Quarant’anni di condizionamento televisivo nella lettura di Freccero
di Angelo Ariemma –
Con l’introduzione del digitale terrestre e delle pay TV, la televisione sta vivendo una trasformazione epocale. Anche il modo di guardare la TV sta cambiando rapidamente. Non è più il tempo dell’utente passivo: il pubblico cerca sempre di più un prodotto su misura, che spesso paga, in un certo senso confezionando da sé il palinsesto che preferisce. La televisione continua a insinuarsi nelle nostre vite private a plasmare i nostri comportamenti, a condizionare la coscienza politica di un intero paese.
Schietta e impietosa disamina della storia di questi 40 anni, dei quali nulla si può capire se non si fa centro su quello che la televisione ha rappresentato per l’intero sviluppo socio-culturale del paese: “la televisione ha avuto un ruolo centrale nel plasmare la coscienza politica delle persone e per formare la nostra opinione pubblica. Non tanto per i contenuti (…) quanto perché un concetto di maggioranza come democrazia, maggioranza come verità, maggioranza come bene sociale, ha preso il sopravvento su quei concetti illuministici e moderni, che vedevano nella tutela dei diritti delle minoranze la vera missione della democrazia, nella divisione dei poteri la garanzia essenziale contro il totalitarismo, nella ricerca della verità, anche in contrapposizione all’opinione più diffusa, una necessità e un dovere” (p. 11-12).
Siamo ad apertura di libro e già entriamo nel clima del discorso, ormai divenuto attuale e stringente, che contrappone il moderno, come quella visione razionale e illuminista che nel pensiero che cerca la verità trova la sua ragion d’essere, e il postmoderno, il quale ha preteso di spazzare via questi concetti, accusati di essere borghesi e repressivi, in favore di una supposta libertà del pensiero laterale, che invece ci ha portato a non saper più distinguere i dati dalle opinioni, e a dover dare ragione a colui che sa alzare la voce più forte, “e attribuiamo al concetto di maggioranza e non di verità, un valore essenziale” (p. 14).
Eccoci quindi a una storia sociale della televisione. La televisione pedagogica della RAI pubblica con un solo canale, che ha cercato finalmente di unificare il paese, nella sua lingua, insegnata, attraverso il video, ai tanti rimasti ancora analfabeti; nella sua cultura, con gli sceneggiati tratti dai grandi romanzi italiani ed europei, e il teatro di Pirandello e di Eduardo, e il melodramma, allestito appositamente negli studi televisivi, e gli show, che presentavano il meglio di quanto l’arte attoriale e canora producessero. Una dimensione che ha sempre distinto la televisione europea da quella americana, da subito nata come televisione commerciale; ora però, e soprattutto in Italia, “l’aspetto più evidente della televisione generalista di oggi è il suo interesse ossessivo per la futilità del quotidiano, l’abbandono totale dell’informazione a favore del gossip: in breve, il suo passaggio dalla dimensione pubblica alla dimensione privata” (p. 23).
La fase di passaggio è stata rappresentata dall’apertura del mercato televisivo. Sostanziale è la parola mercato: un prodotto culturale è stato commercializzato, ed è divenuto funzionale a quel sistema economico liberista che dagli anni ottanta si è affermato come pensiero unico nel mondo. Illusoria è stata l’idea che il concetto predominante fosse quello di libertà: alla fine degli anni settanta sono nate le televisioni “libere”, ma subito si è visto che la loro controinformazione non ha fatto altro che dare voce a miriadi di imbonitori di vario genere (il web sta percorrendo lo stesso solco? ai posteri l’ardua sentenza!); finché il grosso della torta è stato fagocitato da chi aveva i mezzi economici e gli appoggi politici per appropriarsene, e divenire un grande monopolista, in barba alle sentenze della Corte costituzionale, del mercato concorrenziale, e della libertà.
Il liberismo economico rompe la centralità della produzione e del lavoro, per puntare tutto sui consumi: l’individuo diventa un consumatore, estraneo alle logiche del gruppo-classe, invece pienamente integrato nella maggioranza omologata, dall’alto al basso, dagli stessi identici consumi, che la televisione, e la pubblicità che la condiziona, trasformano in valori. E la tv verità, che prende piede dopo la caduta del muro di Berlino e l’inchiesta mani pulite, piano piano si trasforma nel talk show, nell’inutile vaniloquio di politici e non, che possono dire tutto e il contrario di tutto, senza preoccuparsi di smentite o contraddittori, comunque vanificati in quell’unica melassa televisiva. “In questo modo l’istanza di rinnovamento espressa dalla maggioranza del paese viene strumentalizzata per conseguire il risultato opposto. Sul modello dell’audience e della maggioranza è costruito anche il populismo politico berlusconiano” (p. 67).
Si arriva quindi al reality. La televisione diventa autoreferenziale: non guarda più al mondo esterno, guarda a se stessa, l’unica realtà “vera” è quella che appare in televisione, e l’individuo perde la dimensione dell’essere, la dimensione del limite, e sogna di poter anche lui “apparire” in tv e svoltare la propria esistenza. L’argomentazione di Freccero ha già trovato anche le sue icastiche rappresentazioni nei film Videocrazy e Reality, che mostrano proprio come il sogno di “apparire” distrugga infine l’esistenza delle persone. Fino alla distruzione del pensiero “politico”: ormai “la politica non parla alla ragione, ma all’emotività. Non richiede un processo di comprensione, ma di identificazione. Il politico si trova a svolgere un ruolo di star, condiviso con altri figuranti del mondo dello spettacolo” (p. 86), e ogni possibilità di autonomia critica si perde tra le urla che caratterizzano i talk show.
A questo punto tutta una serie di riflessioni rimbalzano, nel libro di Freccero, dal pensiero postmoderno alla televisione come si è infine strutturata per influenzare quel pensiero e le nostre coscienze: la notizia si consuma rapidamente e non viene approfondita; sono “reali” solamente le notizie di cui parla la tv, e chi ne detiene i meccanismi determina anche le priorità di quello di cui si discute e di quello che “deve” essere percepito come fondamentale; alla verità, al sapere, si sostituiscono l’opinione e il sondaggio, questi determinano il discorso politico, questi rendono l’uomo politico non più portatore di valori “convincenti”, ma succube a sua volta dell’opinione della maggioranza, a cui tutti si adeguano, una volta che è stata “formata” da chi gestisce la “verità” televisiva; si perde la dimensione storica, e chi perde il passato perde anche il futuro, e si finisce col vivere in questo eterno presente privo di senso. Tutto questo non può non incidere sul modello di democrazia, che si svuota dei suoi valori dialettici; tutto questo è stato determinato dalla televisione e da chi ha “saputo” impossessarsene, a dispetto di chi ieri ne ha sottovalutato le potenzialità, e di chi oggi sogna il grande balzo nella rete; ma la rete come tale non esiste: i dibattiti e i modelli della rete sono quelli proposti dall’agenda televisiva.
A proposito della caduta del muro di Berlino: “Ho sempre pensato che la spinta decisiva a scavalcare il muro e poi ad abbatterlo, fosse costituita per i cittadini dell’Est non tanto dal desiderio di libertà, quanto dall’avvento della televisione commerciale. Il muro separava fisicamente e materialmente due modelli di vita. Da un lato il modello comunista in cui erano garantiti i bisogni essenziali, ma non c’era possibilità di accedere al superfluo, dall’altro il liberismo occidentale in cui il minimo non è garantito, ma in cui tutti possono aspirare al massimo dei consumi” (p. 126). Confessiamo di averlo sempre pensato anche noi (da vedere a questo proposito il film Goodbye Lenin). Da qui Freccero prende le mosse per riproporre il senso del servizio pubblico televisivo, ma con coordinate completamente diverse da quelle che hanno caratterizzato la tv pedagogica. Nel cambiamento epocale che attraversiamo, in cui i media sono diversi e più fruibili, in cui i nativi digitali probabilmente stanno sviluppando una capacita di elaborazione mentale completamente diversa, il servizio pubblico deve divertire, con i telefilm seriali che intrecciano più storie e costringono lo spettatore alla concentrazione; educare, in ogni spazio, non con programmi appositi trasmessi in orari impossibili; informare, realmente su quanto avviene nel mondo, non guardandosi il proprio ombelico televisivo. Qui però dobbiamo confessare di non condividere totalmente questa visione ottimistica sulla quale il libro si chiude. Forse siamo più scettici, o semplicemente più “vecchi”, ma ci sembra di vivere in un grande paradosso: in un mondo molto più complesso di quello conosciuto dai nostri padri, ci siamo dotati di strumenti di analisi inadeguati alla complessità, come i pochi caratteri di un tweet: come milioni di cinguettii non fanno una sinfonia, così milioni di tweet non elaborano un pensiero di verità e di libertà!
Carlo Freccero, Televisione, Torino, Bollati Boringhieri, 2013.