Alle origini del Made in Italy
Vicino a una baita di alta montagna è visibile un pittoresco esemplare manufatto con poco. Una toilette di poche assi verticali, una gabbia di legno con il classico buco in terra. Se non che il locale è impreziosito da una di quelle poltrone di plastica bianca, con un foro nel mezzo del sedile. Questa toilette di alta montagna non costringe ad accucciarsi, come per secoli hanno fatto i nostri avi, ma consente di stare comodamente seduti.
Questo “manufatto con poco” dimostra almeno quattro cose. La prima è che “fare con poco” è prerogativa dell’homo habilis, di un esemplare evoluto, intelligente e desideroso di migliorare, capace di procurarsi i materiali e capace di prefigurare l’uso futuro dell’oggetto fabbricato. Alla baita l’homo habilis si domanda: come stare più comodo, evitando di trasportare a spalla un sanitario in ceramica? La sua risposta al quesito è la poltrona in plastica.
La seconda cosa è che i vincoli rendono creativi. Qui il vincolo è l’altitudine, la lunga strada da percorrere a piedi in salita. Renzo Piano, quando racconta la sua carriera, sottolinea che progettare senza limiti di spazio e senza un limite dato è più difficile che non farlo con precise delimitazioni. L’ingegno si aguzza nelle difficoltà.
La terza è che abilità e cultura consentono di migliorare, nel caso della baita passare dalla posizione accucciata a quella seduta. Se passiamo al mondo dell’alimentazione e della gastronomia, incontriamo la leggenda della maionese, nata grazie al cuoco del duca di Richelieu, durante la conquista di Mahon, capitale dell’isola di Minorca. In mancanza del latte necessario per cucinare una salsa, e per non fare brutta figura con il padrone, il cuoco sperimenta un’emulsione di uova e di olio, abbondanti nell’arcipelago. Esistono varianti a queste leggenda, ma la lezione è sempre la stessa. Che fare quando manca quasi tutto? Ingegnarsi con il “quasi” è la risposta esatta, per la maionese come per il water.
La quarta cosa è che qualche volta dai tentativi rudimentali di fare con poco possono nascere sostanziali miglioramenti. Prerogativa dell’homo habilis è fare con quel che c’è e inventare quel che non c’è, dall’osservazione che la selce è tagliente fino alla conoscenza della chimica che l’olio ha una dote emulsionante.
Il “fare con poco” si sviluppa là dove esistono carenze. Se al supermercato si trova tutto quel che serve, non si è incentivati a cucire, rammendare, aggiustare, ricostruire, e intanto crescono gli scarti – e quindi l’immodizia – perché appena un oggetto mostra segno di usura, è condannato alla discarica o alla ricicleria. Dove ci sono carenze, si cerca di supplire. Come nella baita di alta montagna. Come negli Stati Uniti tra Otto e Novecento, dove la carenza di manodopera e la mobilità delle persone, nonché le grandi distanze, hanno generato l’auto di massa, la Ford T, così come la carenza di manodopera e le grandi distanze hanno dato luogo alla distribuzione organizzata, sia nella forma dei grandi magazzini sia nella vendita per corrispondenza. Perfino la messa a punto del calcolo meccanico e poi di quello elettronico sono nate dalla necessità di risparmiare la manodopera per compiti più intelligenti. La professione più diffusa a Milano a metà dell’Ottocento era quella dello scrivano, del copista, poi è arrivata la macchina da scrivere. Altra pofessione diffusa a Milano, fino a cinquant’anni fa, era quella del ragionatt, poi è arrivato il calcolo meccanico ed elettronico, che non ha fatto sparire la professione ma l’ha ridefinita.
Allo stesso modo nell’Europa degli anni Trenta si è messa a punto la prima lavabiancheria elettrica e non più a manovella, il cui uso è esploso nel dopoguerra. In questo caso, stava scomparendo la brava ragazza di campagna che va a servizio in città. Le brave ragazze di campagna erano attirate dalla fabbrica, non dal servizio domestico. L’ingresso massiccio delle donne sul mercato del lavoro, il tramonto della servitù domestica ha creato la grande famiglia degli elettrodomestici, grandi e piccoli.
In questo caso la conclusione è che il “fare con poco” può dare luogo a una specie di Ricerca & Sviluppo, o meglio è la versione più rudimentale della R&S, senza investimento di grande entità, con poco capitale e molta intelligenza.
La dimostrazione che da questa R&S possono nascere grandi cose è appunto l’evoluzione della toilette: In partenza un buco nel terreno, oggi un comodo sedile, che in Giappone ha trovato un perfezionamento ulteriore rispetto a quanto è in uso nel resto del mondo, il Washlet Toto, con sedile riscaldato a comando, con opportuni rubinetti che scaricano l’acqua già usata nel lavello – risparmio di risorse naturali -, e con acqua pulita che le parti del corpo interessate. Mezzo secolo di lavoro domestico mi suggeriscono che una direzione di ricerca è quella dell’integrazione delle macchine domestiche. Case sempre più piccole, e con nuclei familiari sempre più piccoli dovrebbero contenere macchine multifunzione, come il Washlet Toto, che elimina il bidet e usa l’acqua saponosa della vasca da bagno.
Nella nostra storia recente c’è un esempio molto importante del “fare con poco” che dà luogo a grandi risultati, a due condizioni: che sia un “fare bene”, di qualità, e che sia appoggiato da un sistema organizzato e incluso in una strategia di ampio respiro. L’esempio è quello del decollo della moda italiana negli anni Cinquanta.
Sul primo punto, il “fare bene”, noi italiani siamo abbastanza specializzati, perché apparteniamo a un paese che ha storicamente tre condizioni di partenza: scarsità di capitali, alto livello di spreco del denaro pubblico, ma profonde tradizioni artigianali. Inutile specificare che dove c’è clientelismo e il pane è assicurato, sia pure a prezzo della servitù, non c’è bisogno di inventare nulla, non c’è bisogno di “fare con poco” e tanto meno di “fare bene con poco”. Sul secondo punto, appoggiarsi a un sistema organizzato con uan strategia noi italiani siamo più deboli, di solito, perché poco propensi al lavoro di gruppo, ben organizzato e sostenuto dalle istituzioni.
Torniamo al dopoguerra, che ha generato il miracolo economico, uno dei momenti classici del fare con poco e ottenere molto. A questo proposito, non parliamo più di posti di lavoro, ma di lavoro, il lavoro dell’homo habilis, non quello della catena di montaggio che ancora resta nelle menti deboli come rappresentazione del futuro e invece appartiene al passato.
E’ evidente che il miracolo economico non è un prodotto semplice del “fare con poco”. Al miracolo, come in tutti i fenomeni storici complessi e decisivi, hanno concorso molti fattori: i denari del piano Marshall, l’esito delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, la disinvolta violazione delle leggi fasciste contro l’urbanesimo, l’evasione fiscale e contributiva, e forse anche altro. Ma il fattore umano ha avuto la sua parte, cioè ha concorso anche l’ingegnoso, volonteroso e virtuoso “fare con poco” e, aggiungo sottolineandole l’importanza, la gran voglia di uscire dalla miseria e dalle rovine, a qualsiasi costo, tentando ogni strada. Dunque il “fare con poco” è stato a quell’epoca uno dei fattori di una grande cambiamento di rotta, che ha agito per far uscire gli italiani da un’atavica povertà. Il “fare con poco” ha prodotto non poco, una svolta epocale che, tra l’altro, ha demolito un pregiudizio storico: che la povertà è invincibile e inevitabile, che la società non può che essere stratificata in classi, che una parte non piccola dell’umanità è condannata a patire la fame e vivere in condizioni barbariche.
Mia madre mi ha lasciato questo insegnamento. Appartaneva alla generazione che nell’infanzia aveva viaggiato in carrozza e in gioventù in automobile, che aveva installato il telefono in casa e, nella maturità, aveva popolato la casa si macchine domestiche, dalla televisione alla lavastoviglie, sempre con una certa incredulità. Come se, nel fondo della mente, restasse il dubbio che tutto questo rovesciamento della fatica in benessere fosse lì lì per sparire. Infatti aveva attraversato proprio questa esperienza: durante la seconda guerra mondiale non aveva da mangiare, figuriamoci se poteva aspettarsi tranquillità e benessere dai magnifici prodotti dell’industria.
Tra le molte storie che raccontava a proposito del “fare con poco”, una mi è particolarmente cara. Le tende usate per l’oscuramento nel periodo dei bombardamenti alleati erano di un solido cotone blu. Con la pace, quel cotone è stato riusato per fare dei graziosi pantaloncini con una pettorina e le bretelle, decorati con un ricamo che raffigurava una papera gialla. Un fotografia che conservo immortala le tre sorelline con i pantaloni blu, residuato bellico rigenerato dal “fare con poco”.
Mia madre era una tra milioni di italiane, tutte intente a migliorare l’esistenza con il poco disponibile. Durante l’occupazione nazista, Camilla Cederna e Maria Pezzi, amiche che sarebbero diventate nel dopoguerra giornaliste, l’una di cronaca e l’altra di moda, per avere un cappotto nuovo ciascuna, avevano scovato una pezza di panno verde da biliardo, che il venditore non riusciva a smerciare in quei tempi grami. Così due giovani signore che non intendevano rinunciare a un po’ di decoro per amore di se stesse e degli altri avevano in quell’occasione anticipato il decollo della moda italiana del dopoguerra. In quegli stessi giorni Germana Marucelli, che sarebbe diventata una star dell’eleganza italiana, tagliava e cuciva abiti in un magazzino di patate sul lago Maggiore, per non perdere l’abitudine e per soddisfare comunque la clientela, anche nelle condizioni proibitive dello sfollamento.
In quei giorni di penuria, Giuliana Camerino fabbricava borse di velluto in mancanza di pellame, Franco Bertoli usava i collari da cane come manici di borsette e Salvatore Ferragamo usava il sughero per i tacchi delle scarpe, la carta o il cellophane lavorato a uncinetto per le tomaie. Il decollo della moda infatti parte proprio dalla mancanza di tutto, e di seguito dall’arrangiarsi con poco, e finisce per conquistare i buyers americani e affermarsi come una delle specialità italiane nel mondo civile.
Si fa decorrere la rinascita della moda italiana dalla sfilata del 1951 a palazzo Torregiani, organizzata da Giovanni Battista Giorgini. In questa occasione Giorgini resuscita un’antica aspirazione, che negli anni Ottanta dell’Ottocento, era stata espressa con vigore e tenacia da una sarta milnaese, Rosa Genoni. Rosa, un’autodidatta intelligente, aveva cominciato ad aggirarsi nel mondo della sartoria a otto anni, quando era scesa a Milano dalla Valtellina per guadagnarsi da vivere come cucitrice. Diventata la sarta dell’alta società, oltre a tagliare e cucire, Rosa si era dedicata a propugnare quello che lei definiva “la moda di pura arte italiana”, capace di attingere a tutte le risorse disponibili per mettersi in concorrenza con la moda francese: l’ispirazione di secoli di arti figurative e arti applicate, le capacità manuali e l’abbondanza della manodopera femminile, le tradizioni artigianali locali per ricami, pizzi, accessori, nonché il credito delle banche e il sostegno delle autorità pubbliche. Un “sistema moda” ante litteram, insomma, che allora non trovò interlocutori abbastanza attenti.
Un’idea del genere muoveva Giorgini, che aveva chiamato a Firenze da una parte una miriade di fabbricanti di tessuti, di imprese artigiane e atéliers, dall’altra parte i buyers americani nella speranza che trovassero i prodotti italiani della moda meno cari ma di una qualità paragonabile a quella francese. Ecco che il 12 febbraio 1951 a palazzo Torregiani spuntano i tessuti, gli abiti, gli accessori “fatti con poco”: cappelli di paglia e maglie di Carpi, borse e cappelli di rafia, usata anche come decorazione degli abiti; sandali degli artigiani capresi, e molto altro. Gli americani comperano a man bassa, i giornali divulgano la storia, il made in Italy diventa concorrenziale con il made in France. Oggi siamo in un movimento inverso: la moda italiana, resa fragile da gestioni miopi, è comperata dai francesi. Si può sempre ricominciare, partendo però da una forte convinzione che si può fare bene con poco. Bisogna essere sostenuti da una forte etica del lavoro. Questo è il punto di partenza, a mio parere: ricostruire un’etica del fare. Le rovine dell’Italia di oggi non sono materiali, come quelle del 1945, ma sono soprattutto morali e il “fare con poco” può sconfiggere la corruzione, lo spreco, l’inerzia e lo scoraggiamento.
Intervento all’incontro FARE CON POCO, organizzato da lib21.org presso la Casa dell’Architettura, Roma, 28 ottobre 2013.