di Pierluigi Musarò –
Elezioni americane: seconda puntata. Pierluigi Musarò continua a seguire da New York l’aspro confronto che oppone Obama e Romney per un’elezione da cui, come sempre, dipendereanno i destini non solo degli Stati Uniti, ma di tutto il mondo e, in particolare, dell’Europa
Obama vince ai punti il secondo dibattito tenutosi alla Hofstra University di Long Island. Ma Romney c’è, e si fa sentire. Incassa e subito risponde. Spesso a sproposito, e scivola. Come quando attacca il presidente accusandolo di non aver gestito bene l’emergenza dopo l’attentato dell’11 settembre a Bengasi, in Libia. Arrivando a sostenere che Obama avrebbe riconosciuto che si trattasse di atto terroristico solo due settimane dopo l’accaduto. Pronto, il presidente ribatte che parlò di atto terroristico già il giorno dopo l’attacco, incassa la conferma della conduttrice e l’unico applauso in tutta la serata, e affonda: «Non si strumentalizza la sicurezza nazionale per speculazioni politiche. Non si comporta così un comandante in capo».
Ebbene si, il presidente democratico ritrova la grinta e riapre la partita. La performance supera di gran lunga le aspettative. Lo certificano i sondaggi della Cnn: mentre il 46% degli spettatori hanno risposto che il vincitore della serata è stato Obama, e solo il 39% Romney, ben il 73% degli intervistati ha comunque apprezzato la performance. Si, qui si parla di performance. E’ la performance che conta, quella del corpo politico con la sua aggressivitá e ferocia. La capacitá di dominare la scena, anche interrompendo l’altro, più e più volte. That’s America, baby.
Quanto poi la performance possa alterare una dinamica elettorale che dopo il primo confronto sembrava favorire Romney è tutto da vedere. Ma di certo il presidente ha ottemperato al suo dovere, adempiendo alla missione che a gran voce il suo elettorato, deluso, gli chiedeva: mettere Romney nell’angolo, quello di destra per intenderci, e stenderlo al tappeto prima che il governatore riuscisse a occupare il centro della scena. Sembravano sul ring i duellanti, e saltellando da un angolo all’altro la differenza d’etá è venuta fuori. D’altra parte Obama ha 51 anni, mentre il candidato repubblicano 65. In Italia sarebbe giovane, certo. Ma da questo lato dell’oceano 14 anni di differenza si sentono, e non solo sul ring.
A movimentare la sfida, questa volta, ha contribuito la presenza del pubblico in sala. Un pubblico composto ed emozionato, comunque pronto a sfoderare la domanda dal taschino per rivolgerla al duellante di turno. Tra il set di domande e risposte, mi è piaciuta molto quella sulle politiche nei confronti degli immigrati, definiti dalla ragazza che l’ha posta come “productive members of society”. Accezione subito colta dagli interpellati.
«First of all, this is a nation of immigrants. We welcome people coming to this country as immigrants. My dad was born in Mexico of American parents; Ann’s dad was born in Wales and is a first-generation American. We welcome legal immigrants into this country», ha subito risposto il pur radicale Romney.
Mentre il liberale Obama ha rispolverato per l’occasione la speranza e il sogno che lo hanno contraddistinto nella corsa alla Casa Bianca 4 anni or sono: «We are a nation of immigrants. I mean we’re just a few miles away from Ellis Island. We all understand what this country has become because talent from all around the world wants to come here. People are willing to take risks. People who want to build on their dreams and make sure their kids have an even bigger dreams than they have».
Repubblicani e democratici concordi nel riconoscere il ruolo dell’immigrazione, attratta su questo suolo dal fascinoso richiamo dell’American Dream. Un sogno fondato sulla convinzione che attraverso il duro lavoro, il coraggio, la determinazione sia possibile raggiungere un migliore tenore di vita e la prosperità economica. Un sogno che sembra rinnegato dal lungo muro anti-immigrazione ai confini col Messico, e al contempo esaltato dalla Diversity Lottery, la lotteria che ogni anno il governo americano organizza per assegnare a 50.000 fortunati vincitori in tutto il mondo i visti per vivere e lavorare negli Stati Uniti. Incredibile ma vero: migliaia di morti lungo il confine con/vivono con una lotteria che ti offre il diritto di inseguire l’American Dream. That’s America, baby.
Ascoltare i presidenziali richiami alle sirene del sogno, mi riporta alle lunche discussioni nelle serate d’autunno con il vecchio Steve. American dream is over, recitava il cartello che Steve indossava spesso. Ricordo che parlavamo del significato di quel cartello, mentre eravamo entrambi appoggiati alle transenne di Zuccotti park, appena ripulito dall’incursione improvvisa della polizia. La prima volta che ci avevano provato non ci erano riusciti.
Correva l’autunno del 2011. I rappresentanti della Brookfield Properties, proprietari del parco, avevano distribuito volantini ai manifestanti per avvertire che il parco sarebbe stato sgombrato per essere pulito. Ma quando il sindaco di New York ha deciso di assecondare la richiesta di riportarlo alla normalità e ha autorizzato l’intervento delle forze dell’ordine, i manifestanti hanno ribattuto che la pulizia era soltanto una scusa per stroncare la protesta, e violava il loro diritto costituzionale di libertà d’espressione. Dopo la solita general assembly hanno dunque fatto sapere che non si sarebbero spostati e che avrebbero adottato una strategia di resistenza passiva e non violenta. Ricordo di esser rimasto nel quadrato di Liberty Square fino a tarda sera, dando una mano a ripulire lo spiazzo. La notte me la sono evitata, complice il freddo e il richiamo dell’ufficio il giorno dopo. Ma se avessi immaginato lo spettacolo dell’alba sarei rimasto. Avrei voluto vedere la faccia degli spazzini e dei poliziotti quando si sono ritrovati centinaia di persone stese sulla piazza ripulita, con le scope in mano e i numeri degli avvocati stampati sulle braccia alzate. Le mani dei cops impossibilitate a usare i manganelli, la stretta dei denti, la smorfia rabbiosa e umiliata della resa. Di certo uno dei momenti più entusiasmanti di quell’autunno. Entusiasmo che però durò poco. L’accampamento del movimento Occupy Wall Street aveva i giorni contati, e cosi’ nel giro di poche settimane ci riuscirono a ripulirlo. Di notte. Senza preavviso. Complice la neve e il vento tagliente. Sacchi a pelo, tende, libri, fornelletti, telecamere e computer erano stati smantellati e distrutti nel buio di una notte che puzzava giá d’inverno. L’autunno, appunto, volgeva al termine.
Primavera, estate, e ancora autunno… Passano poche stagioni e ritorno qui, a Zuccotti park, in un’altra New York, nella stessa America. Chiaro, tornarci è tornarci, con tutto quello che significa: non stupirsi più di tutti quei taxi gialli, del fumo che sale dalle crepe dell’asfalto, dei grattacieli arrampicati verso l’infinito, la stimolazione che viaggia al ritmo elevato del rap, le signore eleganti con gli auricolari piantati addosso e il tappetino di yoga a tracolla, il flusso di giovani ambiziosi con lo sguardo puntato al futuro e l’agenda piena. Tornarci significa riconoscere e dunque conoscere meglio, che un luogo lo si conosce davvero quando lo si riconosce, e lo si apprezza di più, come fosse il profumo piacevole e familiare della persona amata e non quello seducente e fuggitivo del one-night-stand.
Resta il fatto che a Gotham City è impossibile non continuare a stupirsi. E tra le altre cose che continuano a stupirmi, il ritrovare ancora oggi i compagni di Occupy a Zuccotti Park nella notte di Rosh Hashanah (il Jewish New Year), sempre creattivi e ben disposti a farsi arrestare in massa nella convinzione di dar voce al 99%. Perchè alcuni ci credono ancora, of course. E me lo raccontano entusiasti mentre si festeggia l’anniversario dell’occupazione di Zuccotti Park, che a sua volta seguiva l’onda di Puerta del Sol a Madrid e piazza Tahrir a Il Cairo. E’ il 17 settembre 2012, un anno dall’occupazione appunto, e tra le panchine di Washington square corre veloce il passaparola che dá appuntamento per il giorno dopo in diversi punti del distretto finanziario a sud di Manhattan. In teoria per un sit-in pacifico che vuole bloccare Wall Street, ma l’obiettivo è bloccare banche, strade e funzioni di questo piccolo groviglio di strade e palazzi da dove si governa il mondo senza farlo troppo sapere in giro. L’appuntamento è all’alba, e immaginerete che io abbia preferito ascoltare sotto le coperte la diretta su Pacifica Radio, piuttosto che farmi arrestare insieme ad un centinaio di loro.
Defraudati dello spazio che li aveva caratterizzati, i reduci di Liberty Square non si arrendono. E a fasi alterne provano a far sentire la loro voce. Saranno anche soltanto rigurgiti di comunismo di piazza, o giovani assai ‘acerbi’ – come li definisce l’amico Del Pero – protagonisti di una protesta fragile e confusa, nei toni genericamente populisti così come nei contenuti a dir poco vaghi. Saranno quel che saranno, sempre meno e con la voce sempre più rauca; ma di certo sono tra i pochissimi che, nell’opulenza nostrana, esprimono malessere e indignazione con pacifica rabbia, levandosi dalle coperte all’alba per farsi arrestare.
Lo faranno perchè si ostinano a credere che l’American Dream esiste ancora? O forse protestano per denunciare che quel sogno ha confuso democrazia con capitalismo? Con un liberismo selvaggio sguarnito di quei sentimenti morali che tengono insieme la società? Di certo dimostrano che una parte di America quel sogno non lo vuole abbandonare. Che da questo lato dell’oceano, come su altre sponde del Mediterraneo, ci sono esseri umani che si sentono super eroi comuni, o semplici eroi reali. Eroi che non accettano di barattare il Dream con la Fantasia, assistendo inermi al suo lento sgretolamento, man mano che il sogno di alcuni si trasforma in incubo della moltitudine. Sotto la scure dei repubblicani, come dei democratici. Ognuno a modo suo, con poche idee ben messe in pratica.
Peccato non ci fosse qualche esponente di questo 99% a porre la sua domanda ieri sera durante il dibattito. Qualcuno che chiedesse: perchè la società statunitense continua a sommare iniquità a iniquità? Come possiamo accettare che la maggiore disuguaglianze di reddito conviva con la minore tassazione della ricchezza? Che fine ha fatto quell’American Dream che vi ostinate a usare come core message del vostro brand?
Manca ancora un dibattito presidenziale e una manciata di giorni alla chiamata alle urne. Chissá che nella prossima performance non ci sia qualche colpo di scena…