Una riflessione su ciò che stiamo vivendo in questo tempo di epidemia di Coronavirus.
E’ difficile vivere questo momento, ma è una solitudine generale e questo suscita dentro di me (e penso in ciascuno) anche un senso di comunità, di appartenenza che solitamente nelle grandi tragedie e sofferenze personali è difficile riscontrare. Le vite degli altri continuano senza variazioni. Un pò di solidarietà o una contrita partecipazione è il massimo a cui la persona colpita possa aspirare. Ora no, ora siamo colpiti tutti, anche se in modo diverso, ma le vite di tutti si sono modificate e questo, al di là delle parole, rende tale condizione comune un cemento che rinsalda profondamente i rapporti umani. Ho taciuto per tutti questi giorni. Non riuscivo a portare a me stessa e a nessuno una qualsiasi forma di riflessione. Il dolore per ciò a cui assistevo era così forte, che mi toglieva le parole. Sono sprofondata in un dolore che conosco, in questo caso anche associato al timore per se stessi. Conosco anche la sofferenza di non aver potuto salutare il proprio caro. Conosco bene ciò che accade, se il legame è profondo.
La retorica della gente ai balconi tanto esaltata, e in qualche caso criticata, si è spenta mestamente dopo una settimana, di fronte alla crescita quotidiana del numero dei decessi. Non mi sento di criticarla, forse sono diventata più tollerante, più comprensiva o forse solo più umana. Anche se io non avevo voglia di cantare, comprendevo il bisogno di unione e di scambio degli altri. Mi inteneriva, in qualche caso mi commuoveva. Ho compreso che per tutti aveva un senso. Era importante per farsi coraggio, per sorridere, per comunicare con gli altri. Penso davvero che sia stato importante, che quei gesti al balcone – applausi, saluti, sorrisi, canti, balli – siano stati il modo di compiere un rito collettivo per esorcizzare la paura, per sentirsi più vicini. per ricreare una comunità, che fino a quel momento non si era mai affacciata a quei balconi per condividere nulla con l’altro. Perché non aveva tempo o solo perché non gli interessava, essendo tutti concentrati su se stessi, all’inseguimento di una felicità fatta di cose da possedere e non di tempo e di momenti per essere.
No. Sinceramente non mi sento di criticare una reazione umana, al fine positiva. Critico la superficialità o il menefreghismo di quelli che non seguono le indicazioni o addirittura gli obblighi di contenimento del contagio, ma gli altri cosa dovevano fare? Cantavano per farsi coraggio, per continuare a sorridere e a sperare. Poi, i canti sono finiti, i toni gioiosi si sono abbassati di fronte alle parole disperate dei medici, alla lunga fila di bare nelle chiese, trasportate dai camion militari, al bollettino quotidiano dei contagiati e soprattutto dei deceduti. In quel numero terribile, crescente ci sono tante vite, tante storie, tanta umanità. Lì resta solo il silenzio e la preghiera. Nessuno ha proposto di affacciarsi alla finestra per accendere una luce per coloro che non ci sono più, per recitare insieme una poesia, una preghiera, una dedica, una canzone delicata. Sottovoce. Per salutare in un rito collettivo chi è mancato, e per offrire un sostegno a chi resta con una ferita nel cuore sanguinante.
Questo è mancato. Dov’è la comunità nel momento del dolore? Dov’è la comunità nel momento in cui non si può sorridere, ma si deve condividere il dolore e il pianto… insieme. Dov’è la comunità? Se i balconi sono il nostro luogo di condivisione, bisogna esserci non solo nel momento dell’allegria, ma anche e soprattuto nel momento del dolore. Se le famiglie che hanno perso i loro cari non hanno potuto piangerli, ricordarli in una cerimonia funebre, dobbiamo stringerci dai nostri balconi a quelle persone e ai loro cari perduti, per fargli sentire che il loro dolore è il nostro, che si può celebrare insieme un rito di commiato, che la comunità c’è. Dov’è questa comunità che agita o espone il tricolore di fronte a quelle terribili immagini di sofferenza e di morte? E’ lì che la comunità deve farsi sentire in maniera più forte. E’ intorno ai più fragili, ai più sofferenti che la comunità deve esserci per sostenerli.
Dove sono i balconi nel momento del dolore? E’ importante, perché questo tempo è un tempo per comprendere e per recuperare la nostra umanità, la nostra semplicità: l’essenziale. Perché “l’essenziale è invisibile agli occhi”, diceva il Piccolo Principe, ma non al cuore. E’ quello che dobbiamo recuperare in questo momento. Non ci sarà bisogno di restrizioni, di obblighi, di divieti, ognuno saprà cosa è giusto fare perché avrà compreso la sua umanità e il valore della vita, del rispetto di ciò che vive, della Natura stessa a cui apparteniamo. E vivrà amando e ringraziando, rispettando e accettando ciò che in questo incredibile, unico e imprevedibile viaggio ci sarà riservato. Questo è importante ora, ma anche dopo, quando ci ritroveremo ad uscire dalle case, a valutare i danni, a ricostruire, a scegliere come e cosa vogliamo ricreare, quale vita vogliamo vivere.
Non basta augurarsi “Andrà tutto bene”, bisogna aggiungere che “se anche non andrà tutto bene, io ci sono”. Sono queste le semplici parole, ma potentissime, che fanno di ogni individuo una comunità, una forza invincibile, indistruttibile. “Io ci sono” nella gioia e nel dolore senza bisogno di pronunciarle quelle parole, ma di incarnarle. Non conta tanto dirsi l’un l’altro “Andrà tutto bene”, vale soprattutto mostrare l’uno all’altro che “Io ci sono, qualunque cosa accada”.