L’editoria e i giovani al tempo della rete
di Tommaso Codignola –
Vorrei cominciare tracciando un rapidissimo profilo dell’editoria italiana di cultura del ‘900. Se guardiamo a quella storia possiamo suddividerla abbastanza facilmente in tre macro-periodi: quello di Laterza, dal 1901 (anno di fondazione della casa editrice) al secondo dopoguerra, il periodo Einaudi, collocabile nel trentennio tra i ’40 e i ’70, e poi Adelphi, che conclude il secolo, dagli anni ’80 al 2000.
La storia dell’editoria italiana di cultura è naturalmente molto più ricca e articolata (bastino i nomi di Bompiani, Longanesi e Feltrinelli), ma è un fatto – su cui credo ci sia generale accordo – che questi tre marchi hanno esercitato nei periodi presi in esame una sorta di egemonia culturale (non vuol dire necessariamente che siano state le case editrici migliori o più interessanti, ma che hanno dato il tono al dibattito culturale italiano e in certi casi anche europeo). Ebbene, se si guarda a questa storia, un dato non può non colpire, visto l’argomento del nostro incontro: che è una storia di giovani, fatta da giovani. Giovanni Laterza ha ventisette anni quando apre e Croce (il suo mentore scientifico, l’unico che gli dà credito all’inizio) ne ha trentaquattro, Giulio Einaudi ha ventidue anni quando avvia la sua casa editrice e Leone Ginzburg venticinque, Roberto Calasso ventuno quando inizia con Bobi Bazlen e Luciano Foà l’avventura di Adelphi. E’ dunque una storia di giovani – il che ci deve rinfrancare! – e di giovani che hanno dovuto incontrare fior di difficoltà e ostacoli di ogni tipo: la sonnolenta Bari d’inizio novecento in cui Laterza apre la sua casa editrice non era il posto più indicato per un’impresa culturale, Leone Ginzburg (cioè la prima mente editoriale della Einaudi) fu ucciso dai fascisti non ancora trentacinquenne, la cultura cosiddetta di destra, cioè Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, ecc. era davvero tabù quando Calasso, Bazlen e Foà presero a pubblicarla (o a ripubblicarla, ma organicamente). C’è poi un’ultima cosa che desidero dire su questa storia: un filo rosso, sotterraneo, ma poi nemmeno troppo, lega tra loro le tre case editrici: per Laterza Croce affida a Leone Ginzburg (cioè al futuro direttore editoriale di Einaudi) la traduzione delle “Considerazioni sulla storia universale” di Burckhardt (che Ginzburg, braccato dal fascismo, non riuscirà mai a terminare); Foà rompe con Einaudi, con cui aveva a lungo collaborato, proprio su Nietzsche, che Einaudi non vuole pubblicare, e avvia Adelphi con la grande edizione critica degli scritti di Nietzsche intrapresa e portata a termine da Giorgio Colli e Mazzino Montinari (è ancora oggi l’edizione di riferimento mondiale). Ecco, in due parole, cosa abbiamo alle spalle (e direi che sono cose belle e importanti).
Arrivo al presente. Il presente, mi pare, ci si presenta sotto il segno dell’ambivalenza, il che è anche abbastanza ovvio. Dei giovani nell’editoria si può parlare secondo me da tre punti di vista.
Per iniziare, dei giovani come editori in prima persona. Da questo punto di vista si assiste a mio avviso a uno sfaldamento (che è un tratto più generale del nostro tempo): è difficile oggi individuare un marchio che per qualche ragione si imponga sugli altri, ma ci sono molte esperienze notevoli: “minimum fax” per la letteratura, che ha riproposto con una grafica accattivante una letteratura americana semi-dimenticata: da Richard Yates a John Barth, da William Trevis a Bernard Malamud Nella saggistica mi pare interessante il lavoro di “mimesis” (per es. “volti”, collana graficamente angosciosa, con quella fascia nera sugli occhi dell’autore, ma proprio per questo riconoscibilissima). Potrei fare tanti altri nomi, naturalmente. Ma, come detto, non vedo un marchio decisamente più forte degli altri (più forte in termini di proposta culturale, naturalmente). Per quanto riguarda gli aspetti più imprenditoriali in senso stretto, credo che i problemi fondamentali siano per tutti quelli dell’accesso al credito e del costo del lavoro (la differenza che c’è tra lo stipendio e il costo azienda di un impiegato). Ma qui davvero non dico niente di nuovo: sono i problemi di chiunque provi a fare impresa oggi in Italia.
E così arrivo ai giovani che hanno a che fare con l’editoria come lavoratori. Da questo punto di vista, lo confesso, la situazione mi è parsa spesso drammatica: le facoltà italiane laureano letterati a ciclo continuo e il sogno di tantissimi di loro, pur di evitare la palude dell’insegnamento scolastico, è l’editoria. Ovviamente questa grande offerta (ogni casa editrice ha la sua bella pila di curriculum cui attingere in qualsiasi momento) fa crollare il potere contrattuale dei giovani: stages a stipendio zero, precariato di ogni tipo, ecc. Anche in questo caso nomn credo di dire niente di nuovo, quando dico che tutto quello che irrobustisce la tutela del lavoro in entrata (come la recente normativa sulle partite iva monomandatarie, cioè sul lavoro precario travestito da lavoro indipendente) va nella direzione giusta ed è auspicabile.
Infine ci sono i giovani come autori, coi quali (come per il lavoro) l’editoria attuale subisce le distorsioni del mercato: attraverso la caccia al giovane esordiente (che in certi casi non è neppure uno scrittore, ma magari il partecipante di qualche trasmissione tv) e attraverso l’editoria per adolescenti e giovanissimi, spesso di scarso peso culturale. Non so quanti ci si siano soffermati, ma nell’epoca dell’indebolimento demografico e sociale della fascia di persone giovani, il brand “giovane” conosce uno sfruttamento massmediatico probabilmente mai raggiunto prima. Forse un legame tra le due cose c’è: c’è una questione giovanile e c’è quindi un bisogno di auto-definizione, che non trovando sbocchi oggettivi (occupazione, creazione di nuclei famigliari, ecc.) prende la strada fantasmatica del romanzo. E c’è, credo, anche un indugiare di persone anagraficamente più che adulte in uno stile di vita giovanile, perché la vita adulta (la triade famiglia – lavoro – società) per tante ragioni fa acqua da tutti i pori. Ecco, se i giovani sono sempre stati quelli che andavano frenati, i giovani di oggi ogni tanto sembrano dei vecchi anzitempo, che non hanno nessuna voglia di spingersi in avanti. Naturalmente non è “colpa” di una generazione, è tutta la nostra società che è entrata in crisi. Forse dovremo pensare a nuove forme dell’adultità e a nuovi parametri del loro riconoscimento, che non il lavoro e la famiglia. O forse è il concetto stesso di adultità che sarà rivisto nel profondo.
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Il cambiamento sicuramente più rivoluzionario per l’editoria contemporanea è, come in tutti gli altri campi, internet.
Partiamo dalle opportunità. La prima trasformazione radicale riguarda la distribuzione: le vendite online (sia dal sito, che sui grandi portali: amazon, ibs, ecc.) arrivano ormai a toccare anche la metà del fatturato annuo di un editore. Questo significa un autentico sconvolgimento per la distribuzione e naturalmente per i librai (a Firenze purtroppo ce ne siamo accorti: Marzocco, Il Porcellino, ora anche Edison: le librerie storiche della città non ce la fanno). Sul breve l’editore può anche trarne un vantaggio – perché abbatte un costo importante –, ma sul lungo periodo non credo ci sia da rallegrarsi di una evoluzione del genere: personalmente credo che la civiltà del libro si tenga in piedi tutta insieme o venga giù tutta.
Ma l’editoria ha subito un impatto ancora più rivoluzionario da parte dell’informatica nella produzione (cosa che credo non si possa dire di molti altri settori manifatturieri). Non solo da anni il lavoro di un autore arriva in casa editrice via file (questo riguarda ancora il solo processo produttivo), ma oggi è il prodotto libro ad essere radicalmente modificato. L’ebook, che sta crescendo e continuerà a crescere, ha alcune caratteristiche veramente notevoli: una biblioteca intera a disposizione in un oggetto che pesa pochi grammi, la possibilità di un acquisto istantaneo (che non necessita nemmeno dell’intermediazione di un corriere), e poi le potenzialità credo ancora inesplorate dell’editoria tecnica e per i giovani: la possibilità di diagrammare interi ambiti del sapere, che il lettore potrebbe ricostruire autonomamente in una dialettica proficua tra ordine e libertà. Quanto alla questione su cui tutti si interrogano: resterà il libro cartaceo o verrà soppiantato da quello elettronico? Io credo che resterà. Mi pare che la tecnologia delle comunicazioni presenti uno sviluppo ad albero, più vicino a un modello di accrescimento di tipo biologico (o dialettico in senso hegeliano, se si vuole), nel quale cioè gli stadi precedenti rimangono nell’organismo che si sviluppa. Il vecchio resta accanto al nuovo, anzi certe volte è il più nuovo a diventare più vecchio: la tv generalista è avvertita da molti di noi come più vecchia della radio, mentre la cosiddetta “realtà virtuale” che ha popolato i nostri sogni (e qualche nostro incubo) negli anni ’90 sembra scomparsa dall’orizzonte (so di un editore che puntò tutto sul multimediale, convinto che quello fosse il futuro, e chiuse). L’ebook di oggi ha enormi attrattive (non ultime di tipo ecologico: è un immenso risparmio di carta), ma penso che il gesto di sfogliare un libro, di tenerlo su uno scaffale e riprenderlo all’occorrenza, di sottolinearlo con una matita, con tutte le impurità connesse a queste attività (sbavature della matita, orecchie alle pagine, appunti, fiori lasciati nel mezzo, liste della spesa appuntate, ecc.) e le risonanze psichiche che esse determinano, sia qualcosa di cui l’umanità non vorrà disfarsi tanto facilmente.
Questo mi fa pensare a un tema importante della tecnologia delle comunicazioni, cioè quello della scomparsa delle tracce, e il senso di perdita che ciò determina. Le mail che ci mandiamo non resteranno, i manoscritti dei libri non restano, i libri stessi ora sono in dubbio come oggetto materiale. C’è un aspetto di smaterializzazione e sterilizzazione nella tecnologia della comunicazione che è davvero inquietante e che io credo dia il suo contributo al senso di perdita di identità che ciascuno di noi sperimenta su di sé e che è una delle grandi fonti del disagio psichico contemporaneo.
Un altro aspetto da tenere d’occhio sono i blog e le communities. Oggi molti editori creano delle discussioni online su alcuni dei loro libri e non è lontana l’idea di testi che si modificano indefinitamente per l’intervento dei partecipanti. Interessante in potenza, l’idea è ancora nebulosa. Potrebbe nascerne una forma letteraria inedita, a cavallo tra scrittura e oralità, cioè racconti della nostra epoca scritti a più mani, anonimi e accessibili gratuitamente in rete. E’ una prospettiva molto lontana dalla nostra idea moderna di cultura “alta” (coi suoi due pilastri: l’ipostasi autoriale e la tendenza un po’ mortifera alla museificazione), ma proprio per questo interessante: per una via tecnologica si tornerebbe a qualcosa di simile al testo anonimo e liberamente rimaneggiabile dei poemi antichi e medioevali. Potrebbe perfino rivelarsi la forma letteraria più rappresentativa della nostra epoca. Più complicata, ma non impossibile, mi pare una soluzione del genere nel caso della scrittura saggistica: le probabilità che un testo di discussione degeneri in rissa sono assai più alte, e tuttavia anche questo potrebbe essere un esercizio di autoeducazione di grande rilievo. Le pagine di Wikipedia sono lì a dimostrarlo.
Devo aggiungere però un’osservazione probabilmente un po’ sgradita agli entusiasti della rete, e cioè che il libro è il frutto di una solitudine ed è rivolto ad altre solitudini. Ovviamente il libro serve anche a creare opinione pubblica (lo ha sempre fatto: si pensi al ruolo dei philosophes per la rivoluzione francese), ma perché vi sia vera comunicazione, cioè condivisione di contenuti psichici, dev’esserci di necessità il suo opposto, e cioè la solitudine come coltivazione riflessiva di essi. Altrimenti la comunicazione finisce col divorare i suoi stessi presupposti e allora rimane solo l’idea della comunicazione, anzi la sua ideologia. Già oggi l’impressione è che l’equilibrio si sia rotto e che la comunicazione cresca non solo senza che la nostra crescita interiore se ne avvantaggi, ma a discapito di essa. Il libro come oggetto e la lettura come elemento possibile di una civiltà poggiano su alcuni presupposti culturali di fondo e uno di questi è la capacità di vivere “buone solitudini”
C’è infine il tema anch’esso controverso del diritto d’autore. C’è una leggenda incredibilmente persistente in proposito: la leggenda delle major (che in Italia sono notoriamente Rizzoli e Mondadori, più De Agostini e Mauri). Fotocopiare un libro, oggi scaricarlo da internet con un pdf, o addirittura rubarlo in una libreria (ho sentito anche questa) non è percepito come un furto, ma come un atto più o meno giustificato, una specie di “esproprio proletario” in nome del principio secondo cui la cultura è di tutti. La cosa buffa in tutto questo è che chi sostiene un’idea simile poi magari si riscalda sui cinesi che copiano i nostri marchi e ci rubano scorrettamente lavoro: la contraddizione tra i due comportamenti non viene colta. Una grande casa editrice scolastica come la Zanichelli perdeva dieci anni fa metà del fatturato in fotocopie: era una prassi che colpiva le major? Direi di no, colpiva il bravo Enriques, cioè un editore indipendente (sottolineo: indipendente), ma soprattutto colpiva il lavoro, il lavoro in ingresso (che evidentemente non entra, se metà del fatturato se ne vola via), e aumentava il precariato (che rimane tale per la stessa ragione). E’ questo l’esito più probabile del furto di proprietà intellettuale, che si traduce comunque o in un contenimento del personale (licenziamenti, mancate assunzioni) o nella chiusura, cioè nello spegnersi di una voce. Cioè esattamente nell’opposto delle ragioni che porta chi (anche in buona fede) pensa in questo modo di colpire una major: una major ha mille modi di difendersi (i grandi capitali si spostano, lo sappiamo), un piccolo editore no, il lavoro meno ancora. E sono questi due soggetti ad essere colpiti. Il risultato più probabile è quello paradossale di potenziare le major, di accrescere il carattere già spiccatamente oligopolistico del mercato librario italiano, cioè di ridurre l’offerta culturale alternativa alla loro (che spesso non brilla per originalità e sperimentazione). Questo vorrei che diventasse davvero chiaro ai miei coetanei e ai più giovani, perché ci vuole davvero un cambio di mentalità: qui la domanda non è che cosa può fare l’editoria per i giovani, ma che cosa possono fare i giovani per l’editoria: ecco, non abboccare a queste leggende, non dire che un libro a 25 euro è caro quando si indossa una camicia che ne costa 100 o si ha in tasca un telefonino da 250. Oppure dirlo, se si vuole, ma allora essere consapevoli che si mettono avanti alla cultura altri valori (niente di male, basta non sproloquiare sulla “cultura libera”).
Ciò detto è evidente che c’è bisogno di una ripensamento profondo del concetto stesso di diritto d’autore e che la ragione prima di questa revisione è proprio internet, che consente per la prima volta nella storia dell’umanità la messa in comune di una quantità di sapere gigantesca e questa è veramente un’opportunità straordinaria, in cui gli aspetti positivi superano comunque di gran lunga ogni possibile obiezione.
Credo però che il vero tema non sia né economico né giuridico, ma culturale. Oggi chiunque può, accordandosi con amazon, mettere in vendita un suo ebook: qualcuno di questi libri ha avuto anche successo, la gran parte rimane nell’anonimato. Ora, questo è un incremento di libertà effettiva per l’autore e per il pubblico dei lettori? Per un verso, sicuramente sì, perché gli editori tante volte sbagliano: gli editori più commerciali magari bocciando un libro di valore, ma che secondo loro non venderebbe; quelli di cultura lo bocciano, perché non sentono il libro in linea con il loro progetto (basti ricordare le difficoltà incontrate da un romanzo come Il Gattopardo). Tuttavia credo che in una strategia come quella di amazon ci sia più indifferenza, che libertà, che amazon così facendo abdichi del tutto al ruolo culturale dell’editore limitandosi a quello esclusivamente commerciale (d’altronde amazon è un distributore e non basta mettere a disposizione un libro per trasformarsi in editore). Il presidente Obama, in un bel discorso di un paio di anni fa ai ragazzi di una scuola americana, disse che era fondamentale nell’età dell’informazione sviluppare una robusta capacità di vaglio critico e di sintesi: l’informazione di per sé non è ancora un bene, deve diventare conoscenza, cioè integrarsi nella struttura psichica dell’individuo e promuoverne la crescita. L’accostamento può stupire, ma sono cose che dice già Nietzsche nella terza delle “Considerazioni inattuali”: un eccesso di informazione comporta alcuni rischi: sgretolamento delle capacità critiche, indebolimento della riflessività, tutte capacità che a una buona democrazia servono. Non voglio fare il catastrofista, dico solo di tener d’occhio i possibili rischi della strada che abbiamo preso (e che è oramai irreversibile, questo è chiaro).
Le “figure-filtro”, cioè coloro che, competenti dentro un dato ambito, sanno esercitare quella capacità di giudizio, che – diceva Kant – si impara soltanto facendo, sono figure forse ancora più fondamentali nella civiltà dell’informazione che non prima. E l’editore di cultura è l’esempio per antonomasia di una figura-filtro: non so se continuerà a chiamarsi così, né con quali strumenti finirà con l’esercitare la sua professione, ma non credo che il progresso tecnico abbia reso obsoleta questa figura. Al contrario, forse è ancora più determinante e paradossalmente proprio nei suoi aspetti pre-moderni: i grandi impianti industriali dell’editoria novecentesca, simboli orgogliosi e tangibili della modernità, versano da tempo in una crisi irreversibile (un esempio: oggi nessuna casa editrice ha un impianto tipografico interno, spesso neppure un magazzino o una distribuzione sua propria: tutte cose frequenti fino a quarant’anni fa); di contro vengono in primo piano gli aspetti meno riproducibili della professione: non ci sono scorciatoie, né master possibiliper acquisire la capacità di collocare un testo nella sua giusta dimensione culturale; si può soltanto aver raffinato sempre di più la propria sensibilità al testo leggendo le cose migliori della storia della cultura e riflettendoci sopra. Così si forma un parametro di misura interno, che consente di individuare nella tanta produzione letteraria contemporanea quello che vale e che deve essere offerto al pubblico dei lettori. In questo senso, in tutta la sua matrice artigianale e forte di una capacità di indirizzo che non si lasci schiacciare né dalle mode, né dal mercato, credo che della figura dell’editore ci sarà ancora bisogno.