Solo non fa rima con solitudine
di Pierluigi Musarò –
Vivere soli appare una condizione diffusa nelle societá affluenti, di cui poco o nulla si parla, se non per lamentare il declino della partecipazione collettiva alla vita pubblica, o addirittura il degrado morale di una collettivitá di individui ormai incapaci di fare societá.
Penso a una serie di libri che negli ultimi anni hanno toccato l’argomento – La cultura del narcismo di Lasch, La folla solitaria di Riesman, Bowling Alone di Putnam, o Il declino dell’uomo pubblico di Sennet – e a come essi abbiano imputato molti dei problemi contemporanei al crescente individualismo narcisista. E penso che al di lá del giudizio di valore, oggi vivere soli – non condividendo il tetto con amici, partner o familiari – rappresenti un fenomeno in crescita esponenziale che spesso ci troviamo ad esperire come un fatto privato: noi soli alle prese con le bollette da pagare e i panni da lavare, nelle notti silenti di fronte a schermi accesi. Un fenomeno che finalmente la sociologia ha iniziato a comprendere come un fatto sociale di pubblica importanza, un cambiamento della societá, con cause e conseguenze che riguardano diversi ambiti: dalle relazioni interpersonali alle politiche abitative, dal rapporto che intratteniamo con la tecnologia o la professione alle politiche di welfare. Per scoprire, magari, che oggi viviamo soli, ma non in isolamento: questo sembra essere il messaggio di fondo del nuovo libro del sociologo americano Eric Klinenberg, Going Solo. The Extraordinary Rise and Surprising Appeal of Living Alone, da poco pubblicato in America per la Penguin Books.
La ricerca sociologica su cui si basa il libro di Klinenberg ha inizio dopo una terribile ondata di caldo a Chicago, durante la quale centinaia di persone morirono sole, un segnale di vulnerabilità diffusa che il sociologo ha descritto nel precedente libro Heat Wave: A Social Autopsy of Disaster in Chicago (2003). L’analisi delle cause di quel disastro ha portato l’autore ad analizzare archivi storici e statistiche, ricerche sociologiche e di mercato, e ad intervistare, nell’arco di sette anni, più di trecento persone di diversa etá e nazionalitá che vivono sole, per scoprire che il numero dei «singletons» è cresciuto esponenzialmente, sino a diventare una realtà consolidata, soprattutto nelle grandi città degli Usa. Prima tra tutte New York City, dove un milione di persone vivono sole, con punte di oltre il 50% in Manhattan. Ma anche Seattle, San Francisco, Denver, Philadelphia, Washington D.C., Chicago, dove la percentuale delle persone che vivono sole si aggira tra il 35% e il 45% dei residenti. Per capire la portata rivoluzionaria di questo cambiamento, basti pensare che nel 1950 erano circa 4 milioni gli americani che vivevano soli, poco meno del 10% di tutti i nuclei familiari. Oggi se ne contano più di 32 milioni, che corrispondono al 28% di tutte le famiglie americane.
L’analisi sociologica di Klinenberg, basata sulle interviste a «singletons» (categoria che include sia singles che vivono soli, sia gente di entrambi i sessi che vive sola ma non è necessariamente single), si situa dapprima all’interno dei sentimenti delle persone intervistate per cogliere i significati che esse attribuiscono alle loro azioni (living alone, appunto), per poi ricondurne la scelta all’interno del contesto più ampio nel quale è inserita, poichè è proprio quel contesto a conferire ad essa un certo significato. Ed il contesto è quello tipico delle societá affluenti, caratterizzate da accresciuta possibilità finanziaria e maggiore libertà individuale, ma anche da un moderno sistema di welfare, e da specifici fattori che hanno favorito quello che giá Durkheim aveva definito il «culto dell’individuo». Tra gli elementi principali che Klinenberg individua alla base di questa svolta epocale: l’emancipazione delle donne, la rivoluzione comunicativa, l’urbanizzazione e la longevitá.
Going Solo si riferisce dunque al più grande cambiamento demografico dopo il baby boom. Un cambiamento globale, che non riguarda meramente la societá americana: se Giappone, Australia, Canada, Germania, Francia e Gran Bretagna condividono le stesse statistiche degli Stati Uniti; Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca, vedono addirittura il 40-45% di tutte le famiglie composte da una sola persona. Il che fa pensare che investendo sul welfare sociale e sulle reti di sussidiarietá – dall’housing sociale al sistema d’assistenza all’anziano solo – gli scandinavi siano riusciti a liberare se stessi, legittimando il vivere per conto proprio. O forse, semplicemente, che c’è un sorprendente fascino nel vivere soli legato anche alle maggior probabilità, rispetto alle persone sposate, di socializzare con amici e vicini, di avere una vita pubblica a contatto con persone al di fuori della propria cerchia sociale, di svolgere attività di volontariato.
Un ultimo punto di rilevante interesse: tra i luoghi comuni che il libro smantella, il fatto che la progressiva affermazione della «singleton society» non coincide con il collasso della «American community», come denunciato in altre chiavi di lettura nostalgica. Klinenberg denuncia che gli americani sono attratti da argomenti simili proprio perchè sono ancora «a nation of joiners»: ovvero, hanno un forte spirito civico-associativo, come evidenziava De Tocqueville quasi due secoli or sono. Alla provocativa metafora di Putnam, Klinenberg risponde che «nessuno gioca davvero a bowling da solo». Al contrario, gli americani continuano a giocare insieme, ma con gli amici, e gli amici degli amici, che fanno parte dei loro social network, delle reti informali, piuttosto che in squadre ufficiali o gruppi organizzati.
Credo si tratti di una distinzione che non solo segue il filone di studi sulla nuova “partecipazione” civica inclusiva e non ideologica, individualizzata, spontanea, aperta e improntata all’orizzontalità (come prima Hirschman e poi Castells e Beck hanno in più occasioni affermato); ma che si situa nel contesto diverso rispetto all’anno di pubblicazione del libro di Putnam. Nel 2000 infatti, studiosi, esperti e policy makers erano preoccupati dal fatto che le famiglie guardavano la tv insieme nelle loro case, piuttosto che interagire con gli altri nella sfera pubblica. Oggi assistiamo ad un fenomeno ben diverso: le nuove opportunità offerte dalla telefonia mobile, dai social network e da tutte le tecnologie orizzontali di «auto-comunicazione di massa» (self-mass communication, come la definisce Castells), piuttosto che l’isolamento, producono iperconnessione, un nostro essere sempre performativi nelle attivitá online. Poco importa che l’uso smodato e compulsivo delle nuove forme di comunicazione produca cerchie autoreferenziali di narcisisti digitali assorbiti nel presente (come denuncia da tempo Bauman), o individui vulnerabili e impauriti dall’intimità, che vivono nell’illusione di una compagnia senza tutti gli obblighi imposti dall’amicizia (come scrive Sherry Turkle in Insieme ma soli). Quel che all’analisi di Klinenberg interessa è capire come e perchè oggi scegliamo di vivere da soli. Perchè appunto? In primis, perché ce lo possiamo permettere. Poi perché a differenza del passato lo consideriamo un segno di distinzione e non di fallimento sociale. E magari anche per proteggere se stessi da questa immersione sfiancante nelle relazioni on e offline, amplificata dalla sovrastimolazione della vita urbana. Il che apre un’altra prospettiva sul nostro rapporto con la casa: non piu’ e non tanto il luogo dell’alienazione televisiva e consumistica, quanto una sorta di santuario della solitudine, dove ci si puờ finalmente rilassare e dedicare a se stessi.