Fare informazione significa portare a conoscenza di tutti i fatti che spesso possono rivelarci verità scomode e spiacevoli, che ci riguardano, come in questo caso. Noi occidentali fingiamo di ignorare i costi economici, sociali e soprattutto umani delle guerre che abbiamo scatenato e delle altre forme di sfruttamento di cui siamo responsabili nei Paesi da cui spesso provengono gli immigrati. Ci sentiamo innocenti e siamo persino infastiditi o peggio sprezzanti nei confronti di coloro che, costretti in condizioni di vita disastrose o pericolose, tentano come unica via di salvezza rimasta la fuga, nella speranza di una vita migliore. Una breve riflessione sull’argomento del giornalista Paolo Butturini tratta dal suo Blog
Quello che più mi fa rabbia nei commenti sulla questione migratoria è l’assoluta ipocrisia, quando non ignoranza, di quanti affrontano il tema come se si trattasse di un fenomeno partorito dal nulla e palesatosi come emergenza nell’ultimo decennio.
Che a sostenere questo ruolo siano comuni cittadini privi di strumenti di analisi e di informazioni corrette è doloroso ma comprensibile. Inaccettabile, invece, è che giornalisti, analisti, economisti (fuochisti, macchinisti, elettricisti… avrebbe detto Totò) politologi e quant’altro, nel nostro come in altri Paesi occidentali, non si peritino di mettere in fila i fatti, i dati e trarne le conseguenze.
Lasciamo da parte per un attimo accadimenti lontani nel tempo come i secoli di sfruttamento coloniale (che per molti versi, con protagonisti a volte uguali a volte diversi, proseguono). Vorrei concentrarmi su un fatto storicamente a noi molto vicino: l’”operazione Babilonia” o se preferite la “seconda guerra del Golfo”.
È noto che sia stata inutile (qualcuno sta ancora cercando le famose “armi di distruzione di massa” che sarebbero state in possesso di Saddam) e sanguinosa (sommando le vittime dirette, civili e militari, e le morti in qualche modo collegate si arriva alla spaventosa cifra di oltre 700mila persone).
Ma vorrei concentrarmi sull’aspetto del “costo economico” di quello sciagurato conflitto. Soltanto gli Stati Uniti hanno speso 1.700 miliardi di dollari. Lo afferma uno studio del Watson Institute for International Studies della Brown University, nello stato di Rhode Island.
Ora la cifra può non dirvi nulla, ma accostatela a un’altra: nel 1998, cioè soltanto 5 anni prima dell’inizio della guerra, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite stimava che ci sarebbe voluta una spesa aggiuntiva (oltre ai fondi stanziati) di 9 miliardi di dollari per fornire acqua pulita e fogne a tutti gli abitanti della terra. Con altri 12 miliardi si poteva fornire assistenza sanitaria ostetrico-ginecologica a tutte le donne del mondo. Aggiungendo 13 miliardi si sarebbe stati sufficienti a garantire a ogni persona sulla faccia della terra cibo sufficiente e una assistenza sanitaria di base. Metteteci altri 6 miliardi e tutti avrebbero avuto un’istruzione di base. FANNO IN TOTALE 40 MILIARDI.
Ammettiamo, vado a spanne, che alla fine del conflitto (2011, passaggio definitivo di tutti i poteri alle autorità irachene) quei 40 miliardi fossero raddoppiati diventando 80: in ogni caso, se l’aritmetica non è un’opinione, sarebbero stati sempre MENO DEL 5% DI QUELLO CHE LA GUERRA ERA COSTATA SOLTANTO AGLI STATI UNITI D’AMERICA. Ricordo, per inciso che l’Italia, pur non partecipando all’invasione dell’Iraq, fornì appoggio politico e logistico all’operazione, tanto da essere inserita dalla Casa Bianca nella lista dei membri della “Coalition of the willing”. Al nostro Paese, dal 2003 a oggi, le missioni militari in Iraq sono costate circa 3 miliardi di euro a fronte di una spesa per la cooperazione civile di 400 milioni.
I guai che quel conflitto ha causato, insieme alla guerra nell’Afghanistan, alla Libia ecc., sono sotto gli occhi di tutti, almeno di chi vuol vedere.