di Lapo Berti –
Ragionando in fretta sull’orlo del baratro. Finché siamo in tempo. Perché un’immane “questione sociale”, frutto di un capitalismo senza freni, sta minacciando la coesione della società e la qualità della vita di tutti noi. Perché senza una mobilitazione di tutti noi nessuna soluzione è possibile “… siccome sembra che nessun altro abbia una strategia convincente per rimediare alle ingiustizie del capitalismo moderno, l’iniziativa resta ancora nelle mani di coloro che hanno la storia più pulita da raccontare e la prescrizione più furiosa da offrire” (Judt 2011, p. 141)
C’è una nuova questione sociale?
Nella prima metà dell’Ottocento, quando gli effetti sociali della prima ondata d’industrializzazione cominciarono a palesarsi in maniera incontrovertibile, si pose quella che allora fu chiamata la “questione sociale”.
La questione sociale nasceva da uno scandalo, dalla percezione che c’era qualcosa di fondamentalmente sbagliato e, quindi, moralmente inaccettabile in un ordine sociale che, nel momento in cui si era scoperto e realizzato il modo di produrre ricchezza su di una scala mai vista, produceva miseria e sofferenza per un numero crescente di persone. Le città si riempivano di folle d’individui che non erano niente e non possedevano niente da scambiare se non la forza delle loro braccia: artigiani caduti in disgrazia, fittavoli ridotti alla fame, lavoratori dipendenti appartenenti a corporazioni. Individui senza un futuro, costretti a vivere alla giornata, in condizioni di semi-schiavitù: in breve, salariati.
Sullo sfondo di questo scandalo, c’era il timore che le classes dangereuses, le classi pericolose create dal nuovo ordine industriale, sfuggissero al controllo delle istituzioni e si abbandonassero a reazioni violente nei confronti del sistema che condannava i loro membri alla miseria. In ballo c’era, come sempre c’è, quando si parla di questione sociale, il tema cruciale della coesione, di quell’insieme oscuro, ma necessario, di fattori economici, politici e sociali che consente di tenere insieme gli individui di una determinata società e tenere a distanza la prospettiva, sempre incombente, del bellum omnium contra omnes.
La scoperta che esisteva una questione sociale che era intollerabile non solo perché metteva a rischio la coesione sociale, ma anche perché confliggeva con l’idea stessa di società che le ideologie dominanti tentavano di affermare, prima fra tutte quella del liberalismo, dette origine a una serie di interventi che hanno disegnato il panorama sociale in cui ancora viviamo. Le “classi pericolose” sono diventate il fulcro della democrazia e, soprattutto, il fulcro del sistema economico fondato sui consumi di massa. Le classi pericolose oggi riempiono i supermercati e fanno vacanze low cost in tutti i luoghi del pianeta. Lo stato sociale, che è la più grande conquista di civiltà dell’ultimo secolo e mezzo, è il frutto delle lotte e della pressione esercitata dalle classi pericolose ed è, nel contempo, il compromesso che per decenni ha garantito un equilibrio fra l’espansione del sistema capitalistico e la coesione sociale. I salariati sono diventati lavoratori e poi, soprattutto, consumatori. Hanno ottenuto il riconoscimento del loro diritto a forme di assicurazione, assistenza e previdenza universali. Questo è il lascito della prima “questione sociale”.
La nuova questione sociale
Oggi, nuove forme di vulnerabilità di massa, di precarietà tornano ad affacciarsi sullo scenario sociale. Come quelle antiche, sono il portato di trasformazioni profonde del sistema economico capitalistico, ma hanno tratti diversi, anche se non meno devastanti. Ancora una volta, il fulcro intorno a cui ruota la creazione di condizioni di disagio, di sofferenza, di miseria è il rapporto con il lavoro, con un lavoro che non c’è e crea disoccupazione o, se c’è, è precario, incerto, provvisorio. Condizioni d’instabilità che acquistano un’inedita coloritura per il fatto che si sviluppano a fianco di consistenti e solide aree di protezione e di stabilità. La precarietà economica si coniuga con l’instabilità sociale, mettendo in questione la coesione della società.
Se c’è una cosa che dice, quasi grida, la crisi radicale della politica italiana e di partiti diventati comitati di affari, questa è l’incapacità di cogliere e rappresentare i sintomi e le domande di una nuova questione sociale che qualsiasi occhio non offuscato dall’attaccamento al potere è in grado di vedere con tutta nitidezza. Stupiscono i tentativi patetici dei partiti di esorcizzare l’ingombrante presenza di problemi come la dilatazione estrema delle disuguaglianze, il consolidamento della disoccupazione di quote elevate della popolazione in età lavorativa come dato permanente, la crescente esclusione dei giovani dal mondo del lavoro, la progressiva erosione della sicurezza sociale. La nuova questione sociale è sotto gli occhi di tutti, masse crescenti di cittadini ne avvertono il morso sulla propria pelle, ma i partiti neppure la scorgono. Settorializzano i problemi, banalizzano le grida di allarme. Non si rendono conto che gli eventi e le politiche dell’ultimo trentennio hanno sottoposto la coesione sociale a una tensione che si sta facendo insopportabile e chiede, esige, il passaggio di una metamorfosi di sistema.
La nuova questione sociale ha i connotati della disoccupazione di massa, nasce dalla precarizzazione delle condizioni di lavoro e dall’inadeguatezza dei sistemi classici di protezione a coprire queste situazioni. E’ plasticamente rappresentata dalla moltiplicazione degli individui condannati a una condizione di precarietà lavorativa, dalla drastica riduzione dello spazio dei diritti inalienabili. Due milioni e mezzo di disoccupati (2.506.000, dati ISTAT marzo 2012), pari a un tasso percentuale del 9,8%, con la disoccupazione giovanile (15-24enni) al 35,9%; più di 2.200.000 giovani fra i 15 e i 29 anni, che non lavorano, non studiano e non seguono corsi di formazione (dati Bankitalia 2010); circa quattro milioni di lavoratori precari, per l’esattezza 3.941.400 (dati CGIA di Mestre, 2011); un numero imprecisato di finte partite IVA, ma si parla di circa 400.000 posizioni. Una somma approssimativa ci restituisce il panorama devastato di circa 9 milioni di persone, per lo più nelle fasce d’età inferiori, che vivono una situazione di disagio rispetto prospettive d’inserimento nel mercato del lavoro che non ci sono affatto o promettono solo redditi di sussistenza. Nove milioni di persone, quello che dovrebbe essere il nerbo del sistema produttivo del paese, condannate all’esclusione, all’inaridimento delle loro capacità professionali, alla sterilizzazione della loro forza innovativa, allo svuotamento del futuro e, quindi, della possibilità di progettare, che è l’unico modo di affrontare positivamente la realtà. Come fanno tutti coloro che hanno responsabilità politiche in questo paese a non vedere una “questione sociale” di queste dimensioni? Come si fa a non vedere o anche solo a rinviare l’urgenza di affrontare il problema che ne sta alla base e che ci dice di una società che sta perdendo la capacità di avere e di dare un futuro?
Cambiare è possibile: per un capitalismo sostenibile
“La questione sociale è un’aporia fondamentale sulla quale la società sperimenta l’enigma della sua coesione e tenta di scongiurare il rischio della sua rottura. E’ una sfida che interroga, mette in discussione la capacità di una società… di esistere come un insieme legato da relazioni d’interdipendenza… La questione sociale si pone esplicitamente ai margini della vita sociale, ma mette in discussione l’insieme della società” (Castel 1995). Quando si pone una “questione sociale” è l’intero sistema della convivenza che viene messo in discussione. Ne viene messo in discussione il modo di produzione dominante, su cui poggia la riproduzione materiale della società. Ne vengono messe in discussione le istituzioni che regolano lo svolgimento della vita individuale e collettiva.
Occorre, dunque, un grande sforzo collettivo, volto a ripensare e ricreare un ordine sociale che consenta a tutti di perseguire il proprio progetto di vita, per una vita di qualità. Al di fuori dell’utopia, non vi sono molte strade percorribili, se non quelle che portano a realizzare cambiamenti incrementali, anche rilevanti, del mondo in cui viviamo, per un capitalismo sostenibile. So che a molti lettori questo sembrerà un ossimoro. So che, al fondo di molte critiche, spesso giuste o comunque giustificate, al modello di economia e di società imposto dalle forze del capitalismo, c’è la convinzione che “il capitalismo lo si abbatte, non lo si riforma”. Ma so anche che la carica utopica di cui si nutre questa convinzione ha generato in passato due soli esiti: l’inconcludenza parolaia e l’immobilismo di fatto, quando non il sostegno inconsapevole alla conservazione, o la scelta di metodi violenti per imporre un cambiamento che, da sola, la società non è mai stata in grado, o non ha voluto, esprimere e realizzare compiutamente. Ne ho ricavato la convinzione che è socialmente più sano ed economicamente più produttivo pensare ai cambiamenti che è possibile avviare qui e oggi, semplicemente perché rientrano nella sfera di possibilità delle persone che li concepiscono e li condividono. Bisogna uscire dalla prospettiva, tipica del pensiero politico-sociale della prima modernità, figlio della visione escatologica propria del cristianesimo, secondo l’azione politica deve essere orientata alla realizzazione del “paradiso in terra”. Non abbiamo un compito da svolgere, un fine da raggiungere. Dobbiamo solo tentare qui e ora di realizzare le condizioni che rendano possibile una vita di qualità. E’ l’unica chance che abbiamo di creare queste condizioni è di condividere il percorso che conduce a realizzarle con il maggior numero di persone.
Per essere sostenibile, un sistema capitalistico deve rispettare ovvero essere vincolato al rispetto di una serie di condizioni.
Deve, in primo luogo, impegnarsi a realizzare un utilizzo non predatorio delle risorse, sia fisiche che umane. Non è un impegno facile da far rispettare, perché da sempre esiste un impulso umano, che il capitalismo ha esaltato, ad appropriarsi del maggior numero di risorse possibili per soddisfare i propri bisogni e i propri desideri, senza tener conto dell’impatto che ciò ha sull’ambiente fisico e su quello sociale. E’ un’ottica predatoria, egoistica, consegnata al breve periodo e miope rispetto agli effetti futuri, che non sa tener conto dei diritti di tutti, compresi quelli che ancora non ci sono, ma è parte insopprimibile, ancorché controllabile, della nostra costituzione antropologica. Occorre, dunque, circondare il lavoro e le risorse fisiche di tutele che impegnino l’intera collettività.
In secondo luogo, occorre circondarlo di un’infrastruttura istituzionale che impedisca un’accumulazione eccessiva di potere economico in mani private e che, comunque, impedisca al potere economico di condizionare, sotto qualsiasi forma e attraverso qualsiasi mezzo, il potere legislativo e quello giudiziario. In altre parole, il potere economico privato va costituzionalizzato, per sottoporlo a limiti e assicurarne la separazione rispetto agli altri poteri. L’inevitabile corollario è un drastico abbattimento della disuguaglianza economica, premessa necessaria di un nuovo welfare.
In terzo luogo, ed è forse la cosa più difficile, occorre fare in modo che il capitalismo dei flussi che percorrono il globo s’incroci con il capitalismo a base territoriale. In altre parole, bisogna provare ad addomesticare la globalizzazione. Bisogna costringere il capitalismo globalizzato a venire a patto con le esigenze dei territori.
Tutto ciò implica un rinnovato ruolo dello stato come promotore di un nuovo patto sociale che risolva la questione sociale che oggi abbiamo di fronte. E qui c’imbattiamo in un’ulteriore difficoltà che si tratta di superare. La questione sociale che abbiamo di fronte è certamente il prodotto di dinamiche capitalistiche non controllate, ma se questo controllo non c’è stato o è stato inadeguato la responsabilità è anche di un sistema della rappresentanza democratica che da tempo ha cessato di funzionare nell’interesse dei cittadini e si è allontanato dalla loro volontà e dalle loro aspettative. Ma la prospettiva di un capitalismo sostenibile può essere perseguita credibilmente solo sulla base di un sistema della rappresentanza e del governo della cosa pubblica che renda efficace la partecipazione di tutti e, soprattutto, renda possibile il controllo di ciò che viene fatto in nome di un, abusato, bene comune.