Il quinto stato degli emarginati da decodificare

Apolidi, indipendenti, migranti

 

Emerge la crisi del cosmopolitismo umanitario e il modo di percepirci come comunità. Dal mutualismo al coworking fino all’esperienza di Olivetti, i riferimenti necessari a definire la nuova realtà del Quinto Stato

La tragedia di Lampedusa chiede sospensione ai microcosmi che parlano solo di imprese e territori.
Anche se la resilienza dell’isola di Lampedusa merita di essere raccontata come caso emblematico di capacità di adattarsi e lottare in solitudine di fronte all’evento epocale delle migrazioni

dei “dannati della terra”. Che non sono solo i migranti nel mercato del lavoro globale, ma richiedenti asilo, come ha evidenziato il Presidente della Repubblica.

Una moltitudine di apolidi prodotti dalla geopolitica e dalla geoeconomia globale. Che scardina i cosmopolitismi del 900. Da quello degli stati-nazione, in transizione verso un’Europa che non c’è, a quello di classe, proletari di tutto il mondo unitevi, che si rovescia spesso nel suo opposto: il conflitto tra gli ultimi. Sino al fallimento di quello liberista della globalizzazione soft che ha liberalizzato la circolazione delle merci che si fa hard a fronte della circolazione degli uomini. Si sente solo la voce del cosmopolitismo religioso che fa riferimento all’uomo ed urla VERGOGNA. Gad Lerner, su Repubblica, ha scritto che la crisi del cosmopolitismo umanitario ci riporta ad interrogarci sul nostro percepirci come comunità di uomini.

Le migrazioni nel mercato del lavoro globale e quelle dei dannati della terra, che diventano apolidi, sono la nostra comunità di destino che, partendo dall’umanità condivisa, rovescia la comunità di destino del 900 basata sulla fissità escludente e selettiva del sangue e del suolo. Tant’è che siamo ancora qui a confrontarci aspramente sulle leggi sull’immigrazione ispirate ai principi del sangue o del suolo. Mi aiuta ad andare oltre un libro scritto da due giovani, Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, uno ricercatore sociale e l’altro filosofo, che, forse perché immersi praticamente nella comunità che viene, delineano un quinto stato (è anche il titolo del libro, pubblicato da Ponte alle Grazie) composto nel nostro paese da 8 milioni di apolidi italiani, a cui non sono riconosciuti i diritti sociali fondamentali, a cui loro aggiungono 5 milioni di cittadini stranieri che subiscono l’esclusione dai diritti di cittadinanza.

Tesi radicale che, partendo dall’analisi della composizione sociale, mette assieme le molteplici forme del lavoro indipendente, non senza coglierne le differenze di senso e di reddito, scavando nelle partite Iva dei precari dei capitalisti molecolari dei lavoratori della conoscenza dei creativi che lavorano comunicando sino ai makers, con i lavori servili o sotto il giogo del caporalato e del badantato dei migranti che, anche loro, quando ci riescono fanno imprese commerciali o di servizio. Siamo tutti “topi nel formaggio”, si sostiene nel libro, in aperta polemica con le tesi novecentesche sulle classi sociali di Sylos Labini. Gli si addebita questa definizione dispregiativa «del lavoro indipendente che non rientrava nel modello produttivo della grande fabbrica, in quello del lavoro salariato…». Anche rispetto alle sue tesi sul ceto medio, allora affluente, se ne analizza freddamente oggi il rischio del suo precipitare nel quinto stato.

A nessuno sfuggirà che negli ultimi vent’anni anche i migranti tante volte sono stati accusati di essere
“topi” che si insinuano nel formaggio della nostra opulenza. Nel mettere assieme pezzi di noi e pezzi di loro Allegri e Ciccarelli vanno oltre nel capitolo dedicato ai neet, i due milioni di giovani che né studiano e né lavorano. Sono definiti proletaroidi che alimenteranno, come tanti migranti, economia informale, lavoro nero e sommerso.

È un libro scomodo che non piacerà alle rappresentanze ufficiali del lavoro e dell’impresa. Nemmeno alla politica, irrisa nel suo tentativo di riferirsi al lavoro indipendente del leghismo e berlusconismo verso i capitalisti molecolari, del veltronismo verso i creativi e infine del grillismo con la sua community dei virtuali. Che interroga sull’attualità dell’inattualità delle forme dei lavori del quinto stato ove riemergono le forme estreme della schiavitù, del lavoro servile, delle gilde e delle corporazioni dei mestieri, oggi si direbbero professioni, e infine appare il lavoro salariato, normato, a vita molto rappresentato e sempre più in estinzione.

Non è un caso che i riferimenti teorici e letterari presenti nel libro non pescano nella cultura e nell’ideologia del 900. Si parte dall’Inghilterra del 600 e si arriva alla Comune di Parigi del 1871, scavando nell’Europa che bandiva i poveri e i senza fissa dimora e nel marxismo allergico al lumpenproletariat, per arrivare a Istanbul e al Brasile di oggi e a Occupy wall street. Proponendo per il quinto stato e per la comunità che viene parole chiave che, al di là dell’inglese, sembrano prese da un manuale di buone pratiche della Caritas o dalle pubblicazioni delle prime cooperative o leghe nate tra l’800 e il 900: il mutualismo, la cooperazione, il coop capitalism, il crowd funding, il coworking, le sharing economies, l’housing sociale, la community organizing, i makers. Con in più un solido riferimento all’esperienza di comunità di Adriano Olivetti.

Parole dolci, a conclusione di tanta radicalità di analisi, se le leggiamo con le ideologie del 900. Forse sono le uniche parole per riconoscere e riconoscersi nella comunità di destino degli apolidi senza nome morti a Lampedusa.

Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2013