trasformarsi quasi esclusivamente in un grande evento nel quale conta più l’ “effetto” piuttosto che il “contenuto” della proposta. Animati esclusivamente dalla logica del consenso, i candidati cercano, prima di tutto, di operare attraverso mosse e azioni che sul piano della comunicazione sappiano dare un primo risultato efficace: arrivare alla pancia degli elettori ben prima che alla loro testa.
In questa sede, non s’intende ragionare sulle varie proposte politiche finora in campo. Piuttosto, l’intenzione è quella di soffermarsi a ragionare sul paradosso di cui sopra, e cioè sul (possibile) rischio intrinseco delle campagne elettorali. Esse, infatti, rischiano di sovraccaricarsi di una domanda di partecipazione politica e di aspettative che le istituzioni (e, di conseguenza, gli eletti) , per ragioni economiche o di bilancio, non potranno mantenere. Ciò non potrà che alimentare quella sfiducia che i cittadini (gli elettori) nutrono nei confronti delle istituzioni, dal momento che queste ultime non riusciranno a soddisfare in larghissima parte la domanda politica raccolta durante la fase di campagne elettorale. Si rischia, quindi, di creare un vero e proprio “vuoto” tra le aspettative, alimentate dalle promesse, e la realtà politica che, invece, richiede atteggiamenti responsabili.
Le conseguenze che possono maturare nei tempi successivi alle campagne elettorali (ovvero, quando la realtà si infrange sulle vuote promesse) possono essere diverse e di varia natura.
Prima di tutto, si registra un problema in termini di democrazia e più precisamente di qualità dei processi democratici. Che alla democrazia non si guardi solo attraverso strumenti quantitativi lo dimostra il fatto che oggi, nelle più antiche democrazie occidentali, è in crisi il modello di democrazia cui i partiti tradizionali hanno contribuito a realizzare e consolidare sin dal secondo dopoguerra. Causa ed effetto della crisi dei regimi democratici contemporanei, i partiti tradizionali soffrono una struttura ancora piramidale, gerarchica che con difficoltà riesce a raccogliere le istanze politiche provenienti dal basso. Ragionare in termini di qualità della democrazia vuol dire, prima di tutto, valutare la capacità delle istituzioni democratiche di incidere effettivamente in termini di eguaglianza e di libertà. E’ indubbio che quando le promesse elettorali rimangono tali, e cioè non vengono trasformate in atti politici concreti, ne soffre l’intera struttura democratica poiché le istituzioni non riusciranno a soddisfare le aspettative dei cittadini. Ciò alimenterà un sentimento di sfiducia e di disaffezione dalla politica. Come ha rilevato Salvati in un articolo del 2006 apparso su “Il Mulino”, è opportuno riferirsi alla democrazia in termini di “intensità”, vale a dire quanto le istituzioni riescono ad incidere effettivamente sulle prospettive dei cittadini e sul loro benessere.
Allo stesso tempo, va considerato un altro effetto dell’uso delle promesse (vuote) in campagna elettorale. Sempre più spesso, gli eletti giustificano l’incapacità di creare un reale cambiamento (che loro stessi avevano promesso) delle istituzioni che governano accusando le amministrazioni precedenti di aver lasciato in eredità un ingente debito pubblico. A prescindere dal fatto che ciò sia vero oppure no, è evidente che una simile pratica, a cui ricorrono sempre più spesso soprattutto gli amministratori locali, indebolisce il rapporto tra cittadini e istituzioni. L’impegno degli amministratori dovrebbe cominciare ben prima dall’assunzione della carica pubblica, ovvero quando rivestono ancora i panni del candidato che si confronta sulle varie proposte, mantenendo un atteggiamento responsabile, tenendo conto delle reali condizioni (patrimoniali e finanziarie) dell’istituzione che si candida a governare e dei vincoli di bilancio. Ciò non significa rinunciare ad un progetto di cambiamento; piuttosto, significa evitare di proporre false promesse che rischiano solo di compromettere ulteriormente la fiducia con i cittadini.
Ad ogni modo, la questione è molto più complessa e non può ridursi a poche settimane di campagna elettorale. A mio parere, il senso vuoto delle promesse elettorali affonda le radici nell’ incapacità di formulare un piano di idee chiare ed un progetto serio e di lungo periodo per il nostro Paese. Il vero problema, infatti, è che i partiti e i candidati (chi più o chi meno) non ha bene in mente quali sono i veri problemi del Paese. Ci sono idee (poche, a dire il vero) interessanti ma che fanno fatica a rappresentare un piano organico di riforme di cui il Paese ha urgentemente bisogno. E ciò, probabilmente, per evitare che alcuni equilibri tra economia e politica, purtroppo consolidatisi nel tempo, possano venire meno. Trattasi, però, di equilibri ormai arrugginiti, che hanno portato il debito pubblico ad un livello non accettabile per i parametri imposti dal Trattato di Maastricht e che ci mettono in competizione (una cattiva competizione, direi) con altri paesi, quali ad esempio la Germania; di equilibri che hanno imposto un prezzo altissimo in termini di concorrenza per quei nuovi imprenditori che hanno voglia di misurarsi sul mercato; di equilibri che hanno visto crescere l’interesse privato a discapito di quello pubblico; di equilibri, infine, che hanno consentito una presenza sempre più massiccia degli affari economici nei partiti. Il risultato di tutto questo è drammaticamente semplice: un paese nel quale chi ha il dovere di programmare il futuro attraverso l’azione politica non riesce ad offrire una prospettiva di cambiamento reale, un’inversione di rotta dopo tanti anni di gestione privata della cosa pubblica.