Stiamo osservando da alcuni mesi in Francia un fenomeno nuovo, di cui non riusciamo ancora a mettere bene a fuoco i contorni e a comprenderne i possibili effetti sulla società francese, ma anche su tutto il mondo occidentale in generale.
In contesti immobili e decadenti, esposti alla minaccia della crisi economica da anni, cittadini esasperati si organizzano e protestano contro chi esercita il potere. E’ certamente un fenomeno interessante, da osservare con prudenza ma con la dovuta attenzione, perché, se non si rivelasse l’ennesimo fuoco di paglia, come sono stati il movimento del “Noi siamo il 99%” negli USA nel 2011 e quello dei Forconi in Italia nel 2013, potrebbe essere veramente quella scintilla che può far divampare il fuoco della ribellione e della protesta del “popolo”. La presa di coscienza e la reazione del cosiddetto “gregge smarrito”, come Noam Chomsky definisce nei paesi democratici la maggioranza della popolazione, nei confronti delle élites politiche ed economiche, ovvero di quella minoranza che governa e controlla il potere nelle attuali forme che ha assunto la democrazia in Occidente. Potere da cui il popolo è, di fatto, attualmente escluso, se non per l’occasionale partecipazione alle elezioni dei propri rappresentanti, che esercitano indisturbati la loro azione attraverso l’arma sottile e insidiosa della propaganda che in un contesto di libertà costituisce la forma di controllo più efficace per distrarre, confondere e isolare i cittadini.
Il movimento di Occupy Wall Street
Nel 2011 al grido di “Occupy Wall Street”, per la prima volta, dopo decenni di silenzio e di atteggiamento passivo i cittadini del movimento “Noi siamo il 99%” erano scesi in piazza negli Stati Uniti per protestare contro un “sistema” economico che stava vampirizzando le loro esistenze, contro il capitalismo, contro la libera economia di mercato, contro gli effetti di una crisi finanziaria, che travolgeva un elevato numero di cittadini, non solo le frange più deboli della società, travalicando ormai anche i confini nazionali. Non si trattava solo dei soliti esclusi o del proletariato, ma di cittadini della piccola e media borghesia che avevano perso la casa nella crisi del settore immobiliare, che costituivano il nuovo precariato, che non potevano permettersi nessuna assicurazione contro le malattie, che dovevano indebitarsi per poter studiare.
Il rischio e le conseguenze di una crisi finanziaria globale, che si faceva sentire nella quotidianità delle esistenze di tutti, aveva determinato una grande forma di mobilitazione spontanea e non organizzata, che superava i confini nazionali e assumeva differenziazioni e connotazioni specifiche a livello locale.
Le crisi finanziarie globali, che minacciano in tutto il mondo le condizioni di vita delle persone, producono forme di politicizzazioni “involontarie”. La globalizzazione espone tutti al rischio, ma quel movimento che esprimeva e racchiudeva in sé sentimenti di paura e di rabbia non è riuscito a dare origine, dopo l’iniziale e spontanea azione di protesta a un agire collettivo ed efficace, ma solo alla consapevolezza di una minaccia comune, di un nuovo genere di destino comune senza che, però, questo sia riuscito a tradursi in un reale impegno politico. Alla fine il movimento “Noi siamo il 99%” ha esaurito la sua azione, perché non è stato in grado di identificare un nemico preciso, di tradurre la paura e la rabbia in un progetto di cambiamento del sistema e delle società che fosse organico, netto, preciso. Alla fine, tendenzialmente tutti, sono scesi in piazza, virtualmente o effettivamente, e questo ha depotenziato e svuotato di senso e di obiettivi reali l’istanza diffusa e generica di protesta. Una mobilitazione costituitasi dal basso, di certo molto eterogenea e dai connotati in alcuni casi vaghi, contraddittori che si è tradotta in una sorta di rito di massa, di sfogatoio collettivo, che ha appagato le coscienze, ma che non ha scalfito il sistema contro cui si è rivolto, perché non è riuscito ad aprirsi uno spazio politico né interno, né tanto meno esterno ai confini nazionali, da cui era partito, lasciando la democrazia ancora sotto il controllo del potere economico. Naturalmente la propaganda attraverso una intensa campagna di disinformazione ha svolto una potente azione di delegittimazione del movimento, contribuendo a decretarne la fine.
Il movimento dei Forconi in Italia
Tra il 2012 e il 2013, negli anni più difficili per la crisi economica e politica italiana, tra la caduta di Berlusconi e l’avvicendamento dei governi Monti e Letta, il Movimento dei Forconi in Italia ha avuto il suo momento di massima affermazione. I manifestanti per interi giorni erano riusciti a bloccare l’accesso alle autostrade, presidiando i caselli di giorno e di notte. L’esito nel 2013 fu clamoroso, gli automobilisti si accorsero del movimento, spesso solidarizzarono con gli attivisti nonostante i disagi e gli agenti di Polizia in segno di solidarietà arrivarono anche a togliersi i caschi antisommossa. Il movimento dei forconi riguardò una categoria ben precisa di Italiani: i piccoli imprenditori, gli artigiani, i piccoli proprietari terrieri e le partite iva. Il mondo operaio ed impiegatizio del Nord condivise solo idealmente l’iniziativa, senza mai prendere parte all’azione di protesta, per esclusione e auto-esclusione. I forconi erano fondamentalmente liberali, protestavano perché volevano pagare meno tasse, istanza legittima, ma circoscritta ai loro specifici interessi, senza tradursi in una contestazione solidaristica che potesse inglobare anche altre categorie di soggetti, come i lavoratori dipendenti nel caso dell’introduzione del job act e dell’abolizione dell’articolo 18. Il movimento dei forconi non è stato in grado di proporre un progetto di cambiamento di più ampio respiro, interclassista e patriottico. Probabilmente la progressiva affermazione della Lega ed del M5Stelle ha consentito a quella rabbia di trovare successivamente una modalità di canalizzazione e di rappresentanza all’interno del perimetro democratico, per cui proteste così clamorose in Italia non se ne sono più viste.
Il movimento dei Gilet gialli in Francia
I Gilet gialli, invece, sono altro, un movimento più eterogeneo, in cui prevalgono istanze socialiste, un movimento che agisce nel solco di una tradizione politica e sociale, aperta e abituata alla protesta attiva antigovernativa. I gilet gialli vengono indossati da cittadini francesi di varia estrazione sociale, che non intendono minare l’unità nazionale e non sono mossi da istanze di indipendentismo regionale ma dalla rabbia verso l’establishment europeo che costringe tutti a politiche di austerità che rallentano l’economia nazionale e rendono più ricattabili i lavoratori. Il tema della protesta appare più politico, che esclusivamente economico. La grande critica rivolta a Macron è quella di aver reso i ricchi più ricchi. Si contesta una diseguaglianza ed ingiustizia sociale, che ovviamente passa attraverso una cattiva redistribuzione del reddito e, quindi, certamente una evidente disuguaglianza economica. Eppure la Francia, un paese senz’altro non privo di problemi, non si trova in una situazione economica al confronto con altri Paesi ricchi, in cui le condizioni di vita sono diventate così proibitive per un numero tanto elevato di persone da scatenare la rivolta nelle piazze. Chi sta protestando allora? La société de défiance, la società della sfiducia: al primo turno delle elezioni del 2017, i partiti antisistema – contando anche i verdi – hanno raggiunto il 35%. Il carattere apartitico del movimento mostra che non tutti i francesi si riconoscono nelle opposte, e astratte ideologie della destra e sinistra radicale; e scendono in piazza. Le loro motivazioni sembrano, dunque, tutte politiche come mostra la richiesta crescente del Référendum d’initiative citoyenne. Ci troviamo, forse per la prima volta, di fronte ad uno scontro tra progressisti, i manifestanti e non progressisti, Macron e l’establishment del Paese. Indubbiamente Il movimento dei gilet gialli affonda le sue radici nelle aree rurali della Francia, la motivazione della reazione di coloro che aderiscono al movimento va ben oltre il rincaro dei prezzi della benzina che costituisce la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Per chi vive nelle zone di provincia lontane dalle grandi metropoli, l’automobile è l’unico mezzo di spostamento. L’effetto combinato dell’aumento del carburante con l‘inasprimento dei limiti di velocità, che allungano i tempi di spostamento dei pendolari, è stato denunciato dai Gilet gialli come la prova evidente del distacco delle classi politiche dirigenti rispetto alla vita quotidiana dei cittadini. Alla base della reazione c’è, dunque un forte sentimento di rabbia nei confronti dei propri rappresentanti politici che non operano, tenendo conto delle esigenze dei cittadini, nel caso specifico di chi vive nelle aree periferiche della Francia. Il movimento è appoggiato dal 62% degli operai, dal 56% dei disoccupati, mentre un’altra quota consistente è costituita da pensionati. Si tratta, dunque, di quelle fasce colpite da maggiori difficoltà economiche, le stesse che hanno aumentato le differenze tra coloro che vivono nei grandi centri, e in particolare Parigi, e chi invece abita nelle zone “peri-urbane” se non addirittura di campagna. Se si vuole che le politiche ambientaliste siano condivise, accettate, promosse occorre che si confrontino con la realtà, i bisogni, la psicologia delle masse e non ritornino a essere una prerogativa delle élite intellettuali. Le misure più efficaci dovrebbero portare benefici all’ambiente, ma anche ai cittadini.
Rivendicazioni e anime del movimento dei gilet gialli
Il movimento dei gilet gialli compare sulla scena politico-economica tra ottobre e novembre dello scorso anno, quando attraverso video ed eventi su Facebook veniva denunciato il rincaro del prezzo della benzina (aumento delle accise sui carburanti 7,6 centesimi al litro per il gasolio, 3,9 centesimi al litro per la benzina) e venivano invocate manifestazioni collettive contro il Primo Ministro, Emmanuel Macron, visto come simbolo delle élite politico-economiche del Paese. È la percentuale di tassa sul gasolio più elevata in Europa, dopo l’Inghilterra e l’Italia. Ma, a differenza della maggior parte dei paesi d’Europa, in Francia l’impiego del gasolio è largamente maggioritario e costituisce l’80% del consumo di carburante. Il prezzo del gasolio è aumentato in un anno del 23%. «I gilet gialli polarizzano un’esasperazione popolare dall’evidente carattere di classe, per quanto riguarda il potere d’acquisto, i salari e le pensioni – sostiene un sindacalista – mentre si fanno regali ai ricchi, ai capitalisti. Anche gli screditati partiti politici che hanno di volta in volta gestito il Paese sono responsabili della presente situazione sociale. Macron ne aveva approfittato per farsi eleggere ed oggi ne subisce l’effetto boomerang».
Grazie alle riforme fiscali del governo (soppressione dell’Isf [Imposta di solidarietà sul patrimonio], Flat tax sui redditi da capitale) l’1% dei più ricchi vedrà balzare in alto il proprio reddito del 6% nel 2019, lo 0,4% dei più ricchi si vedrà aumentare il potere d’acquisto di 28.300 euro, lo 0,1% di 86.290 euro. Nel frattempo, il 20% dei meno ricchi vedrà diminuire il proprio reddito, oltre alla mancanza di prestazioni sociali, la riforma dell’assegnazione di alloggi, il calo delle pensioni, l’aumento dei prezzi. Ma la contestazione dei gilet gialli non riguarda esclusivamente il prezzo dei carburante. L’elenco delle rivendicazioni dei gilet jaunes è piuttosto lungo e variegato. Si va dall’eliminazione del crescente fenomeno dei senzatetto alla lotta alla povertà, da una maggiore progressività nelle imposte sul reddito al salario minimo di 1.300 euro netti, fino alla promozione di piccole imprese nei villaggi e nei centri urbani e al “no” a nuove grandi aree commerciali. Sono richieste anche maggiori tasse per i grandi colossi come McDonalds, Amazon, Google, un nuovo sistema pensionistico e la fine dell’austerity. Insomma, si incrociano idee anti-globalizzazione, forme di protezionismo, ma anche istanze per ottenere maggiori servizi sociali e sostegno al reddito.
Il movimento dei gilet jaunes è per definizione senza leader. Nell’ambito del movimento, però, si possono individuare tre anime: quelli come Eric Drouet che costituiscono la frangia più dura, quelli come Jacline Mouraud che fanno parte della frangia più tenera e quelli come Paul Marra, nominato tra i portavoce dei gilet jaunes che costituisce la frangia intermedia “non siamo con gli estremi: la volontà del popolo non è di distruggere tutto. Vogliamo una migliore ripartizione delle ricchezze”. Ad appoggiare il movimento sono stati subito Marine Le Pen, dell’ex Front National oggi Rassemblement national, e Jean-Luc Mélenchon, già fondatore del Partito di Sinistra e candidato nel 2017 con France Insoumise. Pare, però, che a mettere a punto la lista delle richieste dei gilet gialli sia stato Djordje Kuzmanovic, ex volto noto dello stesso partito populista di sinistra, appena abbandonato perché ritenuto troppo “morbido”.
Paul Marra, leader marsigliese del movimento, dichiara “Non siamo ancora maturi”, parlando del voto in Ue: “E’ ancora troppo presto. Noi non parteciperemo alle elezioni europee di maggio. Siamo ancora in un paese libero e quindi chi vorrà partecipare alle elezioni, a nome del movimento, lo può fare. Noi non ci andremo perché è ancora troppo presto”. Per Marra, “non bisogna mettere il carro davanti ai buoi” e “non si può costruire un tetto senza le fondamenta: noi vogliamo costruire un movimento. Ci sono altre elezioni, quelle municipali ad esempio”. “Creeremo una piattaforma sul nostro sito per avviare la democrazia diretta e ci presenteremo alle elezioni che saranno decise dai cittadini”. Riguardo alle misure annunciate a dicembre dal presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, Marra dice: “Vanno nella solita direzione, quella del governo, l’esecutivo non ha fatto nessuna concessione. Ci prende per dei coglioni. E’ un presidente che difende gli interessi degli ricchi, un ex banchiere di Rothschild. Non parliamo la stessa lingua”. Per Marra, “c’è una distanza enorme tra il potere e il popolo” e il Grand Débat national, come risposta all’ondata di protesta in Francia dal 17 novembre scorso, “è stato annunciato solo per guadagnare tempo. Non c’è bisogno di un grande dibattito per ridare i soldi alle persone e per aumentare le pensioni”. “Il salario minimo non è stato rivalutato, è stato una finta averlo annunciato e 10 miliardi di euro di misure per 66 milioni di francesi non rappresentano nulla”. Da anni, spiega Marra, “le nostre ‘teste pensanti’ non fanno nulla” per il popolo. “E’ da un anno e mezzo, da quando è stato eletto Macron presidente della Repubblica, che non sono arrivate delle risposte e non è successo nulla. Anzi c’è stato un calo del potere d’acquisto, hanno deciso di limitare la velocità a 80 chilometri orari” dai 90 previsti su alcune strade statali, “di aumentare il costo dei carburanti. L’aumento dei prezzi dei carburanti è stata la scintilla di un malessere: le persone non ce la fanno più”. La campagna elettorale di Macron, che lo ha portato ad essere eletto presidente della Repubblica il 14 maggio del 2017, “dava una grande speranza, era una personalità politica nuova, un giovane”. Invece, sottolinea Marra, Macron “ci ha fregato. Si è dimostrato anche immaturo. Abbiamo visto il rovescio della medaglia”.
Qualche considerazione finale
Non sappiamo quale spettacolo si rappresenterà sulla scena sociale e politica francese a seguito dell’irruzione di questo nuovo movimento, senza regia e variamente composito, ma sicuramente l’insoddisfazione crescente per le disuguaglianze sociali ed economiche che si sono prodotte nelle nostre società democratiche hanno cominciato a trovare una modalità, senz’altro tradizionale, di manifestazione da parte del popolo: la protesta di piazza. Il popolo che sino ad oggi era risultato assente dalla scena politica e dalle sedi di decisione del potere, rivendica la partecipazione alla gestione del potere. Se questa massa di cittadini variegata e insoddisfatta riuscirà a darsi una qualsivoglia forma di identità politica e coesione solidaristica, nonché un’organizzazione sufficientemente forte in grado di contrastare le resistenze e i tentativi di corruzione e delegittimazione che sicuramente verranno operati dalle élites politiche ed economiche che attualmente detengono il potere, avremo modo di verificarlo nei prossimi tempi. Se questo movimento sarà in grado di esprimere dei veri leader e dei propri rappresentanti capaci di scardinare il sistema e instaurare una nuova forma di democrazia, è ancora troppo presto per dirlo. Se questo tentativo accenderà una miccia che si propagherà, anche in forme diversificate, in Europa, magari consentendo ai popoli di esprimersi per giungere ad nuova rifondazione dell’Unione Europea sulla base di principi di maggiore equità sociale ed economica e non su una sua pericolosa e insensata voglia di distruzione, sarà tutto da vedere. Intanto, non limitiamoci ad osservare, ma cogliamo l’occasione attraverso questi eventi per interrogarci su quali forme di partecipazione attiva noi cittadini, anche noi Italiani, possiamo e dobbiamo mettere in atto, per contribuire alla creazione di una società in cui le disuguaglianze vengano ridotte. La partecipazione occasionale tramite le elezioni dei propri rappresentanti e l’illusione che le istanze di giustizia sociale ed economica possano essere raccolte ed incanalate da presunti movimenti o partiti “populisti” che propagandano il cambiamento, non sono più sufficienti. La democrazia è e resta sempre partecipazione attiva, confronto lucido e creazione costruttiva per la collettività, in cui i cittadini non devono limitarsi a recitare il ruolo di spettatori per la maggior parte del tempo.