di Amartya Sen –
La crisi europea che stiamo vivendo non è solo una crisi economica, ma anche e, forse, soprattutto, una crisi politica, determinata da un deficit di democrazia. Il premio Nobel analizza lucidamente la perdita in Europa dell’obiettivo tipico della democrazia, il benessere sociale, sostituito dai dettami della finanza
Se ci fosse bisogno di fornire una prova della massima secondo cui la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, senza dubbio ce la offre la crisi economica Europea. Le intenzioni dei responsabili della politiche dell’Unione Europea, forse degne ma limitate, sono risultate inadeguate a costruire un’economia Europea sana e hanno prodotto invece un mondo di miseria, caos e confusione.
Due sono le ragioni.
In primo luogo, le intenzioni possono essere rispettabili ma non lucide, e le fondamenta della politica di austerità in corso, in combinazione con le rigidità dell’unione monetaria Europea (in assenza di un’unione fiscale), difficilmente possono essere considerate un modello di forza e sagacia. In secondo luogo, un’intenzione di per sé buona può entrare in conflitto con una priorità più urgente – in questo caso, la conservazione di un’Europa democratica preoccupata del benessere sociale. Questi sono valori per i quali l’Europa ha combattuto, per molti decenni.
Certo, alcuni paesi Europei hanno bisogno da tempo di una migliore e più responsabile gestione economica. Tuttavia, la tempistica è fondamentale; le riforme fatte secondo un programma ben meditato devono essere distinte dalle riforme fatte in estrema urgenza. La Grecia, con tutti i suoi problemi di responsabilità, non era in crisi economica prima della recessione globale del 2008. (In realtà, la sua economia è cresciuta del 4,6 per cento nel 2006 e del 3 per cento nel 2007, prima di iniziare la sua continua contrazione.)
La ragione delle riforme, non importa quanto urgente, non è servita bene dall’imposizione unilaterale di tagli improvvisi e selvaggi nei servizi pubblici. Questi tagli indiscriminati abbattono la domanda – una strategia controproducente, data la disoccupazione enorme e le imprese produttive decimate dalla carenza di domanda nel mercato. In Grecia, uno dei paesi rimasti indietro rispetto agli incrementi di produttività avvenuti altrove, lo stimolo economico della politica monetaria (svalutazione della moneta) è precluso dall’esistenza dell’unione monetaria Europea, mentre il pacchetto fiscale richiesto dai leaders del continente è gravemente anti-crescita. Nel quarto trimestre dello scorso anno la produzione economica dell’eurozona ha continuato a diminuire, e le prospettive sono così tristi che un rapporto recente che ha rilevato una crescita zero nel primo trimestre di quest’anno è stato accolto da tutti come una buona notizia.
Vi è, in effetti, un sacco di testimonianze storiche che il modo più efficace per ridurre il deficit è quello di combinare la riduzione del disavanzo con la rapida crescita economica, che genera più entrate. Gli enormi deficit seguiti alla Seconda Guerra Mondiale sono in gran parte scomparsi con la crescita economica rapida, e qualcosa di simile è accaduto durante la presidenza di Bill Clinton. La riduzione molto apprezzata del deficit di bilancio Svedese del 1994-1998 si è verificata in contemporanea con una crescita piuttosto rapida. Al contrario, oggi si chiede ai paesi Europei di tagliare i loro deficit, mentre sono intrappolati in una crescita economica zero o negativa.
John Maynard Keynes può sicuramente offrirci delle lezioni su questo, avendo capito che lo stato e il mercato sono interdipendenti. Ma Keynes ha poco da dire sulla giustizia sociale, e sugli impegni politici con cui l’Europa è emersa dalla seconda guerra mondiale. Questi hanno portato alla nascita del moderno stato sociale e dei servizi sanitari nazionali – non per sostenere l’economia di mercato, ma per proteggere il benessere umano.
Anche se questi problemi sociali non hanno impegnato a fondo Keynes, in economia esiste una vecchia tradizione che combina l’efficienza dei mercati con l’erogazione di servizi pubblici che il mercato non può essere in grado di fornire. Come ha scritto Adam Smith (spesso semplicisticamente indicato come il primo guru dell’economia di libero mercato) in “La ricchezza delle nazioni”, in un’economia ci sono “due obiettivi distinti”: “in primo luogo, fornire un reddito di sussistenza per le persone , o, più propriamente, consentire loro di procurarsene uno, e d’altro lato, fornire allo Stato delle entrate sufficienti per i servizi pubblici “.
Forse l’aspetto più preoccupante del malessere attuale dell’Europa è la sostituzione degli obiettivi democratici con i dettami della finanza – da parte dei leaders dell’Unione Europea e della Banca Centrale Europea, e, indirettamente, delle agenzie di rating, i cui giudizi sono stati notoriamente fallaci.
Un dibattito pubblico partecipativo – il “government by discussion” esposto da teorici democratici come John Stuart Mill e Walter Bagehot – avrebbe potuto individuare le riforme necessarie in un arco di tempo ragionevole, senza minacciare le fondamenta del sistema Europeo di giustizia sociale. Al contrario, i drastici tagli nei servizi pubblici con una discussione generale molto scarsa sulla loro necessità ed efficacia, sono destabilizzanti per un segmento importante della popolazione Europea e giocano a favore degli estremisti di entrambe le parti dello spettro politico.
L’Europa non può riprendersi senza affrontare due aree di legittimità politica. In primo luogo, l’Europa non può affidarsi ai punti di vista unilaterali – o buone intenzioni – di esperti, senza un ragionamento pubblico e un consenso informato dei suoi cittadini. Dato l’evidente disprezzo del pubblico, non è una sorpresa che in un’elezione dopo l’altra il pubblico abbia dimostrato la sua insoddisfazione non votando più per i partiti storici.
In secondo luogo, quando i leaders dettano delle politiche inefficaci e palesemente ingiuste, sia la democrazia che la possibilità di creare una buona politica vengono vanificate. L’evidente fallimento del mandato di austerità imposto finora ha minato non solo la partecipazione pubblica – un valore in sé – ma anche la possibilità di giungere ad una soluzione ragionevole, e programmata con saggezza.
Questo è un sicuramente un grido lontano da quell'”Europa democratica unita” che i pionieri dell’unità Europea volevano realizzare.
Tratto da “The New York Times”, 22 maggio 2012
http://www.investireoggi.it/estero/amartya-sen-sul-new-york-times-la-crisi-della-democrazia-europea/