Dopo la crisi e i “fallimenti” della regolamentazione
di Marcello Messori –
La crisi economica che attanaglia l’area dell’euro è figlia anche di un fallimento della regolamentazione dei mercati finanziari che ha lasciato che si formasse un “sistema bancario ombra” sottratto a ogni regola. Occorrono nuove regole e nuovi strumenti di regolamentazione, ma non vi sono sono ricette semplici e tanto meno scorciatoie. C’è una prospettiva nuova da costruire.
1. Una crisi lunga e pesante
Almeno per l’area dell’euro, l’inizio della crisi finanziaria internazionale nel maggio del 2007 ha aperto una lunga stagione di instabilità finanziaria e di recessione economica che, dopo più di cinque anni e mezzo, non si è ancora conclusa. La fine della crisi finanziaria negli Stati Uniti, che può essere idealmente datata al termine del primo trimestre del 2009 con il completamento del Financial Stability Plan dell’Amministrazione Obama e con il ritorno al profitto delle maggiori banche di quel Paese, ha infatti lasciato in eredità una crisi ‘reale’ che si è protratta per almeno altri due trimestri in larga parte dei sistemi economicamente avanzati. Per giunta, quando fra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 sembrava consolidarsi una fase di ripresa nel ciclo economico internazionale, l’Unione economica e monetaria europea (Uem) è stata colpita dalla crisi greca del debito sovrano che ha progressivamente contagiato gli altri Stati membri periferici e ha finito per intrecciarsi con le difficoltà di molti settori bancari nazionali. Alla fine del 2010, la timida e diseguale ripresa dell’area dell’euro è stata minata da questa nuova crisi dei debiti sovrani. Dapprima, sono tornati in recessione i Paesi periferici più colpiti (oltre alla Grecia, l’Irlanda e il Portogallo); nella primavera del 2011, il contagio si è esteso a Italia e Spagna; nel corso del 2012, quasi tutti gli Stati membri della Uem hanno fatto segnare una caduta del loro Pil per due trimestri consecutivi (segnale tecnico di recessione). Per il 2013, molti accreditati organismi internazionali prevedono un’ulteriore recessione per l’insieme della Uem.
I dati, sopra richiamati, mostrano che molte famiglie e imprese europee hanno attraversato e stanno attraversando gli anni più duri dalla depressione del 1929-’33. In una delle più forti e più ricche aree economiche mondiali (qual è la Uem), una quota consistente della popolazione ha subito severe riduzioni nel proprio potere di acquisto e le famiglie in stato di povertà relativa sono aumentate; i tassi medi di disoccupazione hanno superato il 10%, toccando punte fra il 40% e il 50% per le fasce più deboli della forza lavoro o per le zone territoriali più fragili; il settore manifatturiero e quello dei servizi dei Paesi periferici della Uem stanno subendo un drastico ridimensionamento; il settore finanziario non ha ancora smaltito le scorie della crisi del 2007-‘09 (attività problematiche e svalutate) e ha accumulato nuovi fattori di debolezza (incremento nelle insolvenze dei debitori e titoli pubblici rischiosi), che stanno riducendo in modo drastico il suo sostegno all’apparato produttivo.
In tale quadro, sarebbe utile soffermarsi sui legami fra le diverse crisi, che si sono accavallate dal 2007 a oggi, ed esaminarne l’impatto sulla distribuzione del reddito e della ricchezza fra Paesi e nell’ambito di uno stesso Paese; ma è forse ancora più rilevante rendersi conto che l’instabilità finanziaria e la recessione economica hanno fatto emergere le debolezze nei meccanismi e negli strumenti di regolazione che stanno alla base del funzionamento dei sistemi economicamente avanzati. Per usare il gergo degli economisti, le recenti crisi possono essere anche interpretate come il manifestarsi congiunto di ‘fallimenti’ del mercato, di ‘fallimenti’ degli interventi di politica economica e di ‘fallimenti’ della regolamentazione.
2. I limiti della regolamentazione
Lo scopo del presente intervento è di chiarire le ragioni dei ‘fallimenti’ della regolamentazione. Fra la metà degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta la regolamentazione aveva rappresentato, insieme all’analisi dei rapporti di potere fra le diverse tipologie di agenti economici mediante la teoria dei contratti e le asimmetrie di informazione, lo strumento utilizzato da alcuni filoni di teoria economica per contrapporsi sia all’ideologia prevalente della “grande moderazione” e dei mercati efficienti sia alle nostalgie per lo Stato imprenditore e pianificatore.
I ‘fallimenti’ della regolamentazione hanno, soprattutto, riguardato i mercati finanziari. Una delle cause di fondo della crisi finanziaria internazionale è stata la scelta, effettuata da moltissimi gruppi bancari e intermediari statunitensi ed europei, di ridimensionare le loro attività tradizionali, che erano sottoposte a un’attenta e spesso pervasiva regolamentazione, a favore di attività finanziarie innovative che erano pressoché deregolamentate. Gli economisti hanno parlato, al riguardo, di un ‘arbitraggio’ regolamentare che ha drasticamente innalzato i profitti bancari e finanziari di breve termine. Il risultato raggiunto ha spinto queste banche e intermediari finanziari ad accentuare il peso delle nuove attività non tradizionali, che sono diventate sempre più rischiose ma che hanno anche permesso di distribuire tali rischi a un insieme sempre più ampio di investitori fino a coinvolgere gli ignari sottoscrittori di obbligazioni strutturate con rating “tripla A” o di fondi comuni di investimento. Ciò ha portato all’affermarsi e all’estendersi di un comparto bancario e finanziario, che era ignoto o che sfuggiva alle autorità di vigilanza e che apriva nuovi e poco liquidi segmenti di mercato mediante l’offerta di prodotti sempre più complessi e opachi. Al riguardo, si è parlato di attività bancarie e finanziarie ‘ombra’ (shadow banking o shadow financing). Quando il distorto castello eretto dallo shadow banking ha incominciato a franare, la crisi finanziaria si è propagata a tutti i mercati finanziari e le autorità di regolamentazione hanno intuito la vastità e l’incidenza delle attività finanziarie non regolamentate.
Le nuove norme, le nuove regole e i cambiamenti nell’organizzazione della vigilanza, che si sono susseguiti negli Stati Uniti e nell’Unione europea dalla metà del 2009 a oggi, vanno intesi come il tentativo di migliorare la regolamentazione delle attività tradizionali ma – soprattutto – di porre sotto controllo regolamentare parti dello shadow banking. Tale tentativo non è ancora pervenuto a risultati solidi e soddisfacenti. Esso si è infatti rivelato tardivo, dispersivo, farraginoso e – al contempo – troppo parziale. Per esempio: nel corso del 2010, l’Amministrazione Obama è riuscita a far approvare una legge sui mercati finanziari statunitensi che appare molto ambiziosa, severa e a largo spettro (il Dodd-Frank Act); si tratta però di una legge così articolata e complessa che, dopo più di due anni di vita, ha trovato attuazione solo in misura minima. Per quanto riguarda invece la Uem, basti considerare che – all’inizio del 2010 – è diventato operativo un nuovo sistema di vigilanza dei mercati finanziari; eppure, nel giugno del 2012, il Consiglio europeo ha riconosciuto l’urgenza di varare un processo di Unione bancaria incentrato su una nuova organizzazione della vigilanza per le banche europee. A tutto ciò va aggiunto che gli sforzi dei legislatori e dei responsabili della regolamentazione hanno mirato a porre sotto controllo le innovazioni finanziarie alla base della crisi del 2007-‘09. Nel frattempo, dopo essersi ripreso dal collasso di fine 2008 e inizio 2009 ed essersi emancipato dagli aiuti pubblici, il settore finanziario internazionale ha ripreso a sfornare innovazioni e nuovi prodotti opachi e complessi che saranno la probabile causa della prossima crisi internazionale.
3. Quali soluzioni?
Le precedenti considerazioni sottolineano che, almeno nei mercati finanziari, i ‘fallimenti’ della regolamentazione sono la conseguenza di deficienze strutturali e ineliminabili. I regolatori e le autorità di vigilanza si trovano infatti nella sgradevole condizione di essere sempre in ritardo rispetto alle innovazioni finanziarie, cosicché i loro sforzi rischiano di riprodurre quelle condizioni di ‘arbitraggio’ regolamentare che stanno alla base delle crisi. Se lavorano in modo efficiente, essi sembrano cioè in grado di sottoporre a un’efficace regolamentazione solo quelle attività e quei segmenti dei mercati finanziari che hanno causato la crisi precedente alla crisi in corso.
Ritengo che nessuno abbia la ricetta per risolvere un problema di questa portata e che vadano guardate con sospetto le ricette troppo facili. In particolare, vanno evitate due proposte estreme e contrapposte. La prima, che è rafforzata dal prolungarsi delle crisi, suggerisce di affidarsi ai divieti o alle iniziative dello Stato o di organismi sovranazionali per bloccare larga parte delle innovazioni finanziarie e per obbligare il settore finanziario a concentrare le sue attività nel sostegno della crescita delle imprese nell’industria e nei servizi non finanziari. La seconda proposta, che è sostenuta dalle lobby finanziarie, suggerisce di prendere atto che un impianto normativo e regolamentare troppo dettagliato ha un impatto distorsivo; si tratta, quindi, di ridurre gli arbitraggi regolamentari mediante un ‘tocco leggero’ e di perseguire il livellamento dei singoli mercati dando spazio all’autoregolamentazione o alla deregolamentazione.
Se non si vogliono ripristinare mercati finanziari protetti e con un alto tasso di commistione fra politica e affari e se non si ha l’obiettivo di privilegiare le imprese con posizioni di rendita e con forte relazionalità, è necessario essere consapevoli dell’impraticabilità della prima alternativa. Per ottenere che banche e intermediari finanziari non mirino alla massimizzazione dei guadagni di breve termine e sostengano in modo efficiente la crescita dell’economia ‘reale’, l’imposizione di meri ‘divieti’ al funzionamento dei mercati e la trasformazione del credito in un ‘bene pubblico’ sono false soluzioni perché finiscono per buttare via il solo (pur se imperfetto) principio allocativo a disposizione delle nostre economie. D’altro canto, se non si ritiene che le ricorrenti e sempre più gravi crisi finanziarie e la crescente polarizzazione dei redditi e della ricchezza siano un prezzo ragionevole da pagare per il ‘progresso’ economico, risulta palese l’inconsistenza della seconda alternativa. Tale alternativa equivale a rifiutare la lezione che ci è stata impartita dalle recenti crisi finanziarie e ‘reali’.
Resta il fatto che, come ci insegna il ‘falsificazionismo’ popperiano, la critica e il superamento di proposizioni errate sono efficaci solo se si sostanziano in proposizioni più robuste e convincenti. La difficoltà di evitare le false soluzioni, offerte da un ingenuo ritorno allo statalismo o dal ripristino di un ‘tocco leggero’ nella definizione delle norme e delle regole, risiede nella mancanza di compiute soluzioni alternative. I ‘fallimenti’ della regolamentazione, alla base del propagarsi della crisi finanziaria, e la connessa incapacità di trasferire nei sistemi economici concreti i seducenti risultati teorici, offerti dai modelli di incentivo, sembrano vietare la riproposizione delle impostazioni degli anni Ottanta e Novanta. L’esperienza dei ‘fallimenti’ congiunti del mercato, dello Stato e della regolamentazione dovrebbe, però, averci anche insegnato che non esiste uno schema univoco di soluzione ma che sono possibili passi avanti mediante una combinazione di interventi parziali e – talvolta – eterogenei. E’ forse possibile attenuare i ritardi della regolamentazione rispetto alle innovazioni finanziarie grazie al ricorso a più strumenti che, pur continuando a comprendere il disegno di schemi di incentivo e la connessa definizione di regole, includa anche qualche divieto normativo rispetto ai più perversi sentieri di innovazione finanziaria e qualche punizione di mercato rispetto alla realizzazione di troppo elevati profitti di breve termine. Il problema del dopo crisi è che si tratta di una prospettiva tutta da costruire.