Gli esodati d’Amerika

di Giulio Zanella

Gli esodati non sono una specialità italiana. Esistono anche negli Stati Uniti. Solo che lì è completamente diverso l’approccio al problema, a partire dal fatto che non ci sono gli indecorosi balletti sulle cifre che hanno ammorbato il dibattito in Italia. E, per trovare una soluzione, si punta al sodo, guardando alla realtà del fenomeno. Ma lì siamo in Amerika.

Dei cosiddetti “esodati” (persone che hanno perso il lavoro dopo i 50-55 anni e che sono ancora troppo giovani per ritirarsi dal mercato del lavoro con una pensione pubblica) si parla quasi ogni giorno ma se ne sa veramente poco. Ebbene, esistono da anni anche in America. Un’interessante ricerca di Kevin Milligan ce li descrive. Vediamo lì come fanno, magari ci viene qualche idea utile.

Anche in America si perde il lavoro dopo i cinquant’anni e anche lì esiste una pensione pubblica, che si chiama Retirement Insurance Benefits, che però non si può ricevere prima dei 62 anni in misura ridotta e prima dei 65 anni in misura piena. Un americano che perde il lavoro a 55 anni è un “esodato” fino al compimento dei 62 anni.

Come fa Milligan a sapere quanti sono e chi sono gli esodati americani mentre noi non sappiamo nemmeno contare quelli italiani? Semplice: ha preso dati longitudinali di tipo survey (cioè interviste dettagliate alle stesse persone ripetute nel tempo) e li ha analizzati. Negli Stati Uniti esiste una speciale banca dati pubblica chiamata Health and Retirement Study, che raccoglie interviste a circa 22.000 americani di età superiore ai 50 anni. L’intervista, fatta ogni 2 anni, raccoglie dati sulla salute, la casa, il lavoro, la pensione, eccetera. Lo scopo primario della survey è informare la discussione pubblica sulle pensioni. Una bella idea, non vi pare? Per fare una discussione pubblica seria ci vogliono dati, non due randelli uno in mano alla Fornero e uno in mano al direttore dell’INPS. Questa è la prima idea utile che possiamo prendere dal lavoro di Milligan.

Quanti sono gli esodati americani? Lo scopriamo dalle tabelle 1 e 2 del paper. Basta contare quante persone nel gruppo 53-54 anni (il gruppo analizzato da Milligan) e che lavoravano fino all’anno prima hanno zero reddito da lavoro ma non si classificano come ritirate dalla forza lavoro. Queste sono l’1,32% delle donne occupate e l’1,34% degli uomini occupati. Sempre nel gruppo 53-54 anni. Se proiettassimo questa proporzione agli occupati italiani di età compresa tra 45 e 64 anni (così siamo sicuri di non restringere troppo l’intervallo di eta’), che nel 2011 sono circa 6,5 milioni (dati qui, alle tavole occupazione) concluderemmo che gli esodati sono circa 85mila. Un po’ più dei 65mila calcolati da Elsa Fornero, molti meno dei 390mila calcolati dall’INPS. Questo esercizio potrebbe non avere alcun senso, dato che il mercato del lavoro statunitense è molto diverso da quello italiano, ma oltre alla curiosità di vedere che cifra ne viene fuori, indica un metodo: semplice e trasparente.

Come evitano la povertà gli esodati americani? Questo lo scopriamo dando un’occhiata alle tabelle 5 e 6 del paper di Milligan, che riportano le proporzioni di donne e uomini che sono sollevati dalle difficoltà economiche per tipologia di reddito. Guardando agli esodati americani nel gruppo di età 55-61 anni, impariamo che circa la metà di questi non ha difficoltà economiche grazie al reddito del coniuge. La frazione è un po’ più alta per le donne (56%) che per gli uomini (50%). Il 27% delle donne esodate, poi, evita le difficoltà economiche grazie a redditi non da lavoro (risparmi, immobili, ecc.). La corrispondente cifra per gli uomini è 42%. Non tutti, naturalmente, riescono a evitare la povertà con mezzi propri o del coniuge. Infatti il 19% circa degli uomini esodati e il 6% circa delle donne ci riesce grazie all’assistenza pubblica (pensioni di invalidità, sussidi di disoccupazione, eccetera). La metà di questo 19% per gli uomini è costituito dalle pensioni di invalidità, il che suggerisce che non pochi esodati maschi negli Stati Uniti entrano in questo stato a causa di disabilità che portano alla perdita del lavoro. Gli esodati che restano sotto la soglia di povertà sono circa il 20% del totale, sia tra gli uomini sia tra le donne. Notare che le percentuali sommano a più di 100 perché un esodato può evitare lo stato di povertà grazie a diverse tipologie di reddito.

Che cosa impariamo? La prima cosa che impariamo è che ci vogliono dati pubblicamente disponibili, e che questi dati vanno analizzati. Questo l’ho già detto sopra e l’hanno detto bene anche Tito Boeri e Agar Brugiavini su La Voce: la gestione privata di informazioni pubbliche non è accettabile in un’economia moderna. La seconda cosa che impariamo è che è sbagliato assumere (come implicitamente si sta facendo in Italia) che gli esodati debbano essere tutti a carico del welfare pubblico. Credo che siamo tutti d’accordo che non c’è bisogno di preoccuparsi di un esodato che possiede 3 appartamenti oppure di un’esodata il cui marito ha un reddito annuo di 80mila euro. Insomma, come minimo la soluzione al problema degli esodati dovrebbe essere means-tested. Questo semplice punto è completamente assente dal dibattito. Il problema, essenzialmente, sono gli esodati il cui stato conduce alla soglia di povertà. Per questi bisogna intervenire urgentemente. Se fossero il 20% come negli Stati Uniti (potrebbero essere di più, potrebbero essere di meno: ci vogliono dati pubblicamente disponibili che tutti possono analizzare) allora staremmo parlando di poco meno di 20mila persone. Il problema è che in Italia ci riempiamo la bocca di parole come equità, solidarietà, eccetera e poi non abbiamo strumenti fondamentali di un welfare moderno come programmi per dare un reddito minimo a quelli che sono veramente alla fame e non hanno alternative. Che ci pensi la solidarietà privata è ammirevole, ma questa non può arrivare ovunque.

Tratto da http://noisefromamerika.org/articolo/esodati-damerika