L’inquietudine per un futuro fragile
di Aldo Bonomi –
In Italia la riflessione sulla questione giovanile è scandita dalle tristi statistiche su disoccupazione o precarietà o su quei 2 milioni e 200mila sospesi nel limbo del non studio e del non lavoro. I giovani sono pochi, quasi una specie protetta, e soprattutto contano poco. Descritti più come un’assenza che una presenza attiva di cui tenere conto. Vale la pena provare ad andare oltre gli usuali indicatori per scomporre e ricomporre i dati del dramma giovanile.
A partire da 3 ricerche, tre diversi punti di osservazione. Il primo è rappresentato da oltre 3.300 giovani clienti di una grande banca nazionale, tra 18 e 34 anni, intervistati sulla crisi. Si parla sempre dei giovani come economicamente deprivati. Ci siamo chiesti invece come vivano questa fase storica i figli di quel ceto medio risparmiatore oggi stretto tra debito e costo della vita. Sono per lo più giovani adulti occupati, il 66% ha un lavoro e guadagna un reddito, e patrimonializzati visto che il 44% risparmia oltre il 20% del reddito: non poco di questi tempi. Insomma chi è riuscito a fare il salto nella società adulta.
Bene, né il gruzzolo né il lavoro ormai bastano più ad acciuffare il futuro. Il 54 % di loro giudica il proprio reddito insufficiente e il 41% ha visto peggiorare le condizioni della famiglia negli ultimi quattro anni. Su tutto temono il futuro, per loro un’ombra da cui fuggire più che la meta verso cui procedere: il 37% risparmia per far fronte ad imprevisti non per costruire un percorso di crescita. Il 55% vede il futuro pieno di rischi e incognite e il 75,2% giudica peggiore la situazione futura dei giovani rispetto ai genitori. I due rischi più paventati nel diventare adulti sono disoccupazione (34%) e povertà (33%). Sono intrappolati in un presente che vedono come il tritacarne di un passaggio epocale che la società adulta stenta a dominare e pensare. E reagiscono mettendo al primo posto nella scala dei valori famiglia e posto fisso. Hanno sviluppato una coscienza triste dell’insicurezza. Inseguono la stabilità eppure, per migliorare la propria condizione, il 76,1% si trasferirebbe in un’altra provincia, il 65,7% in un’altra regione, il 54,2% espatrierebbe. Mettendosi sotto sforzo: il 91,1% è disponibile a straordinari, l’80,8% a rinunciare ai consumi, il 61,8% a fare un secondo lavoro, un quarto a lavorare in nero. Il 75,5% è convinto che l’unico modo per fare carriera è trasferirsi all’estero.
Un adattamento passivo più che un problema di aspettative troppo alte. Il 46% vive ancora con i genitori: di questi il 55 % per motivi economici. Familisti mediterranei? In parte si; ma anche persone che valutano razionalmente l’autonomia come rischio di povertà. Anche nell’anglosassone e individualista America sta aumentando il doubling-up delle famiglie, ovvero la presenza di adulti e giovani non studenti oltre al capofamiglia.
Anche il secondo punto di osservazione, l’indagine della fondazione Toniolo su 4.500 giovani italiani mette al centro il tema dell’adattamento alla crisi. Con sullo sfondo l’enorme tema della contraddizione tra una popolazione giovanile con investimenti formativi fuori squadra rispetto alla capacità di assorbimento del sistema produttivo. E il conseguente adattamento al ribasso: uno su due si adegua ad un salario più basso di quello che considererebbe adeguato e il 47% a svolgere un’attività che non è coerente con gli studi. Solo il 33% dei laureati svolge un lavoro coerente con quanto studiato. E il 77% dei maschi tra 18 e 29 anni dopo un periodo di autonomia sono tornati a vivere in famiglia.
Sono solo “schizzinosi” o abbiamo un problema grande come una casa non solo sul lato delle famiglie e della scuola ma anche sul lato dell’adattamento del sistema produttivo all’economia della conoscenza? Questione grande che ha a che fare con il sentiero di uscita dalla crisi del nostro capitalismo. Tema che ritroviamo anche tra quei giovani che hanno tentato la strada dell’ingresso alto nel mondo del lavoro, tra le professioni sia tradizionali che del terziario digitale e creativo. Con un doppio lavoro di ricerca sulle due grandi concentrazioni metropolitane del lavoro della conoscenza, Milano e Roma, emerge in tutta evidenza la forza di una frattura generazionale che sta travolgendo le tradizionali distinzioni tra chi ha un ordine e chi non ha altro che la sua partita Iva con l’incognita del ruolo che potrà avere la nova legge sul riconoscimento delle professioni non-regolamentate. C’è in fondo più somiglianza, nelle difficoltà, tra un giovane designer e un giovane avvocato di quanto ne passi tra un praticante e il dominus di un grande studio. È il mercato bellezza, qualcuno potrebbe sostenere. Salvo che la crisi sta divaricando la forbice a tal punto che oggi a Roma il 76,9% dei giovani (fino a 30 anni) avvocati, architetti, ingegneri e il 46,7% dei loro colleghi trentenni (30-39 anni) guadagnano meno di mille euro al mese. A Milano il 60% dei giovani professionisti si identifica con l’etichetta sociale di precario; a Roma il 72 per cento. Nella capitale il 54% dei giovani professionisti giudica negativa la propria condizione economica e il 26,4% vorrebbe passare da autonomo a dipendente.
In entrata nel mondo del lavoro il 51% dei giovani professionisti romani è favorevole alle modifiche dell’art. 18 e ben l’85% al contrasto delle “finte partite Iva” nella riforma Fornero. Insomma, voglia di rottura degli equilibri e richiesta di tutele convivono. Il problema dell’oggi, dei giovani davanti alla crisi, non si limita dunque alle condizioni di accesso al mercato ma al fare società, a come sviluppare cooperazione trasversale per sostenersi mutuamente. In assenza della quale non resta che adattarsi o fare esodo. Non lasciare i cittadini del futuro dentro questa tenaglia dovrebbe essere l’obiettivo da darsi. A loro i miei auguri. Ne hanno bisogno.
Tratto da “Microcosmi”, Il Sole 24 Ore, 23 dicembre 2012