Se diventiamo indifferenti alla povertà
di Aldo Bonomi –
L’idea è che dalla povertà e della deprivazione si possa uscire se si rimane ancorati ad una visione in cui il principio di responsabilità verso l’altro si riconnetta con la dimensione tutta pre-politica del fare “comunità di destino”. La povertà è un destino che riguarda qualcuno e che può riguardarci tutti ed ognuno, ma non può essere una condanna senza appello, non è questo lo spirito della migliore civiltà europea.
A mano a mano che la crisi passa dall’oggettività dei numeri sul debito e sullo spread a un dato che tocca la soggettività delle nostre vite, sempre più siamo portati a rimuovere e comprimere lo spauracchio della povertà relativa o conclamata nello spazio angusto di una paura che ha pochi ambiti per essere elaborata collettivamente.
Siamo tutti concentrati – nelle politiche pubbliche così come nel dibattito culturale o nella dialettica delle recenti primarie del Partito democratico – a ragionare sulla crisi del ceto medio, ma siamo poco interessati a ragionare sul destino dei tanti che hanno oltrepassato la soglia verso il basso o di chi va ammassandosi sull’orlo del precipizio. Un po’ come se oltre una certa soglia il destino delle persone ci diventasse indifferente sancendone così l’invisibilità sociale.
Eppure i numeri delle povertà sono sempre più eclatanti. A partire dal macrocosmo europeo, dove Eurostat ci dice che almeno 120 milioni di cittadini europei si trovano in situazione di povertà, di cui 42 milioni (poco meno di 1 cittadino su 10) in condizioni di indigenza assoluta. Non consola il fatto che l’Italia, per una volta, registri un dato in media con quello europeo. Il punto è, come ci dice il recente rapporto della Caritas ambrosiana sulle povertà, è che chi entra nel vortice della povertà ci rimane sempre più a lungo, diventando povero cronico, anche quando vive in una delle aree più ricche del paese.
La composizione sociale di questo universo dolente è fatto di vecchia e nuova composizione sociale: di pensionate, di immigrati di lungo periodo espulsi dal mercato del lavoro, di tanti giovani e meno giovani in età lavorativa che hanno perso la speranza di trovare un impiego. Nel complesso questa crescente quota di popolazione risulta esclusa da un welfare state sempre meno sostenibile in termini novecenteschi e che non si sa bene se terrà almeno per coloro che ancora non sono andati sotto soglia.
Si parla tanto della centralità del welfare come elemento identitario dell’idea di civiltà europea, ma non riusciamo a uscire dalla contrapposizione sterile tra mercato (privatizzazioni) e stato sociale.
Anche in Italia, recentemente, ci è stato fatto presente il problema tecnico della sostenibilità del welfare state nel medio periodo, ma sono stati tagliati i fondi alla cooperazione sociale e ridotti gli incentivi fiscali alle donazioni. Ai comuni, tanto per cambiare, è rimasto in mano il cerino accesso vicino alla benzina del disagio crescente. A loro il compito di fare da precaria scialuppa di salvataggio nella tempesta della crisi.
È probabilmente in forza di questa prossimità che gli enti locali, come certifica l’ultimo rapporto della Fondazione Emanuela Zancan, hanno effettivamente dirottato risorse crescenti (almeno sino al 2009) per affrontare il fenomeno delle povertà, pur nella logica un po’ isterica della rincorsa alle emergenze. Spero che saremo in grado di immaginarci qualcosa di meglio per il welfare che verrà.
Qualche traccia di un progetto di welfare che si ponga il problema di garantire i diritti sociali a una statualità leggera e a società forte mi pare in atto: si chiami essa sussidiarietà o mutualità o comunque autorganizzazione sociale. Su questo versante il nostro Paese credo abbia qualcosa da dire. Abbiamo tradizioni culturali, politiche e sociali centenarie e un messaggio millenario dai quali partire.
Mi sembra emblematico che persino il forte stato laico francese abbia recentemente invitato, pur con toni discutibili, la Chiesa parigina ad aprire le porte delle sue proprietà immobiliari per ospitare i tanti senza tetto che poco hanno a che fare con l’iconografia del clochard.
Da noi la situazione appare rovesciata: il tessuto delle parrocchie con le loro articolazioni laiche sono ormai da anni tra i principali soggetti ad occuparsi di poveri, mentre lo Stato non è attualmente in grado di andare oltre la fredda segnalazione tecnica del problema. Per il futuro occorrerà ispirarsi ad esperienze come quella del Fondo Famiglia Lavoro promosso dall’arcidiocesi di Milano, poiché qui il meccanismo mutualistico agito attraverso i 104 distretti del Fondo attivati sul territorio diocesano hanno messo in moto un processo di ascolto e accompagnamento delle fragilità andato ben oltre la dimensione della solidarietà episodica. È diventato a tutti gli effetti un momento di coscientizzazione collettiva e di costruzione di nuovi intrecci di cura e operosità.
Oggi il Fondo Famiglia Lavoro si appresta a compiere un salto ulteriore per agire sulla povertà cronica, cercando di coniugare a un livello più alto prossimità e tecnica (microcredito, formazione, eccetera), intrecciando mondi associativi della cura di matrice cattolica e comunità operosa finanziaria, puntando così a strutturare un’iniziativa nata per rispondere all’emergenza quando ancora si pensava ad una crisi di attraversamento.
L’idea è che dalla povertà e della deprivazione si possa uscire se si rimane ancorati ad una visione in cui il principio di responsabilità verso l’altro si riconnetta con la dimensione tutta pre-politica del fare “comunità di destino”. La povertà è un destino che riguarda qualcuno e che può riguardarci tutti ed ognuno, ma non può essere una condanna senza appello, non è questo lo spirito della migliore civiltà europea.
Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2012