di Cristiana Raffa –
Nessuno sa esattamente quanti siano i precari dell’informazione. Si calcola che all’incirca il 60% di tutta l’informazione sia affidata a giornalisti che lavorano in condizioni di precarietà, esposti a ricatti di ogni genere e minacciati nella loro indipendenza di giudizio. Non c’è, dunque, solo un problema di precarietà inaccettabile del lavoro, ma c’è anche un problema di qualità dell’informazione che è destinato a pesare, in definitiva, sulla qualità della democrazia. La precarietà dei giornalisti è un problema di tutti
Esiste una categoria professionale che vive di precariato come molte altre. Anzi forse, a oggi, è tra le più precarie in assoluto, sicuramente tra quelle che si vanno sempre più precarizzando a causa della rivoluzione digitale e di un cambiamento che corre molto più veloce della formazione, della politica e del marketing. I giornalisti, o più genericamente, quelli che vivono raccontando il mondo come è e come cambia, quelli che studiano la realtà, leggono documenti, parlano con le persone, trattano coi politici, intervistano professionisti, imprenditori, si rapportano con tutti gli altri lavoratori e con la società nel suo complesso, per poi riferirsi a una committenza editoriale raramente priva di interessi commerciali e politici. Una volta erano praticanti poi assunti nelle redazioni, pochi e pure potenti, quasi che davvero l’uomo con la penna fosse più armato dell’uomo con la pistola. Crescevano generazioni di giornalisti che imparavano a trattare col potere partendo dalla consapevolezza del proprio ruolo strategico. Perché il giornalismo è cresciuto con la democrazia, col bisogno dell’uomo libero di essere informato, così come è cresciuto grazie alla promozione pubblicitaria che aveva bisogno di vendere qualcosa a quell’uomo libero. Stampa e marketing sono evoluti a braccetto, bisognosi l’uno dell’altro in un equilibrio instabile, ma funzionale.
Il mondo dell’informazione oggi è saturo dal punto di vista dell’impiego, i giornali costano troppo a chi li produce e i lettori chiedono una multimedialità che da sola non si finanzia. Le redazioni si fanno sempre più piccole e flessibili, sempre meno redattori al desk a far girare la macchina e un esercito di esterni sottopagati che riempie le testate di pagine di carta e di pixel, e di contributi audio-video. E così intanto si va avanti e si produce l’informazione quotidiana mentre i contributi pubblici all’editoria diminuiscono, i giornali d’opinione chiudono e si salvi chi può. La torta, insomma, diventa sempre più misera e la pubblicità cerca strategie diverse (spesso più subdole, come documentano recenti ricerche universitarie) per rendersi efficace. In questo marasma il ruolo che l’informazione aveva all’inizio del suo percorso democratico che fine fa? Mentre si pensa a come foraggiare un sito Internet, mentre si cercano strategie commerciali per non ridurre la foliazione, mentre si riducono i compensi già miseri dei collaboratori che viaggiano in media sui 20 Euro lordi a pezzo (tra estremi di 5 e 50 Euro, abbiamo documentato nel dossier di Errori di Stampa “Per mille Euro un mese non basta”), che fine fa la libertà d’espressione? A 5 Euro a pezzo e senza nessuna tutela, quanti ce ne sono di Giovanni Tizian che fanno inchieste sulla mafia? O di Corrado Formigli che si permette di valutare negativamente le prestazioni di una Fiat arrischiandosi una condanna da 7 milioni di Euro? Con un contratto sempre in scadenza, o a chiamata giornaliera stile caporalato, neanche il più romantico dei giovani giornalisti si permette di seguire per tre anni un processo come calciopoli, scomodo per molti editori. Tanto per fare degli esempi immediatamente comprensibili. Problemi di etica e libertà che sono immensamente più sensibili rispetto a quando i giornalisti avevano colleghi solidali in redazione e un ordine professionale a coprirgli le spalle.
Per questi motivi una battaglia sull’equo compenso e sulla dignità del lavoro giornalistico è strategica per l’evolversi di un sistema democratico, oggi più che mai. Dunque parliamo pure delle leggi bavaglio e parliamo pure dell’articolo 18, ma rischiamo di concentrarci su una pagliuzza sbruciacchiata mentre un intero fienile prende fuoco.
Quelli che scrivono sono pochi, ma quelli che leggono sono tanti. Il rischio di un moltiplicarsi di professionisti dell’informazione mercenari e svenduti è una prospettiva abominevole per tutti. Ogni volta che un giornalista impegnato e serio tira i remi in barca perché impossibilitato a vivere del suo lavoro, la società intera perde una possibilità per continuare a definirsi civile.