Intervista a Roberto Morassut
Non è facile oggi parlare di cittadinanza, di politica e della nostra capitale: la città di Roma. Roberto Morassut, deputato del Partito Democratico ed ex Assessore all’Urbanistica della giunta Veltroni, accetta la sfida di mettere sul tavolo le problematiche che rendono difficile e quasi impossibile creare un rapporto di fiducia – sul piano reale – tra la politica e la cittadinanza.
Lo abbiamo incontrato in occasione dell’uscita suo ultimo libro Roma Capitale 2.0. La nuova questione romana. Un riformismo civico per la capitale, edito da Imprimatur editore, per fare il punto su tre questioni: merito e società; l’identità di Roma e le possibili prospettive anche europee per uscire da una crisi di senso e di valori.
Merito e società
Emma Tagliacollo: Nel tuo ultimo libro si parla di rinuncia alla politica e scrivi «la rinuncia alla politica – che è anche la rinuncia alla verità – è la prima causa delle difficoltà attuali».
All’interno della tua analisi mi pare che si voglia sottolineare lo scollamento tra la preparazione necessaria in ogni campo della nostra esistenza e il raggiungimento degli obiettivi.
Vorrei sapere, a tuo avviso, dove sta il merito? Come possiamo parlare di merito non solo all’interno delle istituzioni ma anche nella vita di tutti i giorni?
Roberto Morassut: Rispondo a questa tua prima domanda cercando di delimitare il campo delle argomentazioni.
L’orizzonte nazionale nel quale si è mossa la politica e la società nel Novecento è definitivamente tramontato. Con esso sono tramontate tutte quelle forme di organizzazione della politica e degli interessi che si sono plasmate sulla dimensione nazionale. A cominciare dai partiti. Le forme di partecipazione sono cambiate. E sono diventate più aperte ma anche più rapide e semplici. E per certi versi più superficiali. Tuttavia gli Stati nazionali esistono e in Europa contano ancora molto, nonostante l’utilità della loro esistenza ai fini di un civile progresso si sia notevolmente ridotta. Ecco. Direi che in questo sta la ragione essenziale di un decadimento della politica contemporanea. A livello di Stato nazionale, si assiste a un calo di credibilità della classe politica che appare inutile o superflua rispetto alle domande reali e agli strumenti disponibili per dare risposte efficaci. In conseguenza la selezione della classe politica si è indirizzata verso forme sempre più molecolari e prive di guida collettiva come quella rappresentata un tempo dai partiti. Queste forme molecolari si esplicano o attraverso pratiche clientelari che alimentano la illegalità o attraverso il ruolo crescente delle lobby che invadono il campo della politica senza più mediazioni o, ancora, attraverso la forza delle caste economiche, familistiche o di ambiente tipiche della tradizione della borghesia italiana.
Tutto questo porta a selezionare una classe dirigente spesso non adeguata e in molti casi esposta sul piano morale.
È l’effetto – forse inevitabile – di una fase di transizione al termine della quale bisogna cercare di puntare alla ricostruzione di forze politiche che abbiano pienamente assimilato la dimensione europea e una nuova visione dei processi mondiali che ormai condizionano la vita di tutti i giorni. Il che sarà possibile solo rafforzando le istituzioni europee e puntando ad una più stretta integrazione verso gli Stati Uniti d’Europa. Sembrano discorsi utopistici ma sono convinto che nel giro di poco tempo questi problemi diventeranno talmente urgenti da non poter essere lasciati irrisolti, pena il decadimento di civiltà dell’Europa intera con gravi conseguenze per il mondo intero.
Il Partito Democratico in Italia ha anche questa funzione e si deve lavorare molto per far avanzare nuove leve preparate e sperimentate. Per tenere alta l’asticella della moralità della classe politica. Per combattere il nepotismo. Tutte cose nocive per una nuova politica e anche negative per l’economia. Infatti non ci dobbiamo mai dimenticare che uno dei più gravi motivi di ritardo dell’Italia rispetto a certi standard europei – dico io, il nostro vero spread – deriva dal costo elevatissimo sul debito pubblico e sull’economia della corruzione e dell’evasione fiscale che sono alimentati anche dall’azione diffusa di una classe politica che si tiene in piedi con forme e sistemi illegali in molte parti di Italia.
Va da se che questo discorso deve estendersi all’intera società civile, al mondo del lavoro e delle professioni e all’economia. Far emergere il merito, l’eccellenza, le capacità, il talento è il nostro più grande problema ma se c’è una classe politica che agisce per costruzione di schiere di clientes e di fedeli questo non accadrà mai. Perciò ci vuole una rivoluzione politica che vada oltre la rottamazione e metta in discussione capisaldi del sistema che riflettono – in fondo – equilibri economico- sociali. Si perché la valorizzazione del merito e del talento non avviene per virtù dello spirito santo. Ma sottraendo spazio e potere alle lobby economiche castali che oggi pensano di tenere in mano il Paese e di poter dominare la politica resa fragile dalla disgregazione dei partiti.
Queste considerazioni valgono anche per Roma che è una grande Capitale internazionale e che vive le contraddizioni di questa fase.
Nel libro ho affrontato questi aspetti.
Roma e la sua identità
ET: In quale modo Roma può essere “riconosciuta” come capitale della nostra nazione? A tuo avviso è una questione di identità e di inclusione di tutte le diverse forze e sinergie presenti in questo vasto territorio?
Quali sono a tuo avviso le linee guida o un possibile programma per fare sì che la questione romana diventi una questione italiana?
RM: La questione romana data 1870. Il Papa rifiuta di riconoscere lo Stato Italiano. L’Italia, appena nata, ha bisogno di Roma come capitale per non restare uno stato monco – visto il peso simbolico mondiale di Roma – ma non ama quella città clericale e arretrata. Questa distanza tra Roma e lo Stato nazionale, tra gli italiani e i romani si è sempre riproposta in forme e con profili diversi lungo la storia italiana e non si è mai risolta. Oggi, in conseguenza della globalizzazione e della crescente integrazione europea, la questione romana ha assunto un profilo internazionale che si aggiunge al tema “nazionale” mai risolto. Il libro affronta questo punto in un capitolo specifico.
Roma deve affrontare con decisione la dimensione metropolitana e mondiale che ormai la investe. Governare la globalizzazione che attualmente tende a produrre più problemi rispetto alle opportunità che comporta. Come direbbe Baumann, anche a Roma abbiamo fino ad ora conosciuto meglio la “globalizzazione negativa”. E forse questo problema non è solo romano ma mondiale.
Il tema è la internazionalizzazione di Roma. L’urgenza di aprire il territorio romano ad un mercato mondiale – economico e finanziario – e superare il provincialismo della stretta cerchia di attori privati ma anche pubblici che per Roma ormai rappresenta un peso. Che delimita le possibilità di crescita e blocca i nostri talenti, frustrando le aspettative di tanti giovani o costringendoli – chi può- ad emigrare. Quindi occorre una politica che porti investitori e punti con forza sulla creazione di grandi infrastrutture del sapere. Penso in particolare ai Campus universitari pubblici che a Roma possono avere margini di crescita grandissimi. Occorre poi una politica di uso e valorizzazione del patrimonio pubblico – enorme a Roma – che consenta in parte di sanare i debiti dell’amministrazione e in parte di essere utilizzato per aumentare l’offerta dei servizi attraverso politiche di sussidiarietà che valorizzino le energie associative, cooperativistiche e di autonomia sociale che sono numerose ma senza base materiale. È quello che io definisco nel libro un “riformismo civico”. Il Partito democratico in questo dovrebbe avere un grosso ruolo di elaborazione e di proposta. Ritengo che non lo eserciti abbastanza o forse per nulla. E poi occorre un vero nuovo sistema di governance territoriale. Su questo sono drastico. La Città Metropolitana nata da poco sulle ceneri della Provincia è una soluzione nata morta. Nata dopo venti anni di inutili dibattiti. Occorre trasformare Roma in una Regione autonoma nell’ambito di una più vasta operazione di ridisegno e riduzione del numero delle Regioni. Cosa su cui ho presentato anche una proposta di legge. Sul territorio della Capitale deve agire una sola istituzione “locale” che accorci le distanze e semplifichi i passaggi in modo generale. Una istituzione che legiferi e amministri. Oggi ne abbiamo ben quattro: Comune, Municipi, Città Metropolitana e Regione. È uno schema antistorico per una grande metropoli. Che serve solo a produrre posti per la classe politica. Qui ci vuole il coraggio di fare una vera rivoluzione. In questo modo forse si può anche sperare che i romani si sentano più orgogliosi di se stessi e che gli italiani rispettino di più una Capitale più efficiente. Il problema alla fine sta tutto quì. Se la Capitale ha la dignità e la autorevolezza di una grande metropoli, allora gli italiani ne saranno orgogliosi. Altrimenti no. E restiamo al 1870……
Prospettive
ET: Vorrei chiederti di immaginare una prospettiva per uscire dalla crisi sociale e di senso che stiamo vivendo. Puoi fare una riflessione sia a livello locale (di Roma), sia nazionale e sia nei confronti dell’Europa, con cui necessariamente ci confrontiamo?
RM: È una domanda con uno spettro talmente ampio….. Non so come rispondere onestamente…. Posso solo dire che viviamo un tempo nel quale gli ingredienti per una “crisi di civiltà” ci sono tutti. Guerre – ormai ai confini dell’Europa -, integralismi religiosi, ritorno dei populismi, crisi della democrazia, pandemie, incertezza sul futuro…. Quando Oswald Spengler scrisse “Il tramonto dell’Occidente” eravamo in un momento per certi aspetti simile. Ciclicamente l’Occidente esaurisce le sue energie ed in genere nuove energie giungono a rigenerarlo dall’Oriente o dal Sud del mondo. Pensiamo alla crisi di civiltà del mondo classico tra il III ed il V secolo da cui nacque la civiltà cristiana o ai fecondi scambi con il lontano oriente dopo l’Anno Mille che dettero nuova spinta all’Europa per aprirsi e dare spazio all’Umanesimo e al Rinascimento. Siamo in un epoca in cui l’Europa è chiamata ad aprirsi al mondo che cambia e i vari Stati che la compongono a guardare oltre i limiti dei propri confini. Il processo di costruzione europea – sul piano economico e delle relazioni internazionali – è ad un passaggio cruciale. E l’Italia può giocare un ruolo per una Europa che finalmente intraprenda la strada della crescita e di una attiva ed efficace politica di pace. Questo è il punto più importante per la politica contemporanea. Per questa generazione e forse anche per quella successiva.