Verso lo Statuto dei lavori
Il Jobs Act, ormai, è legge. Saranno i decreti attuativi a dargli la configurazione definitiva e allora, forse, vedremo interamente il disegno che ci sta dietro. Ma fin da ora si può riflettere su quello che è in ballo in questo passaggio, su quale sia la prospettiva che occorrerebbe avere in mente.
Nel dibattito al calor bianco sul Jobs Act, nelle sue piazze di riferimento Leopolda e Piazza San Giovanni, ci si scontra sul tema delle riforme delle regole del mercato del lavoro. Nel passaggio epocale dallo Statuto dei lavoratori a uno statuto dei lavori serpeggia un amaro interrogativo che ci riporta alla realtà: il lavoro, i lavori, si creano con le regole o con le imprese? Con politiche che cambiano regole o con politiche industriali? Con il ministro del Lavoro o con un protagonismo del ministro dell’Industria? Il pensiero corto si ferma sul portare a casa lo scalpo di una o dell’altra parte in singolar tenzone. Il pensiero lungo dovrebbe, come ai tempi dello Statuto dei lavoratori, divenuto riforma e regola nel ciclo maturo del fordismo, delineare e sostenere la metamorfosi del fare impresa e qui collocare conflitto e mediazione per uno Statuto dei lavori che viene avanti.
Metto pacatamente in mezzo al calor bianco i numeri del rapporto Greenitaly realizzato da Unioncamere e Symbola, presentato a Roma da Claudio Gagliardi ed Ermete Realacci. Nel 2013 sono 3 milioni gli occupati nel settore green delle imprese, il 13,3% del totale degli occupati. Di questi, a proposito di disoccupazione giovanile, il 23,5% è under 35 anni. Nel 2014 le professioni verdi richieste nell’industria e nei servizi sono 234mila, con assunzioni non stagionali, il 60,7% del totale. Il rapporto ci consegna un dato di realtà e di analisi basato su 341.400 imprese green che hanno assunto, aumentato il fatturato, con l’innovazione di prodotti e di servizi, e la quota nell’export. So bene che, a fronte di questi numeri “inauditi”, abbiamo quelli quotidianamente uditi della cassa integrazione, di grandi imprese in crisi e dell’aumento della povertà relativa.
È la questione sociale aperta. Ma per tentare di chiuderla, di uscirne in avanti, queste imprese che ce la fanno rimandano a un made in Italy in trasformazione. In agricoltura, tema da Expo, nel 2015-2017 il 17,3% delle imprese investirà in sostenibilità ambientale e negli ultimi 3 anni il 57,3% ha diminuito il consumo di acqua ed energia per unità di prodotto. Anche nelle costruzioni, quelli che anni capito che è finita l’epoca dei mutui subprime e sono green building nella riconversione e manutenzione hanno creato 236mila posti di lavoro. Nel legno-arredo prende corpo la certificazione ambientale delle materie prime per tenere mercati europei e americani. Ovviamente la discontinuità tocca l’industria cartaria, terminale ultimo del riciclo. La metamorfosi riguarda anche settori come il meccano-tessile, con produzioni di macchine tailor-made a risparmio energetico, che ha nella Cina il principale mercato. Esemplificazione leggera di un’economia leggera si dirà, e mi chiedo provocatoriamente, perché la stessa discontinuità operosa non potrebbe toccare il ciclo dell’acciaio, dell’automotive, il territorio e l’ambiente da riqualificare…
Applicando lo schema maieutico, per un capitalismo in grado di confrontarsi con il concetto di limite, di eco impatto e di eco tendenza, descritto nel rapporto che, partendo dalle materie prime e dai consumi energetici, valuta per le imprese green le variazioni di emissioni per prodotto, il recupero di energia e la diminuzione per unità di prodotto di rifiuti. Per i miei microcosmi è importante ricostruire la geografica territoriale delle imprese green: 94.020 sono nel Nord Ovest, un tempo triangolo fordista, 93.510 sono nel Sud e nelle Isole, nel desertificato sud del rapporto Svimez sono le uniche imprese che tengono e creano lavoro con 683mila addetti. Poi segue il Nord Est del capitalismo molecolare in evoluzione con 75.580 imprese e il Centro con 64.770. Se dalle macroaree scendiamo ai numeri delle province e delle città nelle prime 10 troviamo aree metropolitane e città-regione, Roma, Milano, Torino, Napoli, Bari, Firenze e Bologna e città snodo delle piattaforme produttive come Brescia, Bergamo e Padova. Con i loro numeri confermano che oggi la questione dello sviluppo che verrà sta nei servizi innovativi delle città che contaminano la metamorfosi del nostro sistema di imprese diffuse. Molto dipenderà da quanto il divenire di queste dieci città smart cities sarà intrecciato con le smart land dell’agricoltura, della manifattura, del paesaggio e del territorio. Mettendo al lavoro nell’intreccio antico città-territorio professioni come l’agronomo, il chimico ambientale, l’ingegnere ambientale, il progettista di impianti solari, il carpentiere dei tetti solari, il tecnico del risparmio energetico, bio-architetti, risk manager ambientali e green copy writer… Sono tracce di futuro che da sole non bastano né al calore bianco delle regole della Leopolda né alla resilienza di Piazza San Giovanni.
Ma siccome entrambi i poli si basano sul consenso, tengano conto di un sondaggio pubblicato nel rapporto. Per il 74% degli italiani nel 2014 lo sviluppo sostenibile e la difesa dell’ambiente non sono una moda. Sono 37,5 milioni di italiani, 10 anni fa erano 18,6 milioni. È in atto una mutazione antropologica che parte dai soggetti per poi chiedere a Governo e imprese di assumere responsabilità e visione adeguate ai tempi. Questo conferma che nella dialettica tra green economy e green society i tempi sono maturi e lo sono anche per una dialettica tra politica e sindacato verso lo statuto dei lavori adeguato ai tempi della metamorfosi del produrre.