Il ritorno dei cittadini
Le elezioni sono ormai alle spalle. Abbiamo detto, su questo sito, che, molto probabilmente, si sarebbero rivelate inutili, pleonastiche, per la scarsa capacità dei partiti, anche di quelli più nuovi, di innovare sostanzialmente l’offerta politica, adeguandola al contesto della globalizzazione e di una democrazia zoppa. Non ci sbagliavamo. La rumorosa irruzione sulla scena politica del M5S sconvolge il quadro politico, ma non muta questa situazione. Muta il modo di fare e di essere della politica. È tempo, dunque, di cominciare a ragionare sullo scenario politico che si sta delineando e, al suo interno, dei destini della democrazia.
La democrazia dei partiti è finita?
È sorprendente che nessuno, o quasi, abbia notato che alle elezioni 2013 il PD era praticamente l’unica rappresentanza politica che ancora assomigliasse alla forma partito che ha dominato la scena politica del “secolo breve”. Li ricordiamo bene i partiti di massa del secolo XX. Organizzazioni poderose, strutturate verticalmente e diffuse capillarmente, e capaci, quindi, di tenere insieme, con il cemento dell’ideologia, intere porzioni di una società articolata lungo le linee di faglia prodotte dal conflitto fordista. Organizzazioni cui la condivisione di un’ideologia forte, quasi una religione, forniva un forte potere identitario, la cui presa era accresciuta dalla capacità del partito di occupare, attraverso una serie di organismi collegati, pressoché tutti gli spazi della vita degli individui, da quelli del lavoro a quelli dello svago, a quelli della cultura, a quelli del consumo, costituendo una sorta di mondo chiuso all’interno del quale si viveva una specie di simulazione di quel mondo nuovo che s’intendeva costruire. Era il mondo del noi, i “compagni”, gli “amici”, contrapposto al mondo di “loro”, e questa contrapposizione, il fatto di sentirsi in lotta contro un nemico, non un avversario, era parte costitutiva di un senso di appartenenza che prescindeva, in buona parte, dai contenuti concreti del programma e dell’azione politica, perché era orientato e riempito dal sole dell’avvenire, dalla fiducia in un futuro migliore che sarebbe venuto e che andava costruito.
Tuttavia, anche l’unico partito rimasto della lunga stagione novecentesca, il PD, al di là dei travagli che lo stanno portando all’implosione, non è che un pallido riflesso di quella realtà ideale e organizzativa. Gli manca, innanzitutto, la coesione ideologica, il possesso di una visione, e gli manca il robusto insediamento nella vita quotidiana di milioni di persone, attraverso i mille luoghi che consentivano di partecipare a una vita collettiva. Il partito è diventato un organo verticistico, in cui si tentano fusioni a freddo fra gruppi dirigenti e culture politiche diverse, fra rappresentanze d’interessi. Qualche brandello di senso di appartenenza sopravvive, appeso a ciò che rimane di un’identità antica e pesante, specialmente nelle generazioni più anziane. Ma ha il carattere più di un’incrostazione che si tratta di rimuovere piuttosto che di una spinta vitale, in contrasto con una nuova modalità di adesione che tende a privilegiare il programma, la tutela degli interessi.
A parte il PD, le altre formazioni che hanno partecipato alla competizione elettorale sono delle strane creature che gravitano intorno a figure più o meno carismatiche, che, in un modo o in un altro, devono la loro notorietà alla sfera dei media e che dello sfruttamento dei media fanno il loro principale strumento di comunicazione, di reclutamento e di produzione di identità. Quello che le accomuna sembra essere l’inclinazione a una drastica semplificazione della realtà, che è, prima di tutto, una reazione istintiva alle alchimie partitiche, a quegli incomprensibili e interminabili giochetti parlamentari che hanno finito per svuotare il processo decisionale pubblico, trasmettendo ai cittadini un senso diffuso di inanità, quando non la rabbia per le risposte che non venivano ai problemi sentiti da tutti.
Ma bisogna anche stare attenti a non fare di tutte le erbe un fascio, perché ci sono anche tratti che distinguono fortemente le diverse formazioni in campo. Da una parte, c’è quella che ha del capo una concezione fideistica, quasi religiosa, e che si nutre anche di una scarsa cultura politica, dell’assenza di senso civico, dell’insofferenza per le regole democratiche, o per le regole tout court, di un atteggiamento che tende a essere più da spettatori che da cittadini attivi. È il ventre molle della società italiana, quella massa non di rado maggioritaria che l’antipolitica ce l’ha nel sangue, perché è intimamente antidemocratica, premoderna. A essa da sempre attingono i populismi, a partire da quello fascista. Non è un caso che sullo sfondo s’intraveda talvolta l’eterno simulacro dell’uomo forte, ritenuto capace di risolvere d’un colpo tutti i problemi, senza indulgere ai defatiganti e talora incomprensibili “riti” della democrazia rappresentativa. Dall’altra, c’è il movimento dei “grillini”, il quale fa sì riferimento a un “capo” carismatico, che fa addirittura a meno anche di un simulacro di partito, ma che sarebbe profondamente errato assimilare al capo tipicamente populista del “Popolo delle libertà”. Il ruolo, la funzione, il modo di porsi dei due non potrebbero essere più diversi. Grillo ha messo sù, ha “inventato”, il movimento dei “grillini”, ma lo ha fatto tramite gli strumenti leggeri, “virali”, della rete, mentre Berlusconi l’ha fatto mettendo in campo gli strumenti pesanti dell’organizzazione aziendale, delle risorse finanziarie e della macchina mediatica di cui disponeva. Grillo porta in parlamento persone comuni, che compongono uno spaccato della società che viene avanti dentro la metamorfosi di sistema che è in corso. Berlusconi porta in parlamento persone che devono semplicemente fare da amplificatori della sua comunicazione e, soprattutto, essere a lui fedeli. Non gli importa che rappresentino qualcosa della società. Devono semplicemente essere dei simboli, specialmente le donne, delle icone. Devono solo rappresentare lui. Le pulsioni sociali che anche Berlusconi legge con straordinaria lucidità gli servono solo per alimentare la macchina del consenso alla sua presenza mediatica e alla gestione privatistica della sfera pubblica. Grillo coglie, con grande intuito, rabbie, bisogni, che emergono dalla società e che si nutrono di profonde e talora antiche frustrazioni e insoddisfazioni e le trasforma in una poderosa macchina politica che ancora deve prendere forma, ma già fa sentire la pressione della sua potenza.
Il berlusconismo ha qualcosa di antico, di eternamente uguale, nella cultura politica mai nata del popolo italiano. Il grillismo, invece, appare tremendamente moderno, nella rozza immediatezza del suo modo di fare politica, di rappresentare, senza filtrarle, senza elaborarle, le pulsioni di rivolta più diffuse, nella loro genericità. Ma è anch’esso inquinato da una vena di antipolitica, d’insofferenza per la democrazia, che lo accomuna al berlusconismo. Certo, il grillismo dà voce a un’insofferenza per la politica dei partiti che rappresenta una reazione sana, popolare, all’inconcludenza, alla degenerazione, alla corruzione della classe dirigente politica. Ma non la risolve in iniziativa politica, la disperde nella vana ricerca di un qualcos’altro dalla politica che non sarà certo la rete a fornire, anche se la rete costituisce una formidabile risorsa politica che il grillismo ha capito e sta sfruttando, mentre i partiti zombi non se ne sono ancora accorti.
Democrazia senza partiti
Se, come afferma Revelli nel suo ultimo, lucidissimo libro, “il controllo monopolistico dello spazio pubblico da parte del partito novecentesco è finito” (p. 135), ne consegue necessariamente che fra i cittadini e il luogo principe della rappresentanza, il parlamento, tra i cittadini e il governo, si distende oggi uno spazio apparentemente vuoto, anche se, a guardare meglio, lo si vede pullulare di una miriade di forme di vita associativa che però non riescono, almeno oggi, a innervare un robusto processo di partecipazione alle decisioni collettive. Viene da pensare che questo enorme spazio vuoto che il vitalismo sociale non riesce a colmare finirà con il produrre un ulteriore offuscamento del ruolo dello stato nazionale e del suo governo, favorendo l’emergere e il consolidarsi di spazi di governo, come quello regionale o, forse ancor più, quello delle macro-regioni, anche trans-frontaliere, dove la distanza fra cittadini e rappresentanti, fra cittadini e governo, è più ridotta e rende più agevole la comunicazione e il controllo. Forse, nella prospettiva di un rilancio della costruzione europea, questo slittamento della vita democratica verso la dimensione regionale potrebbe anche essere colto come una risorsa per dare rinnovata sostanza a un’Unione Europea sorretta da processi reali e non solo da scelte politiche, per lo più prive di legittimazione e partecipazione da parte dei popoli.
I partiti, nella loro forma novecentesca, non risorgeranno a nuova vita. Probabilmente, continueranno a trascinare una vita stentata ancora per molto tempo, in attesa che la società riesca a elaborare un nuovo contesto istituzionale che consenta una trasfigurazione della democrazia. In questa transizione, la cui durata e i cui esiti sono imprevedibili, sarebbe opportuno riuscire a imporre ai partiti che continueranno ad avere un ruolo nel governo degli stati nazionali e di aggregazioni più ampie, come l’Unione Europea, l’attuazione di misure che ridisegnino lo spazio istituzionale, in particolare ridefinendo i confini dei poteri sistemici, ivi compresi quello economico-finanziario e quello mediatico, in modo da aprire nuovi spazi al dispiegamento della democrazia.
Democrazia del pubblico
È bene avvertire che la sfiducia nei partiti, la caduta della lealtà e dell’identificazione dei cittadini nei confronti dei partiti, non sono un fenomeno unicamente italiano anche se alcune peculiarità negative del contesto nazionale contribuiscono a renderlo più marcato, addirittura più virulento. Ed occorre anche tenere bene a mente che non si tratta di un fenomeno nuovo. È da almeno 15-20 anni che gli studiosi ne segnalano la presenza in tutte le maggiori democrazie dell’occidente. Si tratta, dunque, di una deriva lunga, sospinta da forze profonde. I fenomeni cui stiamo assistendo, la crisi verticale dei partiti, l’emergere di movimenti legati a capi carismatici, l’eterna tentazione delle scorciatoie populistiche, non sono che increspature della superficie che segnalano che ci stiamo muovendo alla ricerca di nuove soluzioni, di nuovi scenari.
Sono due gli aspetti che qui vorremmo, intanto, sottolineare. Il primo è la faticosa fuoriuscita dagli schemi imposti dalle fratture sociali imposte, lungo gran parte del secolo scorso, dall’organizzazione fordista della produzione. Quelle fratture, alimentate e irrigidite dalle grandi culture popolari sorte in reazione ai guasti della prima rivoluzione industriale, hanno segnato in profondità la cultura politica del novecento e gettano ancora la loro ombra lunga sulle prospettive politiche del presente, ostacolando il tentativo di delinearle con chiarezza. Oggi non è più il lavoro il discrimine che decide chi sta da una parte e chi sta dall’altra della barricata. Non ci sono più le barricate. Il lavoro resta una grande questione sociale, ma non è più la matrice dei movimenti politici. Sono altri i temi e i problemi che sollecitano l’impegno politico dei cittadini e generano spinte collettive: l’ambiente, la vita urbana, le migrazioni, le disuguaglianze economiche e sociali. E’ da questo contesto che nascono i movimenti che, non a caso, si raccolgono sotto l’insegna del 99%. Nell’ingenua immediatezza di tutti i movimenti allo stato nascente, essi colgono un fatto sostanziale che nessuna delle paludate scienze sociali ha colto, nonostante le sue manifestazioni siano sotto gli occhi di tutti da almeno un trentennio. Sto parlando dell’emergere di un potere semi-occulto e privo di qualsiasi controllo che ha preso la forma di un’oligarchia finanziaria globale che vive nei paradisi fiscali, nel mondo dell’offshore, dello shadow banking system, e da lì controlla e domina lo scenario economico mondiale, dettando la propria agenda ai governi di tutto il pianeta e assoldando la politica di tutti i paesi. È il mondo dell’1%, che, con il suo esistere, pone l’intero resto della società come un indistinto, contrapposto 99%, che cerca faticosamente e confusamente di riappropriarsi di quel potere che la promessa democratica aveva fatto, una volta, balenare davanti agli occhi di milioni di cittadini convinti di aver conquistato una volta per tutte il diritto di decidere su cosa è meglio per la società di cui fanno parte. Il destino delle democrazie è oggi sospeso su questo abisso che si è aperto nella società.
Il secondo aspetto è ancora in gran parte inesplorato, ma c’è il fondato sospetto che possa diventare centrale già a partire dall’indecifrabile esito delle elezioni italiane. La crisi dei partiti novecenteschi, motore della democrazia rappresentativa, ha riportato in superficie la mai sopite pulsioni verso la democrazia diretta ovvero verso il massimo accorciamento possibile della filiera che produce le decisioni politiche. Certo, oggi l’aspirazione alla democrazia diretta può contare sull’ausilio del web e di tecnologie che consentono anche forme sofisticate di consultazione dei cittadini. Una sorta di agorà elettronica potrebbe far rivivere le forme di democrazia diretta che vigevano nell’antica Atene?
La democrazia diretta è un tema attraente, ma insidioso. Appare come la soluzione più semplice e appropriata al problema delle decisioni collettive, ma nasconde in misura molto elevata l’insidia della dittatura della maggioranza, che nessun regime democratico ha pienamente risolto, e il rischio congiunto della fascinazione dei capi popolo.
C’è, infine, un terzo aspetto, che appare come un corollario della crisi dei partiti, ma potrebbe avere radici e valenze più profonde: il ruolo dei “tecnici”, o presunti tali, come supplenti della politica. È stato ricorrente, negli ultimi vent’anni, il ricorso a figure definite “tecniche” per assolvere funzioni di governo che i partiti non erano in grado di adempiere. Più in generale, si può dire che il sistema politico italiano nel suo insieme non è stato in grado di elaborare e, tanto meno, di gestire soluzioni efficaci ai problemi sempre più gravi e incancreniti che l’Italia si trovava di fronte a seguito di una modernizzazione mancata che rappresenta l’atto di nascita del declino cui sembriamo condannati. È nata così una supplenza politica che ha preso le forme di “governi tecnici” la cui principale caratteristica era, ed è, quella di operare sulla base di un conclamato “vincolo europeo” che, ormai da lungo tempo, si è rivelato come l’unico modo per fare o tentare di fare le cose che la realtà del paese richiedeva nell’ottica del l’integrazione europea. Così anche l’ultima parvenza di democrazia rappresentativa e di legittimazione dei partiti è scomparsa dal l’orizzonte politico italiano, rendendo impossibile l’elaborazione di soluzioni endogene e condivise ai problemi sul tappeto. La distanza fra cittadini e istanza politiche ha finito per farsi abissale, dilatando lo spazio per i populismi di ogni genere, i quali hanno il privilegio perverso di saltare tutte le peripezie e le fatiche della rappresentanza per affidarsi al capo carismatico che scioglie, come per incanto, tutte le difficoltà, almeno a parole.
Il ricorso sempre più frequente ai “tecnici” e il bisogno di un “vincolo esterno” da rispettare per legittimarie l’azione sono l’indice e l’espressione di una crisi verticale dei sistemi democratici, che non riescono più a esprimere una “volontà generale” sufficientemente condivisa.
Il primo ciclo della democrazia italiana si è esaurito. Ha prodotto risultati importanti, tenendo a bada le pulsioni populistiche e autoritarie che da sempre si agitano nel fondo oscuro della società italiana, ha stabilmente insediato nel nostro regime sociale il riconoscimento e la tutela formale dei diritti che fanno la democrazia, ha anche creato, almeno in parte, un’opinione pubblica democratica, ma non ha prodotto l’uomo democratico, non ha allevato quel cittadino attivo che ne è il presupposto necessario. Alcuni vizi tipici del carattere italiano, come il servilismo, il familismo amorale, l’inclinazione a scambiare favori piuttosto che reclamare diritti, lo spirito mafioso che compenetra tanta parte della società italiana, rendono e hanno sempre reso difficile l’acquisizione di una cultura autenticamente democratica. La partecipazione obbligata, la presa di parola, la stessa rivolta, che sono imposte oggi dalla crisi dei partiti possono essere un’occasione per un profondo cambiamento culturale della società italiana in senso democratico. Può nascere e diffondersi, una volta per tutte, il senso profondo della vita democratica di un paese.
Occorre, dunque, procedere oltre la democrazia puramente formale, che oggi nasconde e rende possibili raggruppamenti e comportamenti oligarchici in tutti i gangli decisivi della società, e provare a instaurare una piena sovranità del cittadino che, attraverso una rinnovata rete di istituzioni intermedie, sia in grado di far rappresentare la sua volontà in maniera sostanziale e, soprattutto, attraverso l’esercizio costante e organizzato di una cittadinanza attiva, sia in condizione di controllare ed, eventualmente, di sancire l’esercizio del potere da parte dei suoi rappresentanti. Occorrono forme nuove e strumenti nuovi per l’effettivo esercizio della sovranità popolare. La rete, i Social network, non sono, come qualcuno pensa, la soluzione finalmente trovata al problema della democrazia diretta, ma costituiscono certamente strumenti formidabili per favorire la comunicazione, la conoscenza, la trasparenza, dell’attività dei governi, locali e centrali, e sono quindi il valido presupposto di una vera cittadinanza attiva, che è l’unica garanzia possibile di un autentico regime democratico ed è quello che finora, almeno nel nostro paese, ma non solo, è mancato.