di Rossella Aprea –
C.S. si è laureata da pochi mesi in psicologia, avendo fatto tirocinio per anni presso un ospedale romano. Mi complimento con lei, non lo sapevo. Mi ringrazia, ma mi dice con estrema lucidità, e non senza una punta di rammarico, che tradisce quanto le sia costata questa decisione, che “il giorno stesso in cui mi sono laureata, ho detto addio alla psicologia. Forse non per sempre, ma per il momento sì”.
Le chiedo con stupore perché.
“Devo lavorare” soggiunge disincatata. “Ho trent’anni e non me la sento di chiedere ai miei genitori di sostenermi ancora. Li ringrazio perché mi hanno dato la possibilità in questi anni di fare gli studi che volevo, ma ora non me la sento più di chiedergli ancora aiuto. Non ci sono prospettive di impiego nel mio settore. Nell’ospedale dove ho fatto tirocinio solo il responsabile è un dipendente stabile, le altre otto persone, che reggono la struttura, sono tutte precarie con contratti annuali e alcune hanno anche più di quarantanni. Si parla di tagli nel nostro ospedale e la prima unità che verrà cancellata, probabilmente sarà la nostra. Non siamo indispensabili”.
Mi stupisco, mi domando come sia possibile non considerare indispensabile un servizio di psicologia oncologica come supporto alle famiglie e ai pazienti in un ospedale in cui prevalgono i malati oncologici.
“E’ così, purtroppo!”, sorride amaramente.
C.S. continua parlandomi con orgoglio del suo lavoro “Eppure è difficile abbandonare qualcosa per la quale hai studiato con passione e attraverso la quale ti sono arrivati tanti riscontri positivi dalle persone. Tante soddisfazioni. Capisci che è il tuo lavoro, che sei bravo, che potresti farlo bene, che le persone con le quali vieni in contatto apprezzano quello che fai, ma lo devi abbandonare.”
Ascolto in silenzio, non commento. Non saprei cosa aggiungere, è disillusa e dura la sua realtà.
Mi ripete sorridendo con la consapevole maturità di una persona adulta “Sono serena, non sono rassegnata. Cosa posso fare? Devo fare i conti con questa realtà.” Poi, prosegue come un fiume in piena, incontenibile, ha voglia di parlare e di raccontare la sua condizione e quella di tante persone come lei. “Nelle strutture pubbliche non c’è più posto per noi psicologi ormai. In base alla legge attuale per il mondo del lavoro ogni cinque dipendenti che vanno in pensione, ne viene assunto uno. Siamo stati cancellati dalle ASL. E anche nelle scuole non c’è più spazio per noi. Non possiamo più insegnare, neanche negli istituti psicopedagogici, perchè è richiesto un percorso di studi che includa esami di filosofia e sociologia, che non sono previsti nel corso di laurea obbligatorio. Quando ho iniziato non c’era questo scenario catastrofico. Avevo delle possibilità di inserimento. Con il passare del tempo le opportunità si sono ridotte sempre di più e se anche volessi esercitare la libera professione, dovrei proseguire gli studi per altri quattro anni. Il problema è che nelle università pubbliche l’accesso a questo corso di studi è praticamente impossibile. Il numero è estremamente ristretto, per pochi privilegiati. Frequentare le scuole di specializzazione private è troppo costoso e ora non voglio rimandare oltre la mia autonomia economica. Lavorerò. Qualunque lavoro a questo punto, e poi se riuscirò a mantenermi e potrò permettermelo continuerò gli studi in psicologia.”
La guardo perplessa e così aggiunge “Certo, sarà difficile. Ci vorrà tempo e molti soldi e poi perderò i contatti con questa realtà, quando si esce da un determinato mondo è difficile rientrarci dopo tanto tempo.” Sa già tutto. Perfettamente.
Le chiedo che tipo di lavoro cerca, ribadisce “Qualunque, purchè dignitoso”. Rifiuta solo l’idea di finire in un call center, perché non ci sarebbero prospettive di alcun genere.
Con forza mi dice “Adesso io non sono nemmeno una precaria. Al posto fisso non penso neanche lontanamente e per quelli della mia generazione è così. Io sono un’aspirante precaria. Questa è la nostra condizione: aspirare a diventare precari. Il messaggio che arriva alla gente sul precariato è diverso dalla realtà. Sembra che i precari siano il primo gradino verso una futura realizzazione lavorativa. Invece, esiste un gradino inferiore, quasi a livello strada, che non si vede ma in cui inciampi. Ecco questi sono gli aspiranti precari, persone preparate, formate e spesso laureate che lavorano gratis in attesa del loro turno da precari che non si sa se mai arriverà. Per questo io sono un’aspirante precaria”. Lo ripete più volte, spera che io abbia capito cosa significa per lei e per quelli come lei. Sentirlo mi raggela, ma è la realtà.
E continua “Per noi il fine del lavoro non è la realizzazione personale, ma lo stipendio. Il miglior lavoro in queste condizioni è quello che ti garantisce più soldi, ma anche condizioni che si conciliano meglio con la tua vita personale”. Ascolto, e capisco che il mondo, i valori, le aspirazioni si sono capovolte per loro. Mi parla ancora di una “cultura che serve solo per pensare, ma non più per lavorare. Per questo bisogna tornare ai mestieri. Per la cultura non c’è spazio e non la incoraggiano, perché fa paura”.
Le domando perché non reagiscono, perché non protestano, perché non fanno sentire la loro voce. “E chi ci ascolta? Abbiamo protestato fino a pochi mesi fa. Abbiamo scioperato, disertando le lezioni. E sai qual è stata la conclusione, che abbiamo fatto solo una cortesia al sistema, e i professori sono stati pagati lo stesso. Chi abbiamo danneggiato? Noi stessi. Che vantaggio ne abbiamo tratto? Nessuno.”
Sono soli e lo sanno.
Le dico incalzandola “Ma dovete lottare per il vostro futuro. Avete diritto alla speranza, a migliorare la vostra condizione.”
Mi risponde con amaro disincanto “Per lottare devi avere coraggio e noi abbiamo paura. Paura di perdere anche quel poco che abbiamo.”
Io insisto, non posso credere che si rassegnino, non è giusto e le dico “Ma le cose possono cambiare.”
Con schiettezza mi risponde “Ci hanno resi deboli, perché ci hanno resi soli. Sono stati bravi a infilarci nella testa che questo è il sistema. Ormai ognuno pensa per sé. Gli altri non vedono la nostra condizione. Non si accorgono di noi. Ciascuno guarda solo a sé stesso, non riesce a vedere il resto, perché non c’è più tempo e non ci sono più occasioni di incontrare gli altri, di parlarsi, di avere degli scambi reciproci. Sin da piccoli comincia questa operazione di isolamento, di indifferenza. Vedi anche alla base di un certo razzismo, c’è questa situazione. Quando dicono che i giovani non vogliono fare certi lavori, che, invece, accettano gli extracomunitari, non è vero. La verità è che gli extracomunitari sono disposti a lavorare a prezzi bassissimi e questo non favorisce l’integrazione. Ogni lavoro dovrebbe avere una retribuzione minima garantita ed evitare questo gioco al ribasso che alimenta una guerra tra poveri ed aumenta gradualmente la povertà”.
Tocchiamo anche altri temi sociali scottanti, e mi lascia intendere che il razzismo ha radici anche nel conflitto economico.
Improvvisamente, poi, si illumina e mi spiazza ” Non ti ho detto che mi sposo tra qualche mese?”. Mi illumino anch’io e mi si allarga il cuore, una notizia lieta in uno scenario difficile e doloroso.
Io penso subito ai problemi economici, alle difficoltà che incontreranno. “Il tuo futuro marito lavora?” le chiedo timidamente.
Mi risponde “Per altri quattro mesi, sì, poi chissà”. Vede dipinta una domanda sul mio viso, che non oso farle e aggiunge “Quello che conta per me ora è la mia vita personale. Mi sposo come se fossi in tempo di guerra.”
Senza certezze vuol dire, ma vuole farlo, perché la vita va avanti e deve andare avanti per lei. C.S. vuole avere un futuro a tutti i costi, realizzandosi almeno sul piano personale, visto che quello professionale le viene negato. Le auguro silenziosamente di farcela e so che ce la farà. Ha carattere e sufficiente maturità, anche se affronterà la vita con amaro disincanto, ma non è questa la dote che avremmo dovuto lasciare ai nostri figli per il loro futuro. E questa responsabilità deve pesare sulle nostre coscienze.