La rappresentanza nuovo banco di prova per la competitività
di Aldo Bonomi –
In tempi di elezioni scompare la società di mezzo. Nel ‘900 era cinghia di trasmissione con la politica in una dimensione di grandi patti sociali che tenevano assieme interessi e passioni. Oggi sembra bypassata in un rapporto diretto tra leader e popolo. Senza rendersi conto che invece uno dei temi grandi in discussione è proprio la rappresentanza.
Sotto le macerie di una classe politica senza più baricentri credibili, sindacati del lavoro, artigiani, commercianti, cooperazione, corporazioni professionali vecchie e nuove, piaccia o non piaccia, costituiscono ancora fondamentali corpi sociali intermedi. Il cui ruolo è stato messo tra parentesi in questo anno di governo emergenziale, ma la cui capacità di trasformazione rimane vitale per il paese. Se l’inizio della crisi ha visto il coordinarsi delle rappresentanze del capitalismo dei piccoli per fare lobby sulla politica (Rete Imprese Italia), ho l’impressione che il 2013 sarà l’anno in cui sarà il modo stesso di fare rappresentanza, i suoi contenuti e le sue forme organizzative, a dover essere ridiscusso. Perché il ciclo espansivo del capitalismo molecolare e del lavoro flessibile come camera di espansione dell’occupazione è terminato: lo scoppio della bolla finanziaria ne ha inceppato i due motori principali, il credito e i consumi.
Sul fronte di artigiani e piccoli imprenditori una ricerca che ho condotto per Cna in tutto il paese mostra come l’ipotesi schumpeteriana della distruzione creatrice e la sostituzione della manifattura con i servizi non siano in grado, perlomeno in questa fase, di mantenere i livelli occupazionali. Sia perché le attività terziarie sono più polverizzate, sia perché l’asfissia della domanda interna ne limita l’espansione. La crisi polarizza il corpo sociale della piccola impresa tra un 74% di imprese “trivella” rinserrate nel locale e un 9% di imprese “molla”, piccole multinazionali tascabili che hanno fatto il salto all’export pur mantenendosi legate al territorio. Per il 68% delle imprese molecolari (uno o due addetti) il fatturato è calato e per molti di loro la prospettiva è la selezione darwiniana. Il 78,9% prevede un peggioramento della crisi sul piano nazionale, il 71,3% sul piano regionale e solo sul resto dell’Europa il pessimismo si stempera (55,9%). Non stupisce che oggi la natalità delle imprese sia ai minimi.
Uno scenario che accresce le responsabilità della rappresentanza: il 35% dei piccoli imprenditori indica nelle altre imprese e nelle associazioni di categoria i partner dello sviluppo. Rimossi dall’orizzonte invece gli altri due soggetti storici del vecchio localismo produttivo, il Sindaco imprenditore (13,3%) e il credito (16,9%). Che cosa si chiede alle rappresentanze? Non solo lotta alla pressione fiscale ma più in generale l’uscita dal modello del “grande commercialista” in una duplice direzione: servizi di nuova generazione per lo sviluppo e, novità nella crisi, più identità da classi medie produttive, più comunità e “battaglia”. Non sono tempi da gestire con la normalità della routine. Ne troviamo traccia nelle 61 tesi “per la nuova Cna” con cui l’organizzazione sta pensando di riformulare la propria struttura territoriale per seguire una domanda di servizi avanzati che fuoriesce dai confini del localismo.
Ma l’iceberg della rappresentanza non è in movimento solo sul fronte del capitalismo dei piccoli. Potrebbe sembrare strano mettere assieme chi rappresenta il ceto dei “padroncini” e del lavoro autonomo con il sindacato ma è proprio sul fronte del lavoro che fa più problema la nuova composizione sociale dell’economia dei servizi. Il maggiore sindacato italiano, la Cgil, in un libro dedicato ai propri quadri su come cambia la contrattazione intitolato “In-flessibili” con il trattino che rompe simbolicamente l’idea del lavoro inflessibile, sembra voler allargare la rappresentanza a precari e partite Iva. Con una “nuova generazione contrattuale” che assuma l’irriducibilità delle forme dei lavori: dipendente, autonomo e precario. Da tutelare in quanto tali ammettendo la possibilità che un lavoratore autonomo possa essere titolare di diritti pur volendo restare tale ed essendo portatore di una soggettività differente da quella del lavoratore dipendente.
Ha ragione Sergio Bologna quando scrive che si tratta di una (potenziale) svolta culturale non da poco: i diritti si slegano dalla forma fordista del lavoro per legarsi alla persona del lavoratore in quanto tale. La forma corporativa della rappresentanza può trasformarsi in un sindacalismo universalista. Con il corollario della proposta di rappresentanze sindacali uniche per dipendenti, “atipici” e partite Iva. Significa rappresentare il lavoro prendendo atto dell’irriducibilità della sua frammentazione ricostruendone i legami nell’orizzontalità di filiere e sistemi produttivi più che attraverso la verticalità delle categorie.
È la presa d’atto che un sindacato non tiene come attore generale dentro la terziarizzazione se si limita a rappresentare solo il 19% dei lavoratori attivi chiudendosi nel fortino del lavoro stabilizzato. Una sfida anche per il mondo datoriale. Al centro è il riconoscimento dell’emergere, dentro la crisi, di un “Quinto Stato” del lavoro postfordista oscillante tra individualismo e bisogno di cooperazione. Una composizione sociale che nella sua duplice articolazione della partita Iva e del precario metropolitano oggi tende a trovare rappresentazione fuori e contro la macchina rappresentativa nel riapparire di una voglia di democrazia diretta senza mediazioni. È utile che le organizzazioni del ‘900 imparino a parlarsi nel cambiamento. Perché altrimenti il rischio che l’intera società di mezzo venga considerata come casta e Ancien régime di cui scrollarsi di dosso il peso non sarebbe lontano.
Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 ore, 17 febbraio 2013