di Aldo Bonomi –
L’impresa cooperativa appare di fronte ad un bivio. Da una parte, può accentuare una tendenza a omologarsi all’impresa capitalistica privata, che è la cifra della sua storia recente. Dall’altra può riannodare il filo della storia, coltivando gli elementi distintivi che le hanno consentito di essere un motore dell’innovazione capitalistica. L’occasione è offerta dalla prospettiva della green economy, dove il movimento cooperativo potrebbe esercitare un ruolo di primo piano, recuperando e valorizzando l’ispirazione sociale originaria.
Il Consorzio Cooperative Costruzioni (CCC) è un raggruppamento di trecento imprese di costruzioni e servizi, insediate sull’intero territorio nazionale, che fatturano oltre cinque miliardi di Euro l’anno e danno lavoro a 15.000 persone, al netto delle partecipazioni (consortili e dei soci) in numerose società di capitali non cooperative. Basta osservare la graduatoria per volumi di fatturato delle imprese italiane di costruzioni per rendersi conto di cosa parliamo: dieci delle prime cinquanta sono cooperative aderenti al CCC; messe insieme, anche al netto delle transazioni interne, costituiscono di gran lunga il principale network nazionale di progettazione, costruzione, manutenzione di opere pubbliche e di edilizia. Il CCC è snodo cruciale e agenzia strategica di questo sistema. E’ un punto d’osservazione ideale, dunque, per coglierne la potenza, ma anche le contraddizioni.
Un’economia radicata nella società
Il Bilancio Sociale percorre cent’anni di storia cooperativa e implicitamente ci invita a ricordare il futuro. Ora, il futuro non si ricorda. Al massimo, in tempi di futuro negato, chi può permettersi un altrove il futuro lo sogna. Eppure solo questo sforzo immaginativo e progettuale può consentire alle cooperative edilizie di riprodurre quella capacità di anticipare la tendenza che le ha portate a competere al vertice. Aprire il Bilancio con il ritratto dei probi pionieri di Rochdale, o gli ateliers nationaux sorti dalle barricate parigine della Repubblica di febbraio, le banche popolari e le casse rurali tedesche, la Società degli Operai di Torino e la cooperativa dei vetrai di Altare, nell’entroterra savonese, potrebbe apparire un rituale richiamo retorico. Forse finanche stridente con il grafico conclusivo che illustra le odierne partecipazioni del CCC in società finanziarie e di engineering. Non penso tuttavia che sia retorica: richiamare le origini, i birocciai che ai primi anni del secolo si misero assieme per sottrarsi al subappalto e accedere alle commesse della provincia di Bologna, significa porsi nella disposizione giusta per progettare il futuro.
Prima del Consorzio c’erano le cooperative e prima ancora i carrettieri, i muratori, i braccianti che nel passaggio di secolo furono strappati dalla campagna e incanalati come moltitudine verso la città e il lavoro industriale. O resistevano nel contado, che iniziava a farsi piattaforma agricola industrializzata. Quella moltitudine sradicata lasciava forme dei lavori scandite dal sorgere e dal tramontare del sole e incontrava il lavoro a ciclo continuo del macchinario industriale. Lasciava forme di consumo basato sul prosumerismo di ciò che lasciava il padrone per andare verso l’acquisto dei beni di consumo. Aveva nella famiglia patriarcale la rete di cura dei vecchi e dei bambini, e si ritrovava senza reti di protezione. Il linguaggio e la trasmissione del sapere correvano lungo il filo della storia orale e in città e in fabbrica il sapere e il potere scorrevano nella parola scritta. Il denaro era un legame debole nelle campagne e diventava invece cifra del salario e dello scambio nella società industriale. Di questo tratta il racconto sommerso del nascere delle leghe operaie. O il creare cooperative di consumo per avere a costo calmierato i beni di prima necessità. O il creare le mutue per darsi la cura nella malattia e nella vecchiaia. O formare casse rurali ed artigiane o banche popolari per sottrarsi all’usura e riappropriarsi del segno pesante delle differenze: il denaro. Il sindacato generale, la contrattazione collettiva, la scuola come diritto di tutti, la pensione e la sanità pubblica, vennero dopo. Proprio con il crescere di quella società di mezzo fatta da libere associazioni delle libertà sociali, come il sindacato, le associazioni imprenditoriali, le cooperative, che si misero in mezzo nel conflitto tra la moltitudine che si faceva classe e il capitalismo, strappando diritti mediati dalla statualità nel confronto capitale-lavoro. Il Consorzio dei birocciai bolognesi, che a breve accorpò i muratori della via Emilia, è solo una delle tante microstorie di questo farsi corpo intermedio del movimento operaio. Il grande patto tra economia e società, il keynesismo economico, la società del welfare, certamente non avrebbero mai visto la luce senza i conflitti operai e rurali, ma neanche senza la capacità dei subalterni di darsi organismi indipendenti, partendo dai quali negoziare spazio e riconoscimento.
Dove va la cooperazione?
Le ingenti risorse tecnologiche, patrimoniali, cognitive, relazionali accumulate nei decenni dalle cooperative edilizie consorziate nel CCC sono un capitale che va allocato, anzi tutto in una prospettiva capace di tenere insieme nuovi obiettivi economici e sociali. Al di fuori di questo c’è solo il mimetismo verso i linguaggi e le culture dell’impresa non cooperativa. Non può dunque essere elusa la più ovvia delle questioni. Qual è la differenza, l’anomalia operante, il fattore distintivo dell’impresa cooperativa, nella crisi del capitalismo finanziario e globale? Quale narrazione di sé è in grado di sviluppare questo mondo che ha imparato – spesso molto bene – a utilizzare le leve del management e della finanza?
Lo scenario in cui situare questa riflessione è necessariamente la crisi del modello di accumulazione basato sulla spasmodica ricerca di cose da trasformare in titoli e scambiare nelle piazze finanziarie, dominante a partire dagli anni ’80 e ’90 del secolo scorso.
Dentro la crisi hanno preso forma nuove istanze radicali. Il 2011 sarà ricordato anche per i movimenti che, in Europa come negli USA e in America Latina, hanno posto radicalmente in discussione il paradigma dominante. Prima che alle sue parole d’ordine, è utile guardare al sottostante di questi movimenti. Che esprimono il malessere di giovani molto formati e poco occupati e più in generale della galassia dei lavori emersi dalla scomposizione del ciclo fordista e dalla ricomposizione terziaria delle produzioni urbane. E che, con qualche forzatura, possiamo immaginare come parte di una costellazione di nuovi “birocciai” del XXI secolo, all’opera nella produzione a ciclo continuo dell’infrastruttura creativa, comunicativa, cognitiva che alimenta il circuito della produzione immateriale. Nello spazio aperto dai movimenti trovano posto pratiche che sarebbe arbitrario ridurre a comune matrice ideologica. Certamente si ritrovano echi dei movimenti per la giustizia globale e climatica, ma anche idee mutuate dal paradigma della “decrescita”. Che per affermarsi nell’Italia dei distretti e delle piattaforme produttive richiederebbe probabilmente eserciti e deportazioni, ma che con la crisi ha riguadagnato visibilità.
Fra radicalismo e tecnocrazia può affermarsi lo spazio di un altro capitalismo possibile, ricomposto intorno all’asse della green economy? Il termine presenta non poche ambiguità, più scatola semantica che programma economico. Nel senso in cui la intendo, green economy è anzitutto capitalismo che incorpora il limite ambientale nel ciclo di accumulazione, che tiene insieme sobrietà dei consumi e rinnovate strategie keynesiane di investimenti pubblici. E’ bene su questo terreno non peccare d’ingenuità. Nel paradigma della finanziarizzazione green economy può significare anche “bolla speculativa”, nuovo sottostante che gonfia il valore di commodity alimentari, materie prime, terreni ove produrre energie rinnovabili, ambienti a emissione zero, enclave sostenibili. Come dimenticare che è stata l’esplosione del prezzo del pane il detonatore della rivolta nordafricana del 2011? Come non vedere i nessi tra nuove enclosures sui terreni agricoli e pressione demografica su metropoli, dove gli slum sono ormai volto speculare e inscindibile delle smart city? Green economy per noi significa guardare alla metamorfosi del capitalismo di territorio e alle forme dei lavori della città terziaria. L’etica “del capannone” persegue infatti un’idea insostenibile di futuro. E’ un’ipotesi che si fonda ormai sul consumo di territorio e sul dumping sociale, in una rincorsa senza speranza a standard di prezzo e produttività le cui leve sono oggi in mano ai leader emergenti nella competizione globale. Le nuove occasioni per produrre e creare mercato sono nella rottura o nel superamento del paradigma, dunque. Penso alle strategie di adattamento e riconversione delle piccole e medie imprese, all’efficienza energetica, alla compatibilità ambientali delle produzioni, dell’innovazione “leggera” dei processi produttivi e del design dei prodotti. E penso anche ai processi d’innovazione immanenti all’intelligenza sociale che abita la rete e i cluster conoscitivi, che generano nuove forme del vivere, dell’abitare, del fare società. Il cambiamento di paradigma non può infatti poggiare solo sullo spirito di adattamento e sulla creatività di imprese e professionisti. L’esigenza e l’opportunità di una diversa qualità del vivere deve essere incorporata in un disegno di società inclusiva, che presuppone un nuovo equilibrio tra politica, economia e società, sebbene occorra essere consapevoli del fatto che l’austerity non è ambiente favorevole all’implementazione di politiche green.
La green economy: un’occasione per le cooperative edilizie?
Come declinare la green economy dal punto di vista della cooperazione edilizia? Non spetta a me fornire indicazioni in materia, ma segnalo comunque due temi che mi sembrano di cruciale importanza.
Il primo. Scelte tecniche e produttive – quali investimenti, quali commesse, quali fornitori, quali tecnologie, ecc. – in questo inedito paradigma non possono essere considerate “neutre”, poiché incorporano una dimensione intrinsecamente “politica”. Oltre il paradigma sviluppista – del quale la finanziarizzazione ha costituito un prolungamento – il cosa, il come e per chi produrre divengono terreno di contesa e luoghi di composizione degli interessi e delle passioni. Esemplare, in questo senso, la vicenda del progetto di linea Alta Velocità Torino-Lyon, opera invisa alla maggioranza dei residenti della Valsusa, che testimonia della durezza che può assumere il conflitto tra le logiche dei flussi e la resistenza dei luoghi. Non si tratta di un esempio casuale. Il rilancio della cultura cooperativa come antidoto alle degenerazioni del capitalismo finanziario e come indispensabile tassello verso la costruzione di inedite forme di accumulazione capaci di incorporare la cultura della sostenibilità (che è sempre insieme ecologica, economica e sociale) non può che fare del radicamento nel territorio e della cura dei beni comuni due pilastri fondativi.
I cambiamenti produttivi, tecnologici, culturali che hanno trasformato alla radice le basi di funzionamento del capitalismo contemporaneo, trovano evidente riflesso nel mutamento che investe i modi dell’abitare, le funzioni urbane, il rapporto tra produzione, consumo e spazio fisico. In questo per molti versi inedito contesto, progettare e realizzare ambienti produttivi, luoghi della vita quotidiana, spazi pubblici, infrastrutture, è attività sempre più complessa che richiede la mobilitazione di kit cognitivi che attingono a molteplici sfere del sapere umano. In questo scenario le cooperative di costruzioni non possono rinunciare a inserirsi – come portatori di interessi, certo, ma anche come detentori di conoscenze di utilità collettiva – nei processi inerenti il disegno del territorio.
Secondo tema. Chi sono i nuovi birocciai? La Cooperazione (uso qui la C maiuscola) è interessata a fare coalizione con il blocco sociale emergente e le pratiche di nuovo mutualismo? L’immagine del coop capitalism lanciato da Noreena Hertz, più che alludere ad uno scenario futuribile, descrive in effetti già realtà e modi del funzionamento del capitalismo contemporaneo. Che è intrinsecamente cooperativo, traendo alimento dalle creazioni delle intelligenze sociali organizzate in forma di network. Cos’altro è Wikipedia se non la più grande cooperativa della conoscenza dei nostri tempi? Quali sono i success case economici di maggiore rilevanza globale, se non le imprese che mettono a valore, per citare Christian Marazzi, la folla e le forme di vita? Che “tirano le fila” di una cooperazione produttiva che non organizzano più, ma della quale raccolgono a valle i risultati?
Nella crisi dei sistemi di welfare e della produzione di servizi collettivi, in secondo luogo, prendono forma pratiche mutualistiche dal basso, raramente organizzate in impresa e non sempre efficienti, ma che testimoniano il diffuso bisogno di socialità, di scambio, di condivisione nella riproduzione delle vite quotidiane. Penso ai gruppi di acquisto solidale, ai micronidi, alle banche del tempo, ma anche a forme più molecolari e invisibili di autotutela a partire dai bisogni più elementari, dall’abitare al nutrirsi, dal curarsi allo spostarsi, e via di seguito. Anche in questi casi, la cooperazione è chiamata a posizionarsi: mettere la propria storia e le proprie competenze al servizio dei “nuovi birocciai” della produzione metropolitana e territoriale, o fare alleanze di potere per spartire i resti del welfare privatizzati e messi sul mercato? Aprire il dialogo e lo scambio culturale con la composizione sociale emergente che alimenta la cooperazione produttiva nei settori ad alta intensità di conoscenza, affettività, relazionalità, o restare nei consolidati recinti dei “legami forti” che ancora (ma per quanto?) strutturano l’accesso alle commesse che contano?
Tratto dall’Introduzione al Bilancio sociale, edito per la celebrazione del centenario del Consorzio Cooperative Costruzioni (CCC).