Un caso di crisi del modello di governo delle regioni rosse
di Carlo Trigilia –
La vicenda del Monte dei Paschi di Siena solleva certamente interrogativi inquietanti sulla governance del nostro sistema bancario e sull’efficacia dei meccanismi di controllo e di sorveglianza. Ma getta anche un’ombra pesante sul funzionamento degli enti locali coinvolti e, soprattutto, sul tanto decantato modello delle amministrazioni rosse.
L’intricata vicenda del Monte dei Paschi di Siena ha fatto pesantemente irruzione nella campagna elettorale ed è probabile che ne sentiremo ancora parlare. In attesa che si accertino le responsabilità, alcuni dati di fatto sono evidenti. Una banca importante – la terza a livello nazionale – ha fatto scelte sbagliate ed è stata mal gestita da chi ne detiene il controllo e designa gli amministratori, cioè la Fondazione Monte dei Paschi a sua volta controllata dagli enti locali (Comune e Provincia). Ciò solleva il tema rilevante del rapporto tra banche e fondazioni, ma qui vogliamo occuparci di un altro aspetto. Ci troviamo evidentemente in presenza di un caso emblematico di cattivo funzionamento delle istituzioni locali nel cuore delle zone rosse. Non si tratta peraltro di un caso isolato. Scandali e inefficienze hanno da tempo appannato il modello del buon governo delle regioni rosse affermatosi nei primi decenni dell’Italia repubblicana. Si è indebolita la sua capacità di offrire risposte innovative ai problemi economici e sociali, e anche di porsi come punto di riferimento a livello nazionale. È dentro questa più ampia vicenda che si colloca la questione del Monte dei Paschi. Ma come si è determinato questo cambiamento?
Nelle regioni rosse – come in altre aree del Centro Nord – vi erano delle tradizioni non erose di saper fare diffuso, ma anche di fiducia e di cultura civica (su cui aveva attirato l’attenzione proprio vent’anni fa Robert Putnam). Queste risorse hanno permesso di sperimentare il modello di produzione flessibile dei distretti industriali, nel momento in cui si sono manifestati i grandi cambiamenti dei mercati verso beni meno standardizzati e di qualità. La specificità delle zone rosse ha riguardato la governance dello sviluppo. Un solido compromesso sociale basato su sindacati forti ma cooperativi. Governi locali capaci di assecondare lo sviluppo di piccola impresa con servizi sociali diffusi ed efficaci – a lungo all’avanguardia nel Welfare italiano – e con servizi alle imprese rilevanti (non solo le aree industriali, ma i centri di servizio, le attività formative, il sostegno all’export ecc.). Insomma, dietro lo strano sviluppo delle regioni rosse, che tanto incuriosiva gli osservatori stranieri, c’era una tradizione politica che sperimentava nuove strade anche rispetto al modello socialdemocratico classico. Infatti, mentre si allontanava lentamente dai vecchi miti ideologici del comunismo, si muoveva in direzione di un riformismo capace di coniugare pragmaticamente flessibilità e dinamismo economico, coesione sociale e qualità della vita. Perché negli ultimi anni quest’esperienza ha perso le sue capacità originarie?
Dietro ai successi del passato c’era una rappresentanza politica monopolistica, quella del Pci, con una debole opposizione. Ma la tradizione politica comunista, se ha coltivato troppo a lungo i vecchi miti, faceva però sì che i politici venissero più scelti e valutati sulla base della loro capacità di dare risposte a problemi collettivi concreti. Il vecchio partito di massa era il tramite di questo processo di selezione e valutazione della classe politica locale. Era il meccanismo di collegamento tra una domanda politica più orientata verso interessi collettivi dalla cultura civica, formatasi storicamente, e un’offerta politica sulla cui qualità il partito vigilava.
Come si sa, con il venir meno del consenso ideologico e con il drastico indebolimento del partito, i membri delle élite politiche si sono resi più autonomi. Nelle zone rosse, a differenza di altre aree del Paese, è prevalsa la continuità degli orientamenti politici e elettorali mentre il centrodestra a guida berlusconiana e leghista è rimasto minoritario. Ma questo, paradossalmente, ha avuto dei costi: il potere politico locale consolidato non è stato sfidato da un’opposizione fragilissima, nel momento in cui il partito perdeva però la sua funzione di controllo sulla qualità della classe politica e sull’efficacia delle sue scelte per gli interessi collettivi locali. Così molti esponenti della classe politica hanno puntato a giocare di più le legittime aspettative di carriera e di successo sulla costruzione di reti e di cordate tra coloro che occupano posizioni nelle varie istituzioni locali e negli enti controllati. Quelli che cercano di cambiare ci sono, ma hanno vita più difficile (è avvenuto anche a Siena con il Monte). Ed è così che le decisioni più innovative sono scoraggiate. È meglio non agitare troppo le acque se questo rischia di turbare gli equilibri delle cordate e le chance di carriera. Difficile dunque mettere d’accordo Comuni, Province e Regioni: meglio far poco e distribuire risorse di qua e di là che selezionare e prendere decisioni forti. Meglio non toccare il vasto e avvolgente mondo delle vecchie municipalizzate, che serve da serbatoio per la collocazione di ex amministratori locali e camera di compensazione tra i vari gruppi, più che come volano di possibile innovazione. E meglio non rinunciare al controllo diretto di una grande banca che diventa terreno di confronto e scontro tra diverse cordate delle politica locale, anche a costo di indebolire colpevolmente un grande patrimonio collettivo. Così, la crisi del Monte mette a nudo la crisi del modello delle regioni rosse e la sua crescente difficoltà a rappresentare un punto di riferimento valido e efficace per il centrosinistra a livello nazionale.
Riprodotto da Il Mulino