Eataly, Alcoa e i vicoli ciechi
di Claudio Lombardi –
Aperto il 21 giugno è la novità che sta coinvolgendo un numero crescente di romani. Eataly a Roma è la prosecuzione di un esperimento già avviato a Torino, Milano, New York, Tokio. La sede romana è il vecchio terminal Ostiense costruito nel 1990 e mai utilizzato diventato nel tempo una delle zone più degradate della città. Un modello positivo, dunque, che sgride particolarmente con quello che rischia di diventare un modello negativo: Alcoa
Aperto il 21 giugno è la novità che sta coinvolgendo un numero crescente di romani. Eataly a Roma è la prosecuzione di un esperimento già avviato a Torino, Milano, New York, Tokio. La sede romana è il vecchio terminal Ostiense costruito nel 1990 e mai utilizzato diventato nel tempo una delle zone più degradate della città. Adesso la zona è frequentata ogni sera da migliaia di persone e il terminal che non è più in stato di abbandono finalmente può anche essere apprezzato per la sua estetica rinnovata e migliorata.
Il modello Eataly è fondato sulla valorizzazione delle produzioni artigianali di prodotti alimentari di eccellenza fatte uscire dalle nicchie territoriali in cui sono nate e messe a disposizione di un pubblico numerosissimo che le può acquistare (e consumare) in spazi commerciali dove funzionano anche tanti ristoranti specializzati e punti di ristoro. L’ambiente è molto curato, armonioso, accogliente e gradevole e la qualità sta pure negli arredi e nel rapporto con il personale che ci lavora. 500 sono state le assunzioni quasi tutte di giovani e le regole che Eataly si è dato prevedono che le retribuzioni stiano nel rapporto di 1 a 5 ossia il massimo non può andare oltre 5 volte il minimo. Quindi posti di lavoro, ma anche un aumento delle produzioni di alimenti da parte di aziende piccole molto radicate nel territorio che sono incentivate a puntare sulla qualità. Scontato aggiungere che l’idea di Eataly punta a diffondersi nel mondo con un ovvio incremento delle esportazioni.
A questo punto qualcuno penserà che questo sia uno spot pubblicitario. Ebbene no, vi state sbagliando di grosso, questo è un discorso politico sulla crisi italiana in tutti i suoi aspetti: finanza pubblica, lavoro, etica pubblica e convivenza civile, posto dell’Italia nel mondo ecc.
Adesso vediamo un altro tipo di sviluppo che possiamo chiamare il modello Alcoa, ma che, in effetti, è quello che risale all’epoca delle partecipazioni statali e abusato nella fase calante quando ormai erano usate come una discarica a spese della collettività per le aziende in crisi.
Alcoa è stata per decenni un’azienda sussidiata dallo stato ovvero non avrebbe potuto funzionare senza contributi pubblici e, è bene chiarirlo, senza i contributi che tutti i consumatori di energia elettrica si sono spartiti con la bolletta elettrica. Sì perché Alcoa andava avanti grazie ad uno sconto sul prezzo dell’energia che finiva fra gli oneri che venivano scaricati su tutti gli utenti. Quindi da anni tutti noi abbiamo partecipato al finanziamento di Alcoa senza saperlo. Arrivato lo stop da parte dell’UE per gli aiuti di stato Alcoa ha cominciato a perdere ogni anno decine di milioni di euro. Non solo, ma inquina e non porta un vero sviluppo del territorio.
Il modello Alcoa è però la replica di tanti altri casi che, tutti insieme, furono definiti “le cattedrali nel deserto” e che pensavano lo sviluppo dipendesse da singole industrie piantate in territori arretrati considerati come zone da colonizzare senza tanti riguardi per l’ambiente e per la salute delle persone. Il caso dell’Ilva di Taranto lo conferma e conferma pure che, a fronte di risultati produttivi positivi, ci stanno costi esterni di molto superiori dei quali si fa carico lo stato quando se ne fa carico, altrimenti li pagano direttamente le persone con la propria vita.
Quindi costi di gestione elevati, sussidi statali o pubblici o scaricati su tutti i cittadini, costi esterni con inquinamento, malattie ecc pagati dalla collettività e il tutto senza un’integrazione con il territorio che finisce per essere dipendente dagli stipendi pagati dalla “cattedrale nel deserto” senza creare sinergie cioè tessuto produttivo coordinato o alternative.
Ma non basta. Il modello azienda sussidiata comporta o stimola inevitabilmente l’arbitrio di coloro che dispongono del potere di spendere i soldi pubblici o che devono governare un territorio. Per esempio, se le autorità chiudono un occhio sull’inquinamento ciò favorisce l’azienda; se non si monitorano gli effetti sulla salute delle persone le malattie appariranno tanti singoli casi privati scollegati fra loro; se l’erogazione dei fondi o dei sostegni di altro tipo (come gli sconti sull’energia) è decisa centralmente sarà più difficile capire chi favorisce chi e con quale motivazione e la strada sarà aperta a scambi di “utilità” fra manager, proprietà e politici.
Insomma due modelli contrapposti, Eataly e Alcoa. Entrambi portano posti di lavoro certamente, ma il primo è il motore di tanti effetti positivi su una catena che parte da produzioni di qualità radicate nel territorio e arriva addirittura a migliorare la convivenza civile attraverso la creazione di luoghi di incontro aperti a migliaia di persone che trasmettono una cultura del rispetto e del piacere di vivere. E non costa nulla alle finanze pubbliche. Il secondo dipende dai soldi pubblici e ha solo ricadute negative portando anche ad una rabbia sociale diffusa che parte da chi si sente prigioniero di quel modello e non vede alcuna alternativa.
Questo ragionamento significa che non bisogna più fare industria in Italia? Nemmeno per sogno; significa che le vie dello sviluppo sono tante, ma lo sviluppo che nasce da iniziative decise da accordi politici e imposte con i soldi pubblici è malsano, porta corruzione e distruzione di risorse e va respinto. Nei vicoli ciechi per far piacere ad industriali collusi e mantenuti, manager arraffoni e politici in cerca di potere gli italiani non ci vogliono più finire.
Tratto da http://www.civicolab.it/?p=2924