Democrazia: ultima chiamata
Perché il salvataggio delle banche è stato anteposto o, addirittura, contrapposto al salvataggio delle persone? C’è una sola risposta possibile: perché è prevalsa la legge del più forte. Una domanda semplice, forse banale, e una una risposta altrettanto semplice, che ai più appariranno ovvie. Ma che ovvie non sono.
Si poteva pensare che due secoli abbondanti di costituzionalismo e di espansione democratica avessero definitivamente espunto dal nostro orizzonte sociale l’esercizio senza limiti del potere, secondo la legge elementare del più forte. Sembrava che il potere assoluto e l’esercizio arbitrario della forza fossero stati definitivamente sottratti al sovrano assoluto e consegnati nelle mani del popolo, reso finalmente sovrano, che lo avrebbe esercitato nel rispetto della libertà di tutti. Si poteva supporre che nessun altro potere avesse diritto di cittadinanza all’interno del contesto democratico. La sopraffazione era bandita dalla sfera delle relazioni sociali. La democrazia rappresentativa doveva garantire che il popolo potesse eleggere i propri rappresentanti che avrebbero esercitato il potere di decidere per tutti nell’esclusivo interesse dei cittadini e secondo la volontà democraticamente espressa. L’unico potere che potesse essere legittimamente esercitato era, dunque, quello conferito dalla delega del popolo.
Non è così e, forse, non lo è mai stato. Il sogno della democrazia si è da tempo trasformato in un sonno tormentato da incubi. E i bruschi risvegli, che sempre più spesso ci toccano, ci disvelano un mondo in cui di democratico in senso proprio non c’è praticamente nulla, specialmente se guardiamo alla sostanza del processo democratico, che dovrebbe investire il modo in cui vengono prese le decisioni che coinvolgono le condizioni e l’interesse di tutti e che, quindi, dovrebbero quanto meno rispettare la volontà della maggioranza. Vediamo invece all’opera gruppi ristretti di persone, spesso in connessione fra di loro, che prendono decisioni la cui rilevanza è decisiva per il destino di tutti e lo fanno al di fuori di qualsiasi circuito democratico, senza essere sottoposti al alcuna verifica democratica, né prima né dopo. I processi decisionali che contano sono spesso occulti e tali restano anche dopo che le decisioni sono state assunte. In breve, si è formata un’oligarchia, formata dai vertici del potere economico-finanziario, politico, amministrativo, cui si rivolgono, in una logica di scambio politico, i gruppi di interessi dotati di sufficiente potere. A livello globale poi, ed è questa forse la cosa più inquietante, si sta formando, nelle più totale mancanza di trasparenza, un’élite del potere, un’oligarchia delle oligarchie, composta di esponenti della finanza, dell’industria, della politica e, forse, anche della comunicazione e delle religioni.
Questa evoluzione, che investe, seppur in forme diverse, tutti i paesi formalmente democratici, è giunta oggi a un punto di rottura. Viviamo in regimi formalmente democratici, in cui sono giuridicamente garantiti i diritti che fanno parte del patrimonio democratico e in cui si continuano a celebrare i riti caratteristici della democrazia: il voto per eleggere i rappresentanti al parlamento e, a seconda dei casi il capo del governo e il presidente della repubblica; le consultazioni referendarie; i congressi dei partiti; le manifestazioni di piazza. In tutto ciò, non vi è alcun esercizio concreto del potere democratico né vi è la formazione di una volontà collettiva che indichi un programma di governo. Vi è solo la possibilità di aderire alle opzioni elaborate all’interno delle oligarchie, schierandosi a favore di poteri e di soluzioni di cui spesso non si conosce nulla. È appena il caso di sottolineare che questo è il contesto in cui fiorisce la corruzione quale necessario corredo e fondamentale strumento di scambi occulti fatti sulla pelle e con i soldi dei cittadini.
Il potere economico
Tutto ciò è particolarmente vero e pertinente per quando riguarda l’ambito dell’economia e, soprattutto, della finanza. Frastornati dalla propaganda che elogia i mercati quali garanti della trasparenza e della libera scelta di produttori e consumatori, affascinati dai risultati delle imprese globali, abbiamo lasciato che nell’economia si formassero aggregazioni di potere inaudite, con una potenza economica e finanziaria che supera di gran lunga la forza della maggior parte degli stati nel mondo. Il problema del gigantismo industriale, di istituzioni bancarie e finanziarie gigantesche, è parte del capitalismo maturo e lo conosciamo da tempo. Ma il fenomeno delle strutture economiche too big to fail, troppo grandi per fallire, ha reso plasticamente evidente l’insostenibilità democratica di questo contesto economico. Siamo in una situazione limite, prossima al punto di rottura. Siamo di fronte a organismi economici di natura privata, che prendono le loro decisioni e compiono le loro scelte in vista di interessi esclusivamente privati, generalmente di cerchie assai ristrette, ma ci viene detto, dagli esponenti politici che abbiamo eletto, che quando questi organismi sbagliano e vengono a trovarsi in difficoltà è l’intera collettività che deve farsi carico di salvarle dal possibile fallimento. Profitti privati e pubbliche calamità. È la legge del più forte. È il più forte, più forte economicamente, che detta ai più deboli, il popolo, regole e condizioni nel nome del proprio esclusivo interesse. L’asserzione che, se il più forte fallisce, ne risente l’intera comunità e che, dunque, il suo salvataggio rientra nella tutela dell’interesse collettivo è una miserevole menzogna, che nessun argomento serio è in grado di sostenere. Lo ripetiamo: la compatibilità fra sistema democratico ed economia capitalistica è giunta a un punto di rottura. Dobbiamo esserne consapevoli e dobbiamo porre apertamente il problema. Potrebbe essere già troppo tardi per evitare passaggi difficili e socialmente costosi.
Il miraggio della concorrenza
La democrazia americana, che per prima si è esplicitamente confrontata con il problema del gigantismo economico, la bigness, ha tentato di domarlo imponendo le regole dell’antitrust, ritenendo che la disciplina della concorrenza fosse in grado di contrastare gli inevitabili abusi di potere cui la bigness dà luogo. Per più di un secolo, dal 1890 quando, sull’onda di una mobilitazione popolare, fu varata la prima normativa antitrust, si è combattuta una guerra che non poteva essere vinta. È stata vinta qualche battaglia, ma la guerra è stata persa, perché non si è riusciti a contrastare efficacemente l’espansione del potere economico e il suo traboccamento negli altri ambiti della vita sociale. Si è cercato penosamente di giustificare la bigness, sostenendo che non è la grande dimensione delle imprese, di per sé, che mette a rischio il corretto funzionamento dei mercati addomesticando la concorrenza, ma solo il suo abuso, che, dunque, va combattuto in quanto tale. Di fatto, ci si è arresi allo strapotere delle corporation, rinunciando a intervenire sulla loro crescita dimensionale, come pure qualche eroico sostenitore della concorrenza, come il giudice Brandeis, aveva suggerito un secolo fa. Oggi, il regime concorrenziale disciplina, paradossalmente, solo coloro che non avrebbero bisogno di essere disciplinati, in quanto privi di un effettivo potere di mercato.
L’antitrust, come tutti i sistemi di regole, rimane costituzionalmente debole e perdente fintanto che si limita a intervenire sugli effetti e non gli è consentito di aggredire le cause delle grandi distorsioni che ostacolano il funzionamento della concorrenza nei mercati. L’antitrust si riduce così a una narrazione che cerca di convincerci che siamo riusciti ad addomesticare il potere economico. L’antitrust, come tutti i sistemi di regolamentazione dei mercati, è esposto a pesanti asimmetrie informative che attribuiscono alle imprese, specialmente quelle più grandi, un vantaggio pressoché incolmabile, che non di rado tracima nella cattura del regolatore, costretto a decidere sulla base delle informazioni che gli fornisce il regolato e sempre esposto al rischio della corruzione.
Il risultato è che le mega-imprese che agiscono a livello globale hanno di fatto assorbito tutte le dimensioni del potere e ne dispongono a loro piacimento, senza dover rispondere a nessun sistema di regole, semplicemente perché non c’è nessun regolatore che abbia la forza di imporgli regole. Il potere politico e legislativo è interamente riassorbito nello spazio economico e assoggettato agli interessi delle grandi imprese. La mega-impresa globale è oggi di fatto un’entità extra-territoriale, nel senso che non è soggetta in senso proprio ad alcuna giurisdizione nazionale ed è, anzi, in condizione di mettere in atto una sorta di “arbitraggio regolamentare”, privilegiando le giurisdizioni più favorevoli sul piano giuridico e fiscale ed esercitando così un irresistibile potere di condizionamento sulle scelte dei governi.
Le imprese too big to fail semplicemente non dovrebbero esistere. Nessun discorso onesto sulla libertà economica può arrivare fino al punto di giustificare la formazione di queste abnormi aggregazioni di potere. E invece esistono ed esiste uno stuolo di economisti impegnati a dimostrarne l’inevitabilità o, addirittura, l’utilità e a ridimensionarne la pericolosità.
Il rischio dell’assuefazione
La cosa che preoccupa di più è la percezione molto bassa che si ha nell’opinione pubblica della pericolosità di questa deriva dell’economia capitalistica, in atto da decenni. Due fattori principali, probabilmente, vi contribuiscono. Da un lato, l’esaltazione del successo economico e della ricchezza che ne deriva che si è installata, a tutti i livelli, nella cultura di massa. Dall’altro, l’assuefazione a una sorta di intangibilità dei processi capitalistici, considerati alla stregua di eventi naturali cui è impossibile opporsi perché radicati nella natura delle cose. Fa da sfondo a questo clima culturale la sfiducia strisciante e sempre più diffusa nella possibilità di utilizzare efficacemente lo strumento della democrazia per contrastare e controllare la concentrazione del potere economico. La democrazia dovrebbe essere considerata un bene comune, ma, come spesso avviene per i beni comuni, quando si offusca o si perde il senso del vivere insieme, il bene comune si trasforma più o meno rapidamente nel bene di nessuno. È lì, a disposizione, e viene utilizzato, ma nessuno se ne prende cura, nella fiducia assolutamente irrazionale che resterà eternamente a disposizione. I beni comuni, invece, se non accuditi, rispettati, coltivati da tutti i cittadini, deperiscono e alla fine scompaiono. Non ci sono più, bisogna farne a meno. Solo allora, eventualmente, si avverte che c’è stata una perdita, perché la qualità della vita è peggiorata e non si riesce a capire perché. Questa è, oggi la condizione della democrazia. Ce n’è quel tanto che serve per non doversi occupare di creare alternative. Fornisce prestazioni mediocri, spesso insoddisfacenti, accrescendo l’indifferenza, se non l’insofferenza, per la dimensione collettiva, per tutto ciò che è pubblico, di tutti.
Il compromesso keynesiano
C’è stato un momento in cui il “secolo breve” ha deviato dalla sua traiettoria e si è proiettato su di un terreno sconosciuto, alla ricerca dei modi in cui domare il capitalismo oligopolistico delle grandi imprese che si ergeva come una minaccia mortale nei confronti della democrazia. Dopo il disastroso esperimento della Repubblica di Weimar, segnata dall’ingerenza dei grandi monopoli tedeschi, dopo le disastrose conseguenze della Grande crisi, di fronte all’insorgere del nazionalsocialismo e del fascismo, forte e impellente era la necessità di ragionare su di una via di uscita che non lasciasse il destino della democrazia nelle mani dei monopoli. Negli Stati Uniti venne il momento del New Deal di Franklin D. Roosevelt, con il suo impeto e il suo radicalismo innovatore. In Germania, con maggiori rischi e più sommessamente, un gruppo ristretto di persone, riunito a Friburgo, si mise all’opera per provare a immaginare un nuovo ordine economico e politico, una volta che il nazismo fosse stato sconfitto. I nomi degli artefici di quei tentativi sono oggi sconosciuti ai più: Henry Simons e Thurman Arnold negli USA, Walter Eucken e Franz Böhm in Germania, ma il loro lavoro è stato e rimane l’unico tentativo serio di affrontare il problema del potere economico in una società democratica. La formulazione più chiara, incisiva e anche drammatica del problema è quella consegnata a un messaggio del Presidente Roosevelt al Congresso del 29 aprile 1938. Essa ha al centro “due verità semplici sulla libertà di un popolo democratico. La prima verità è che la libertà di una democrazia non è al sicuro se il popolo tollera la crescita del potere privato fino al punto in cui esso diventa più forte dello stesso stato democratico… La seconda verità è che la libertà di una democrazia non è al sicuro se il sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo da sostenere un livello di vita accettabile” (Franklin D. Roosevelt, Message to Congress on the Concentration of Economic Power, April 29, 1938). Il problema, secondo Roosevelt, è che “oggi sta crescendo una concentrazione del potere privato che non ha uguali nella storia. Questa concentrazione sta compromettendo seriamente l’efficienza economica dell’impresa privata quale strumento per dare occupazione al lavoro e al capitale e quale strumento per assicurare una distribuzione più equa del reddito e dei guadagni fra le persone della nazione nel suo insieme” (ibid.).
Tutti i personaggi citati ritenevano che una concentrazione del potere economico tale da limitare o cancellare la concorrenza fosse incompatibile con un regime democratico e, più o meno apertamente, erano a favore di regole che ne prevedessero e imponessero la dissoluzione. Non si trattava, anche allora, di controllare gli abusi di quel potere, ma di eliminarne i presupposti. “Non sono da combattere i cosiddetti abusi del potere economico – sosteneva Eucken – ma il potere economico in quanto tale”.
Quei tentativi, per quanto lucidi e generosi, sono falliti. Hanno prodotto qualche temporanea correzione, hanno costretto il capitalismo oligopolistico a qualche momentanea concessione sulla cui scia si è riusciti, per un trentennio o giù di lì, a far vivere un compromesso nel nome del keynesismo. Ma il problema non è stato risolto, anzi, nel corso del ventennio della Grande moderazione, fra il 1987 e il 2007, si è aggravato fino a esplodere con la globalizzazione. L’intera parabola della Crisi finanziaria globale, dai processi che ne costituiscono il presupposto a quelli che ne costituiscono le conseguenze, mostra con tutta evidenza che essa si è prodotta nel segno dell’oligarchia finanziaria e delle imprese too big to fail, che l’ha, di fatto, imposta con i propri comportamenti, cui nessun governo, nessun potere politico, è stato in grado di opporsi. Il potere economico delle grandi istituzioni finanziarie si è mosso indisturbato, nel perseguimento dei propri obbiettivi, finché la realtà non si è ribellata. Il medesimo potere incontrollato, nel momento della crisi, ha imposto a noi tutti di pagare i conti del disastro che esso, è solo esso, aveva prodotto.
Un nuovo compromesso
Nella misura in cui il potere economico soppianta e soggioga il potere politico, viene meno la capacità del sistema politico di operare per garantire le condizioni della coesione sociale tramite il patto fiscale che è alla base di ogni sistema di governo. Se le politiche governative, sociali ed economiche, sono decise dell’oligarchia finanziaria, è assai improbabile che contengano quelle azioni di ridistribuzione del reddito che sono necessarie per compensare le disuguaglianze che sono il prodotto necessario dello sviluppo capitalistico. Vi è oggi un trade off irriducibile fra la permanenza del potere economico ai livelli raggiunti e l’ordinato funzionamento di una società democratica. Tertium non datur. Occorre scegliere. Occorre porre le basi di un nuovo compromesso che prenda il posto di quello, ormai svuotato e inadeguato, che va sotto il nome di Keynes.
Il presupposto di questo nuovo compromesso è lo smantellamento del potere economico nelle forme e nelle dimensioni che oggi conosciamo. Un’esperienza ormai secolare ci mostra che non c’è alcuna possibilità di domare il potere economico una volta che si sia installato all’interno di un sistema sociale. Ci si può tutelare dagli effetti perniciosi che ne derivano solo impedendo che si formi. Gli ordinamenti giuridici devono portare al proprio interno norme atte a impedire la formazione di un potere economico esorbitante. Non è semplice. E non lo è proprio per lo svuotamento delle dinamiche democratiche che è causa ed effetto della situazione in cui ci troviamo. È un circolo vizioso che solo una forte ed ampia mobilitazione dell’opinione pubblica potrebbe spezzare. Prima che un qualche disastro sociale ce lo imponga.
Alla ricerca del cambiamento che verrà
I cambiamenti rilevanti, in un sistema sociale, non sono quasi mai il frutto univoco di decisioni chiare e condivise assunte da qualcuno che è in grado di attuarle. Sono piuttosto il prodotto congiunto di una pluralità di decisioni e di scelte, e anche di non decisioni, di astensioni, che interagiscono fra di loro in modi che nessuno è in grado di prevedere e, tanto meno, controllare. Spesso tali cambiamenti prendono forma senza che nemmeno ce ne accorgiamo.
L’osservatore delle dinamiche sociali, dunque, se è intellettualmente onesto e consapevole, si astiene dal “prescrivere ricette… per l’osteria dell’avvenire” (Marx 1873) e si sforza piuttosto di individuare i fenomeni principali che sono suscettibili di combinarsi dando luogo a un cambiamento sociale di rilevanza sistemica. Oggi, di fronte al profluvio di ricette da cui siamo sommersi e confusi, è difficile tenere questa rigorosa linea di condotta, anche perché non è facile ritrovare un filo del cambiamento che da troppo tempo abbiamo perso, sedotti o sopraffatti da dottrine che avevano l’unico scopo di disarmarci intellettualmente.
Per tornare al nostro tema, il destino della democrazia, non vedo, allo stato delle cose, dinamiche emergenti, o anche consolidate, che possano far pensare a una riapertura dei processi di democratizzazione della vita sociale. La democrazia sostanziale appare destinata, per un periodo non breve, a restare inscritta nella sfera dell’utopia. C’è solo da sperare che la democrazia formale, l’unica che oggi possediamo, non degeneri ulteriormente, facendo avanzare sempre più il potere delle oligarchie.
L’offuscamento delle appartenenze di classe, che è il risultato del superamento del fordismo, ha fatto emergere una società indistinta, la società del 99%, dal potenziale enorme e dal potere nullo. Potenziale enorme, perché virtualmente in grado di delineare e praticare un nuovo ordine sociale; ma potere nullo, perché il 99% non riesce a darsi strumenti di azione politica che efficacemente la rappresentino, al di là dei tenui ed evanescenti legami istituiti dai network su internet. Non riesce a esprimere una cultura, tanto meno un programma politico, un’idea di società. Riesce solo e riconoscersi nella propria subalternità. L’impotenza del 99%, a sua volta, esalta e moltiplica il potere delle élite che, al contrario, possiedono efficacissimi e potentissimi strumenti di azione, primo fra tutti il potere economico che esercitano quasi indisturbate dai vincoli leggeri della democrazia formale.
Non dobbiamo farci illusioni. Oggi, più che mai, il potere di influire sui processi che disegnano l’ambiente economico e sociale, nonché politico, in cui viviamo è nelle mani di una ristrettissima élite globale che è totalmente impermeabile alle richieste e alle esigenze del 99%. Priva di qualsiasi cultura politica, semplicemente perché non ne ha bisogno, opera e decide nell’unica prospettiva di mantenere e accrescere il proprio potere e la propria ricchezza, convinta che “l’intendenza seguirà”. È la prospettiva plasticamente rappresentata dalla teoria economica del “trickle down”, non a caso impostasi nell’era della Grande moderazione, in cui si è formata l’attuale élite globale del potere. Quello che conta è che i ricchi continuino ad arricchirsi: qualcosa, alla fine, “gocciolerà giù” per consentire al 99% di sopravvivere. E basta così. Nessuno si ribellerà.
Conclusione pessimistica, quasi disperata. Il panorama che abbiamo davanti non consente visuali diverse. I venti di guerra che soffiano per ora a folate, la minaccia terribile di un ritorno delle guerre di religione, le più crudeli e sanguinose contribuiscono a rendere il quadro ancora più oscuro. Non dobbiamo perdere di vista, tuttavia, alcune linee di faglia che attraversano la società globale, partendo dalle scandalose disuguaglianze di reddito e di ricchezza, che un capitalismo senza freni e lo svuotamento della vita democratica hanno certamente favorito. La storia suggerisce che le disuguaglianze estreme sono fonte pressoché certa di reazioni. Si tratterà di vedere se dentro o fuori dal perimetro democratico.