Ci salverà la concorrenza?
di Lapo Berti –
Il sistema ingessato del capitalismo clientelare, fonte prima di sprechi e corruzione e principale responsabile del declino italiano, può essere disgregato solo da una forte iniezione di concorrenza. La concorrenza deve permeare tutti i mercati, a partire da quelli dove operano le grandi imprese ex monopoliste o che aspirano a diventarlo, per estendersi a tutti quelli dove piccole e grandi lobby, al riparo di norme e regolamenti ad hoc, da sempre lucrano rendite che ripagano con il consenso politico, quando basta. Ma, prima di tutto, occorre che tutti coloro che dalla concorrenza possono trarre solo vantaggi si diano una rappresentanza politica.
Dunque, ci salverà la concorrenza? Sembrano crederlo i promotori del movimento Fermare il declino, che ne hanno fatto uno dei punti qualificanti del loro programma, e lo credono, certamente, alcuni dei suoi più autorevoli esponenti come Oscar Giannino e Alessandro De Nicola, o gli economisti Alberto Bisin, Michele Boldrin e, soprattutto, Luigi Zingales che, nei loro lavori e in innumerevoli dichiarazioni pubbliche, hanno proposto la concorrenza come il grimaldello che dovrebbe consentire di scardinare le barriere dell’asfittico capitalismo clientelare di casa nostra, ma anche di abbattere una volta per tutte la ragnatela di relazioni collusive, di privilegi, di rendite, che avvolge l’economia, ma anche la società italiana nel suo complesso, impedendogli di crescere, accettando, e vincendo, le sfide della globalizzazione.
La concorrenza contro il capitalismo clientelare
Sul piano teorico non si può che essere d’accordo. La concorrenza, seppur perseguita asintoticamente come un obiettivo da raggiungere, esercita sulle imprese una salutare pressione, distogliendole dalla ricerca di favori da parte del governo o altre scorciatoie intermediate dalla politica e spingendole a concentrarsi sui fattori che le rendono competitive. D’accordo, dunque, sul fatto che, specialmente in una situazione come quella italiana in cui da sempre è prevalso un capitalismo clientelare, la cura della concorrenza, in dosi massicce, anche a costo di far morire qualche soggetto economico particolarmente gracile, sia un passaggio obbligato per arrestare il declino e provare a imboccare una strada diversa, di crescita e di qualità della crescita. D’accordo anche sul fatto che la concorrenza non dispiega i suoi effetti solo nell’ambito del sistema economico, ma, riportando in primo piano la meritocrazia, investe necessariamente anche l’ambiente sociale, scuotendolo dalle fondamenta e liberando le energie finora soffocate dal sistema invasivo del nepotismo e del clientelismo, parenti stretti della collusione anticoncorrenziale.
E’ sul piano concreto che nascono i problemi, perché se di tutto ciò si fa un programma politico e ci s’impegna a realizzarlo, le cose cambiano e si complicano alquanto. Passando dal dire al fare, la realtà dei rapporti di forza si palesa in tutta la sua durezza. E’ abbastanza improbabile che si riesca, anche con una vigorosa azione governativa che peraltro non è in vista, ad abolire quella fitta rete di norme che costituiscono i “lacci e lacciuoli” di cui parlava tanti anni fa Guido Carli. Com’è improbabile, dopo anni di deriva concertativa, che si riesca a richiamare l’autorità antitrust a fare rigorosamente il suo mestiere, sanzionando tutti i comportamenti d’impresa che ostacolano l’azione della concorrenza e impedendo le operazioni dirette a realizzare o conservare situazioni di monopolio. Ancora più arduo e anche rischioso, infine, è pensare di procedere in maniera pura e semplice a vaste privatizzazioni del patrimonio pubblico, mobiliare e immobiliare, che riconsegnino al mercato attività e proprietà che da decenni, se non da sempre, sono affidate alla gestione dell’operatore pubblico. Queste cose dovranno essere fatte tutte insieme e non saremo che a metà dell’opera. In questo senso, la proposta di Fermare il declino appare politicamente ingenua.
Si deve sapere, infatti, che affinché tutte queste cose, che pure andranno fatte, portino a quella trasformazione auspicata del contesto economico, è necessario che si accompagnino a un insieme di interventi rivolti a creare un ambiente favorevole all’apertura dei mercati, superando le tensioni che un cambiamento di questa portata necessariamente genera.
Se si tiene ben presente che la concorrenza intacca e distrugge posizioni di rendita e di potere ben consolidate e provoca, quindi, reazioni estese e violente, è agevole comprendere che occorre predisporre almeno due contromisure fondamentali. Da una lato, si tratta di fare in modo che coloro, imprese e lavoratori, che fino a oggi hanno lucrato sulla compressione o l’eliminazione della concorrenza, ottenute per lo più per via legislativa o regolamentare, possano usufruire di vie d’uscita accettabili, un po’ come gli “scivoli” pensionistici. Insomma, occorre una sorta di welfare pro-concorrenziale, che agevoli e accompagni il passaggio a un mondo competitivo. Dall’altro, è necessario puntare alla formazione di una consistente e stabile constituency in favore della concorrenza intesa come fondamentale principio regolatore dell’economia. Tutti coloro che dalla concorrenza avrebbero solo da guadagnare, e sono la stragrande maggioranza dei cittadini, devono essere indotti a riconoscerne il potenziale liberatorio, la funzione regolatrice, devono dismettere la fiducia irrazionale nello stato protettore che li trasforma in sudditi, devono cominciare a fidarsi del merito e delle loro proprie capacità. Un processo culturale lungo e complesso, che passa attraverso l’aggregazione di interessi finora compressi, che vogliono accettare la sfida della globalizzazione scommettendo sulla capacità di competere in un ambiente aperto, libero dai condizionamenti impropri della politica e dai ricatti del sistema clientelare. Una politica seria per la concorrenza deve, prima di tutto, andare in cerca di alleati.
Liberalizzare è difficile
Introdurre la concorrenza in un contesto economico, politico e culturale che l’ha sempre vista come un corpo estraneo, che l’ha vissuta come una minaccia, che l’ha percepita come qualcosa di distruttivo e non l’ha mai considerata come un fattore positivo di dinamismo economico, è un compito assai arduo e, certamente, non di breve periodo. Non basta evocare il principio della concorrenza perché subito se ne manifestino gli effetti benefici. Né è sufficiente prendersela con qualche lobby minore, lasciando magari intatto il potere delle grandi imprese che dominano i mercati e controllano la politica. Occorre invece predisporsi a un lungo processo di trasformazione profonda degli assetti di potere e degli atteggiamenti culturali, che passerà necessariamente per momenti di rottura determinati da misure drastiche, ma dovrà provvedere, contemporaneamente, a costruire un ambiente istituzionale e culturale in grado di sostenere stabilmente la scelta della concorrenza. Suggerire, a un’opinione pubblica stanca e scoraggiata, che poche misure di liberalizzazione possano risolvere il problema e riaprire la via della crescita è del tutto ingannevole e può perfino suscitare conseguenze controproducenti.
Per quanto possa sembrare pedante, è utile e necessario ritornare anche sulla distinzione fra liberalizzazione e privatizzazione. Troppo spesso, in passato, si sono usati i due termini come sinonimi o si è addirittura suggerito che siano strettamente connessi e che le misure che realizzano la liberalizzazione si leghino necessariamente a quelle che determinano la privatizzazione o, peggio ancora, che le privatizzazioni aprano la strada alle liberalizzazioni. Liberalizzare significa cambiare il regime di funzionamento dei mercati. Significa affidare alla concorrenza il compito di coordinare e disciplinare le attività economiche di un determinato settore, eliminando il più possibile l’interferenza di intermediari politici che offrono norme e sussidi. Privatizzare significa semplicemente cambiare il regime proprietario, il regime di governance di un’impresa. Significa sottrarne la proprietà allo stato e consegnarla nelle mani di privati, significa che la governance non sarà più ispirata da criteri politici ed esposta, quindi, a degenerazioni clientelari che ne minano l’efficienza, e sarà posta invece nelle mani di azionisti e di manager che, si spera, saranno guidati dall’interesse primario di valorizzarne gli asset, per conseguire la massima efficienza possibile e, quindi, i profitti più elevati possibile.
Se si tiene ben presente questa distinzione, si vede subito che liberalizzare non implica necessariamente privatizzare e che privatizzare non significa necessariamente liberalizzare. Si possono avere, infatti, anche se è difficile, mercati perfettamente concorrenziali in cui operano indifferentemente imprese pubbliche e private e si possono fare, viceversa, privatizzazioni che si risolvono semplicemente nel trasferire un monopolio pubblico, con le rendite che comporta, in mani private, aumentandone, se possibile, la pericolosità economica e sociale.
Un’agenda per liberalizzare
Occorre, dunque, essere seri e realisti. La liberalizzazione dei mercati, l’introduzione in via stabile della concorrenza come principio regolatore delle scelte e delle attività economiche è un processo lungo, che si articola in vari passaggi, non necessariamente sequenziali. Al fondo di tutto, lo ripetiamo, c’è la necessità di cambiare il paradigma culturale attraverso il quale i più, a partire dai protagonisti, guardano al mondo dell’economia. Non è un’operazione facile, perché si tratta di scardinare o comunque modificare modi di pensare, atteggiamenti, anche valori, che sono radicati da decenni, più spesso da secoli, e che hanno dato vita a solide configurazioni di interessi. Com’è il caso dell’Italia, essi sono anche sostenuti da culture popolari, di massa. Qui è necessario che si formi una rappresentanza politica che si faccia portatrice e garante del cambiamento necessario, unendo le forze, intrecciando gli interessi e facendo emergere la concorrenza come bene comune di un ordine sociale libero.
Fra le misure concrete cui pensare fin da subito, c’è una vasta opera di disboscamento normativo. Gli ostacoli alla concorrenza, i privilegi, le rendite, si nascondono in una fitta giungla di leggi, norme, regolamenti che il legislatore ha generosamente erogato nel corso di decenni per garantirsi il consenso e, non di rado, anche qualche tornaconto personale. Occorre ridurla a poche, limpide norme di carattere generale, facilmente applicabili da un sistema giudiziario rapido ed efficiente. In secondo luogo, è indispensabile porre mano al sistema dei controlli rivolto a garantire l’efficacia della concorrenza. In Italia, com’è noto, le autorità di tutela e di garanzia sono state rapidamente riassorbite nel sistema del capitalismo clientelare e affidate a eminenti esponenti del mondo politico che lo rappresenta, trasformandosi in luoghi di concertazione politica, invece che di tutela di interessi generali. Devono essere messe in mano di tecnici, guidati da incentivi che gli impediscano di derogare dal perseguimento dell’interesse collettivo. In terzo luogo, occorre prevedere un sistema di compensazioni che abbassi drasticamente il livello dell’opposizione alla concorrenza, offrendo ragionevoli vie d’uscita alle imprese che finiscono fuori mercato e un welfare pro-concorrenziale agli individui che, con l’affermazione della concorrenza, perderanno rendite e, talora, posto di lavoro. Infine, si potrà anche pensare anche a un programma di privatizzazione di imprese pubbliche, ma solo dopo che i mercati corrispondenti siano stabilmente e solidamente affidati alla supervisione della concorrenza. Liberalizzare significa “slegare”, togliere vincoli ingiustificati, ma bisogna sapere che nessuna società tiene se non c’è un “legame”, un senso di appartenenza e di reciprocità, che non può essere costituito unicamente dall’umana “inclinazione a trafficare, a barattare e a scambiare ogni cosa con l’altra”. Neanche l’autore di queste parole, Adam Smith, ci credeva. Dunque, l’azione di “slegare” va necessariamente di pari passo con quella di “legare”.
Chi afferma che l’introduzione della concorrenza è una riforma che porta solo benefici e non ha costi dice una menzogna pericolosa. La concorrenza ha costi elevati, sul piano economico, ma anche politico e sociale, perché profondi sono i cambiamenti che comporta. E’ una riforma pesante, destinata a incontrare resistenze e reazioni pesanti. Occorre esserne consapevoli e pronti a fronteggiarle. Altra strada non c’è, per fermare il declino.