Felicità responsabile

La felicità di consumare meno e meglio

di Lapo Berti –

È possibile riportare il consumatore al centro del processo economico, farne quel sovrano del mercato che forse non è mai stato? Sono molti i sintomi che ci dicono che qualcosa del genere sta già avvenendo e sta iniziando a modificare il modo in cui funzionano le nostre società, obbligando anche il capitalismo ad adattarsi e a riformarsi. Un bel libro di Roberta Paltrinieri(*) illustra i cambiamenti che si stanno verificando nei comportamenti di consumo di un numero crescente di persone e ne delinea il possibile impatto sulle imprese e sul l’organizzazione economica della società. Una ricognizione ampia e documentata, anche dal punto di vista teorico, dell’universo del consumo.

“La società dei consumi è un destino ineluttabile? Una volta finita la crisi, i richiami ad una vita sobria, austera, a stili di vita sostenibili finiranno per essere archiviati come brutti ricordi di una fase economica congiunturale particolarmente sfavorevole? E se, al contrario, fossimo di fronte a una nuova fase della società dei consumi e ad una vera e propria svolta culturale?”
Sono queste le domande cui il libro tenta di dare una risposta, partendo dall’ipotesi che si possa e si debba dare una risposta affermativo all’ultimo quesito. Non appare dubbio, infatti, che la crisi che ormai da cinque anni attanaglia l’economia mondiale abbia obbligato molte persone, in tutte le parti del mondo, a fare i conti con una necessaria riduzione dei consumi di cui si comincia ad avvertire, seppur sporadicamente, anche qualche possibile effetto positivo, nel senso di indurre un ripensamento del modello di consumismo ipertrofico cui ci eravamo abituati.

Viviamo in una società in cui la sfera del consumo, lungi dall’essere quell’ambito in cui l’individuo esercita le sue scelte personali per comporre il proprio, peculiare stile di vita, è da tempo colonizzata dalle grandi imprese che producono beni di consumo attraverso quello strumento di persuasione occulta o di vero e proprio condizionamento dei comportamenti che è la pubblicità, cui siamo esposti e sottoposti in tutti i momenti e i luoghi della vita quotidiana. Nel secolo passato tale colonizzazione dell’ambito personale delle scelte di consumo è stata così completa che siamo arrivati a identificare la nostra felicità personale con un determinato livello e stile di consumo. Ci siamo convinti, schiacciati dentro un modello di società che aveva fatto della crescita costante del reddito il miraggio del paradiso in terra, che questo paradiso e la felicità che distribuisce fossero fatti pressoché esclusivamente di occasioni di consumo, materiale o immateriale. Fino a che ha cominciato a delinearsi una sorta di paradosso dell’iperconsumo. Abbiamo cominciato a provare una sorta di nausea da eccesso di consumi, abbiamo cominciato a renderci conto che la rincorsa di un reddito sempre più elevato per permetterci consumi sempre più affluenti non produceva un pari incremento della nostra felicità, anzi produceva una sorta di uggia, di insoddisfazione, di delusione. Quanto più elevato si faceva il livello di consumo accessibile, tanto più sentivamo che la soddisfazione, la felicità, ci sfuggivano di mano, si facevano inconsistenti. Oggi cominciamo a essere consapevoli del fatto che la felicità non sta solo nella quantità di beni che riusciamo a procurarci o di cui riusciamo, comunque, a disporre. Sta, ancor più, nella qualità dell’ambiente fisico e, soprattutto dell’ambiente sociale in cui viviamo, sta nella ricchezza e nella qualità delle relazioni che esso rende possibili. Sta in quello che, da qualche decennio, si è cominciato a chiamare “capitale sociale”. Il dramma è che del valore irrinunciabile di questo “capitale” abbiamo cominciato a renderci conto quando il trentenno dell’individualismo mascalzone, come lo chiamo io, lo aveva in buona parte devastato. E ora siamo di fronte all’arduo e inusitato compito di ricostruirlo.

Poi è giunta la crisi, la crisi più devastante da un secolo a questa parte. Posti di fronte alla necessità di consumare meno, abbiamo cominciato a renderci conto che si può consumare meglio e, soprattutto, che possiamo decidere noi cosa e come consumare. Abbiamo cominciato a capire che lo stesso funzionamento della società attuale, con il mercato al centro di tutto, ci consegna un potere enorme di cui finora non ci siamo resi conto e che non abbia esercitato. Se riconquistiamo la piena consapevolezza delle nostre scelte di consumo e delle loro implicazioni ci poniamo in grado, proprio agendo dentro il mercato, di imporre le nostre preferenze, di costringere le imprese a tenere conto della nostra cultura, dei nostri valori. Semplicemente facendo, in maniera consapevole, quello che per decenni abbiamo fatto come automi eterodiretti: scegliendo sul mercato i prodotti che soddisfano le nostre esigenze e rifiutando quelli che non lo fanno. La nostra cultura, se diventa un fattore consapevole nelle nostre scelte di consumo, torna a essere capace di plasmare gli stili di vita e lo stesso funzionamento della società.

Ripartire dal consumo si può, per dar vita a una sorta di cambiamento molecolare della società che chiede solo la partecipazione responsabile degli individui e la loro consapevolezza di essere parte di un tutto. “Un numero crescente di persone adotta stili di consumo non più esclusivamente guidati da criteri di natura economica – il miglior prezzo, il prodotto più conveniente – né da criteri strettamente riconducibili a opzioni di gusto o di benessere e salute personale. Un’ampia gamma di comportamenti è riconducibile a questo tipo di orientamento: dall’acquisto di prodotti del commercio equo e solidale, all’utilizzo di abiti usati, alla scelta di riparare un elettrodomestico, anziché sostituirlo, all’adesione a campagne di boicottaggio, di un certo marchio o prodotto” (Tosi 2006). In questa maniera, la sfera del consumo si politicizza e apre la strada a nuove forme di partecipazione politica. “La scelta del consumo, come leva per perseguire finalità di tipo politico, configura perciò un processo di politicizzazione del mercato, che comporta un ampliamento dei repertori della partecipazione politica”.

Certo, tutto questo esiste per ora allo stato ancora embrionale. Si tratta di tentativi parziali, di sperimentazioni, di avanguardie si sarebbe detto un tempo. Ma non dovremmo dimenticare l’ammonizione di una grande antropologa, Margaret Mead, che la Paltrinieri opportunamente cita: “Mai dubitare che un piccolo gruppo di cittadini consapevoli e attenti possa cambiare il Mondo: è sempre stato l’unico modo per farlo”. La storia tragica del secolo breve ci ha insegnato che “cambiare” la società, manipolarne i meccanismi, anche a fin di bene, è impresa difficilissima e pericolosissima, soprattutto quando una parte della società, non importa se minoritaria o maggioritaria, pretende di imporre all’altra un qualche modello ideale. La rivoluzione del consumo responsabile ci consente anche di allontanarci da questi incubi, rappresenta un cambiamento radicale perché mette la leva del cambiamento nella mani di tutti. Quello che conta è che, come dice la Paltrinieri, si tratti di “un impegno definito dalla responsabilità e dall’auto-riflessività, nonché dall’attivismo quotidiano” in modo da dare luogo a una responsabilità sociale condivisa.

Roberta Paltrinieri, Felicità responsabile. IL consumo oltre la società dei consumi, Franco Angeli, Milano 2012.